Come possono arrivare le risorse di gas del grande ‘Leviatano’ israeliano

Israele è diventato un Paese produttore ed esportatore di gas solo da una decina di anni, dopo la scoperta di diversi giacimenti al largo delle sue coste nel Mediterraneo: il giacimento ‘Tamar‘ (300 miliardi di metri cubi) e il ‘Leviathan‘, al largo di Haifa (620 miliardi di metri cubi). Ma non ha un oleodotto che colleghi le sue piattaforme di trivellazione nel Mediterraneo ai mercati dell’Europa meridionale ed è in disputa con il Libano sulla delimitazione di parte della zona con diritti esclusivi.

Per l’esportazione, gli israeliani hanno a disposizione tre opzioni principali.

La prima è utilizzare il ‘gasdotto della pace’ , che collega Ashkelon (in Israele, poco sopra la striscia di Gaza) con Al-Arish (in Egitto, sulla costa del Sinai). A dicembre del 2021, l’italiana Snam ha acquistato il 25% del gasdotto dall’azienda energetica thailandese Ptt Energy Resources. È un collegamento sottomarino lungo circa 90 chilometri. La capacità massima di trasporto giornaliera è di circa 12 milioni di metri cubi ed è prevista in espansione. Realizzato nel 2008 per trasportare in Israele gas di provenienza egiziana, dall’inizio del 2020 è diventato, invece, una delle fonti di approvvigionamento energetico dell’Egitto, ricevendo il gas dai due giacimenti offshore israeliani. Ad Al-Arish si potrebbero usare gli impianti esistenti per liquefare il gas e trasportarlo sotto forma di Gnl via nave verso i porti italiani ed europei.

La seconda è l’EastMed, progettato per sfruttare le risorse del Mediterraneo (stimate nel complesso per 3,5 mila miliardi di metri cubi di gas) tramite Poseidon (consorzio costituito in forma paritaria dall’italiana Edison e dalla greca Depa). Quando sarà completato (non prima del 2027) si estenderà per 1.900 chilometri, di cui un terzo su terraferma e il resto in mare, con l’obiettivo di importare in Europa 10 miliardi di metri cubi di gas all’anno dai depositi di Cipro e Israele. Un’operazione il cui costo viene stimato attorno ai 6 miliardi di euro e che sarà gestito da Eni, Total, Chevron e da altre note aziende a livello internazionale.

La terza opzione, geopoliticamente più complessa, è quella di costruire un gasdotto di allaccio da Israele alla turca Tanap, già agganciata alla Tap al confine con la Grecia per attraversare l’Albania, il mare Adriatico e approdare sulle coste salentine di San Foca, in Puglia.

infografica

Gas, Draghi in Israele e Palestina per consolidare Italia hub Ue

La strategia energetica italiana passa anche da Israele. Il presidente del Consiglio, Mario Draghi, è a Tel Aviv, dove ha incontrato il presidente dello Stato di Israele, Isaac Herzog, prima di intervenire al Tempio Italiano di Gerusalemme, dove ha garantito che “il governo è impegnato a rafforzare la memoria della Shoah e a contrastare le discriminazioni di ogni tipo contro gli ebrei“, perché “in momenti di crisi, di incertezza, di guerra, come quello che stiamo vivendo, è ancora più importante opporsi con fermezza all’uso politico dell’odio“.

Il premier, poi, ha fatto visita al Museo di arte ebraica ‘Umberto Nahon’ e alla Sinagoga italiana, incontrando i rappresentanti della comunità italiana e ponendo la firma firma sul Libro d’onore. Infine, per la prima giornata di visita diplomatica ha avuto un incontro alla Knesset con il ministro degli Esteri israeliano, Yair Lapid, che lo accoglie con un tweet, che inizia con una frase in italiano: “Buonasera primo ministro e benvenuto in Israele“. Poi un messaggio, nella sua lingua madre, dal contenuto più che benaugurante: “Italia e Israele intrattengono rapporti lunghi e cordiali e di cooperazione economica, di sicurezza e culturale – scrive Lapid -. Continueremo a lavorare insieme per rafforzare e approfondire le relazioni tra i nostri Paesi“.

Oggi, invece, è in agenda il vertice tra Draghi e il primo ministro, Naftali Bennett, poi il trasferimento a Ramallah, per il summit con primo ministro palestinese, Mohammad Shtayyeh, cui seguirà la cerimonia di firma delle intese bilaterali tra Italia e Palestina. Tra gli obiettivi della missione diplomatica c’è sicuramente il rilancio del progetto del gasdotto che potrebbe portare nuove, importanti forniture dal maxi-giacimento Leviathan in Europa, tramite un’infrastruttura che trasporti il Gnl dalle acque a largo di Israele. Si tratta di un patrimonio di gas naturale liquefatto di circa 600 miliardi di metri cubi: se ci fosse l’accordo, l’Italia – ma anche il Vecchio continente – riuscirebbe nel doppio colpo di incrementare la politica di diversificazione delle fonti energetiche, ma soprattutto darebbe un segnale fortissimo alla Russia, che l’operazione di chiusura delle forniture da Mosca sarebbe prossima a completarsi.

C’è ancora molto da lavorare, però, perché non è affatto risolto uno dei problemi più pesanti da sostenere. Il gasdotto EastMed, che ad oggi rimane ancora sulla carta, con i suoi 5 milioni di dollari circa di costi, ma soprattutto un progetto che stenta a decollare, perché prevede un passaggio per Cipro e Grecia. Molto dipenderà anche dall’atteggiamento che assumerà la Commissione europea, tant’è vero che la presidente Ursula von der Leyen è sbarcata in Israele per discutere di “energia e sicurezza alimentare, intensificando la cooperazione in materia di ricerca, salute e clima“. Sull’opera, comunque, rimangono le riserve (per usare un eufemismo) della Turchia. E anche degli Stati Uniti. Una partita non facile, dunque, che Draghi sta provando a giocare con il suo peso istituzionale. Perché il tempo delle scelte è adesso.

Il mare Adriatico, il gas e la Croazia: qualcosa non va…

C’è qualcosa che non torna, qualcosa a cui – prima o poi – qualcuno dovrà mettere mano. Sintetizzando: in questa corsa matta e disperatissima ad acchiappare il più flebile sbuffo di gas (anche in considerazione degli attuali rapporti con la Russia e della necessità di raggiungere l’agognata indipendenza da Mosca), nel mare Adriatico sono stati scoperti giacimenti a migliaia di metri sotto il fondale, un po’ per noi italiani e un po’ per i vicini della Croazia. Ma mentre il governo di Zagabria ha dato subito l’ok per cominciare le pratiche di estrazione, noi abbiamo stabilito che perforare non è lecito. Fermi, bloccati, che trapanino pure gli altri…

Domanda, perché loro si e noi no? La risposta va ricercata in una legge di vent’anni fa che vieta di eseguire qualsiasi tipo di trivellazione a nord del Po per paura di recare danno alla laguna di Venezia e alle zone limitrofe. Ora, quanto sia ancora attuale quella disposizione non è facile da stabilire, geologi e ingegneri ne stanno discutendo e chissà quando avremo una risposta: intanto la Croazia perfora e perfora e perfora. Siccome i giacimenti loro sono sostanzialmente confinanti con i nostri, se noi abbiamo paura di danneggiare Venezia, loro ovviamente non se ne fanno un cruccio. Forse converrebbe fare una riflessione allargata, mentre alcuni deputati (di destra e di sinistra, stavolta siamo bipartizan) stanno tentando di modificare la situazione di stallo attraverso lo strumento degli emendamenti. Il rischio, se non si fa in fretta, è quello di restare al palo e di non sfruttare tra i 30 e i 40 miliardi di metri cubi di metano. La Croazia, sempre per rimanere in tema, pensa di estrarne 36 abbondanti.

Ce la faremo a mettere d’accordo politici, aziende energetiche e ambientalisti? Ce la faremo a non darci la zappa sui piedi? Nell’attesa di scoprirlo, una considerazione va fatta. Il mare Adriatico, in particolare l’Alto Adriatico, ha assunto ormai una funzione strategica. Non a caso è proprio nell’Adriatico che Roberto Cingolani, ministro della Transizione ecologica, si è messo in testa di aggiungere al rigassificatore di Rovigo (Porto Viro) l’approdo di Ravenna per una nave metaniera. E sempre non a caso la regione Marche si è detta disponibile ad aiutare il processo energetico italiano offrendo le sue coste. Insomma, in questa torrida estate l’Adriatico è quanto mai mare aperto, non solo per noi ma anche per gli altri. A cominciare dalla Croazia…

gasdotto

Via libera Ue al tetto gas per Spagna e Portogallo

‘Sì’ di Bruxelles a un tetto al prezzo del gas naturale usato per la produzione di energia nelle centrali elettriche. Ma solo per Spagna e Portogallo. È arrivato mercoledì 8 giugno in serata il via libera definitivo della Commissione europea al ‘cap’ proposto da Madrid e Lisbona per ridurre i prezzi all’ingrosso dell’elettricità nel mercato della penisola iberica, affrontando così il rincaro energetico trainato anche dalla guerra in Ucraina (la Russia è il primo fornitore di energia all’UE).

La misura sarà provvisoria e durerà fino al 31 maggio 2023. Nello specifico, il tetto è fissato a 40 euro per megawattora durante i primi sei mesi dall’entrata in vigore e aumenterà di 5 euro al mese per arrivare a 70 euro a partire dal dodicesimo mese. In linea con gli aiuti di stato dell’UE, entrambi i regimi hanno un valore complessivo di 8,4 miliardi di euro (6,3 miliardi di euro per la Spagna e 2,1 miliardi di euro per il Portogallo) e serviranno per ridurre i prezzi all’ingrosso dell’elettricità nel mercato iberico abbassando i costi di input delle centrali elettriche alimentate a combustibili fossili.

Il sostegno, spiega la nota, assumerà la forma di un contributo diretto ai produttori di energia elettrica (in sostanza alle centrali elettriche a gas e carbone) per finanziare parte dei loro costi. “Anche se il nostro obiettivo finale è ridurre l’impatto sui prezzi dell’energia per i consumatori”, ci spiega un funzionario dell’Ue. “La misura temporanea consentirà a Spagna e Portogallo di abbassare i prezzi dell’elettricità per i consumatori che sono stati duramente colpiti dall’aumento dei prezzi dovuto all’invasione russa dell’Ucraina”, ha spiegato la vicepresidente responsabile per la concorrenza, Margrethe Vestager. La misura eccezionale sarà finanziata in parte dal cosiddetto ‘reddito di congestione‘ (vale a dire il reddito ottenuto dal Gestore del sistema di trasmissione spagnolo a seguito degli scambi transfrontalieri di energia elettrica tra Francia e Spagna), e in parte da una tassa che sarà imposta dai due governi agli acquirenti che beneficiano della misura.

Il periodo di tempo di un anno, spiegano ancora fonti, dovrà essere usato dai governi (soprattutto quello di Madrid) per “adottare altre misure che siano in grado di abbassare i prezzi”, ad esempio la revisione della tariffa regolamentata. Al Vertice europeo del 24 e 25 marzo i premier di Spagna, Pedro Sánchez, e Portogallo, António Costa, erano riusciti a ‘strappare’ agli altri capi di stato e governo il via libera informale alla possibilità di un “trattamento speciale” nel mercato energetico dell’UE per aiutarli a combattere l’impennata dei prezzi dell’energia. La ragione è che la penisola iberica ha una situazione molto particolare a livello energetico, gode di “pochissime interconnessioni” con il mercato centrale dell’Ue e un alto carico di energie rinnovabili. Per questo Bruxelles ha acconsentito a lavorare bilateralmente con i due governi per riconoscere la cosiddetta ‘eccezione iberica’, trovando un accordo di principio lo scorso 26 aprile.

Di maio

Di Maio: “Con caro energia e materie prime la guerra incide su Pnrr”

La guerra in Ucraina incide negativamente anche sul Piano nazionale di ripresa e resilienza. Il costo dell’energia e quello dei materiali, purtroppo, hanno effetti negativi sulla realizzazione di parte dei progetti del Piano. Così, il ministro degli Esteri, Luigi Di Maio, a margine del convegno dal titolo ‘Il Pnrr e i principali driver per un modello di sviluppo sostenibile’, affronta il legame guerra-Pnrr.

Le conseguenze del conflitto non si fermano a Mosca e Kiev, ma interessano il mondo intero. Per fare un esempio, spiega il ministro, “rischiamo che scoppino nuove guerre a migliaia di chilometri di distanza dall’Ucraina a causa del fatto che la Russia con le navi militari sta bloccando l’export di grano dai porti ucraini. L’Italia lavora a un’iniziativa che coinvolge tutti i Paesi del Mediterraneo e i nostri partner, e questa settimana terremo un importante evento di dialogo tra tutti gli Stati per trovare una soluzione che, per esempio, eviti una crisi alimentare che provochi maggiori flussi migratori verso il BelPaese“.

Intanto, sono stati mossi i primi passi per resistere alle inevitabili conseguenze della guerra. “Le nuove partnership con Qatar, il Congo, l’Algeria, l’Angola, l’Azerbaijan e il Mozambico ci permetteranno di diversificare sempre più le fonti di approvvigionamento, al momento importiamo il 40% del gas dalla Russia”, dichiara il responsabile della Farnesina. Alla dipendenza da Mosca, dunque, si arriverà, ma non senza oltrepassare alcuni ostacoli. Oggi, infatti, “siamo in grado di negoziare e quantità di gas con i Paesi esteri ma non siamo in grado di stipularne il prezzo perché come in Europa il prezzo del gas si determina al Ttf di Amsterdam, una sorta di borsa dove si decide il prezzo per tutto il Vecchio continente”.

A fronte di questo, sottolinea il responsabile della Farnesina, si è già discusso, ma si discuterà ancora, dell’adozione di un tetto massimo al prezzo del gas, un regolamento europeo che permetta a livello europeo di non andare oltre una certa soglia. Il fatto è che “in Italia il prezzo del gas è collegato a quello dell’energia elettrica, anche se non prodotto da gas. E’ un meccanismo di legame che esisteva tanti anni fa e che si basava sul principio di quando il gas aveva un prezzo abbastanza moderato, ma adesso le dinamiche non sono più così, quindi anche la produzione di energia elettrica da rinnovabili risente del prezzo del gas”, conclude Di Maio. La necessità del tetto massimo è impellente ed è una battaglia che deve vedere tutti uniti, al di là dei colori politici e dei livelli istituzionali, per arrivare a centrare l’obiettivo.

Energia, Cingolani: Alleanza globale come Covid. Nucleare utile

Il tetto europeo al prezzo del gas è un’ottima notizia, ma la strada da percorrere è ancora lunga. Ne è consapevole il ministro della Transizione ecologica, Roberto Cingolani, che mette in fila tutte le varianti per uscire dalla dipendenza russa (“letale per l’economia“) e avviare una nuova strategia energetica che metta al riparo da speculazioni e oscillazioni del mercato, soprattutto quelle speculative. Perché ormai “siamo già in recessione“. Alla base di tutto, però, c’è la necessità di creare una alleanza globale” anche per l’energia, sulla falsariga di quanto avvenuto in questi anni per contrastare la pandemia: “Avevamo detto che per sviluppare un vaccino per il Covid ci volevano 8-10 anni, ma abbiamo collaborato e l’abbiamo sviluppato in 8 mesi“, è l’esempio che porta il ministro. Anche perché la guerra in Ucrainaavrà un forte impatto sulla transizione ecologica“, avverte. Ricordando che “la grande sfida” in questa fase storica è “mantenere la barra dritta, investire nelle nuove tecnologie e rivedere le regole di mercato, altrimenti arriveremo al 2030 inadatti ad accogliere le sfide della decarbonizzazione“.

Le responsabilità, però, hanno un passato lungo. “Avremmo dovuto avere una visione più chiara – sottolinea Cingolani – avremmo dovuto essere più intelligenti per gestire al meglio il mix energetico“, ecco perché “è ora di cambiare“, servono “fonti verdi programmabili ed è necessario lo sviluppo di nuove tecnologie” nell’ambito “della cattura del carbonio, della fusione nucleare, di piccoli reattori moderni“. Già, quel nucleare che fa sobbalzare dalla sedia associazioni e partiti politici, ma che nella sua accezione moderna è “una strada che va esplorata e considerata in questa fase“, secondo il ministro. “E’ un esempio di tecnologia utile, basata su materiali con radiazioni molto più basse” rispetto al passato e “gli stabilimenti possono essere costruiti off shore, funzionano, vanno bene, se vengono spenti non creano fenomeni pericolosi e dopo 30 anni vengono smantellati“, elenca. Ribadendo il concetto: “Si tratta di un sistema molto utile in una fase di transizione. Può essere una fonte importante, anche se non esclusiva” e soprattutto “offre molte opportunità“, quindi “è un bene investire in questo tipo di tecnologia“.

Perché la realtà dei fatti va guardata a 360 gradi e senza pregiudizi. Grandi alternative, al momento, non sono esplorabili, come l’energia delle onde, perché “quella derivata dal mare è troppo cara“. Anche se “buona e illimitata, non possiamo permetterci delle energie che siano così costose e difficili da produrre“, ammonisce Cingolani, che invece punta su “fonti accettabili anche in termini economici“. Per inciso, il responsabile del Mite conferma, ancora una volta, che in funzione della carenza di energia “molti Paesi stanno riprendendo le centrali a carbone“, ma all’Italia “questo non succederà“. Semmai occorre puntare su strumenti come il riciclaggio e la seconda vita dei prodotti, su cui “stiamo investendo molto“, perché “l’economia circolare è una risorsa fondamentale per la transizione energetica“.

Altro capitolo che resta cruciale è quello delle rinnovabili, su cui l’Italia mette diverse fiches nella strategia nazionale, anche se “il processo di transizione verso il sistema energetico decarbonizzato basato sulle fonti rinnovabili necessità di un rafforzamento e potenziamento Rete elettrica di trasmissione nazionale“, ammette Cingolani. Ricordando che il gestore del servizio elettrico nazionale, Terna, ha “una programmazione con investimenti per oltre 18 miliardi di euro nel decennio“. Il cerchio, infine, si chiude tornando al price cap, che una parte di maggioranza vorrebbe non solo europeo, ma anche nazionale sulla scorta di quanto fatto da Spagna e Portogallo. Modello che per il ministro “non è replicabile come formula nel nostro Paese“.

Oltre al problema dell’approvvigionamento energetico, l’Italia sconta anche altri effetti negativi dall’azione speculativa dei mercati e dal conflitto scatenato dalla Russia in Ucraina. Come quello dell’aumento dei prezzi dei carburanti. Finora il governo è intervenuto per mitigare l’effetto dei rincari ed è pronto a farlo ancora. Anzi, “è molto probabileche Palazzo Chigi vari nuovi provvedimenti a breve sulle accise, come anticipa ai microfoni di ‘RaiNews24‘ la sottosegretaria all’Economia, Maria Cecilia Guerra: “L’aumento – spiega – fa crescere anche il gettito dell’Iva“, che “non vogliamo mettere nelle casse dello Stato“, ma utilizzarlo per “tenere calmierato” il costo dei carburanti. La partita strategica, dunque, resta apertissima.

Dal Consiglio Ue apertura per il tetto al prezzo del gas

Non solo embargo sul petrolio russo. Il Vertice Ue straordinario che si è tenuto a Bruxelles lunedì e martedì si chiude con la richiesta alla Commissione Europea di esplorare tutte le opzioni per affrontare l’impennata dei prezzi dell’energia di fronte alla crisi in Ucraina. Tra queste, i leader chiedono all’Esecutivo comunitario di studiare “la fattibilità” di imporre a livello europeo “tetti temporanei dei prezzi all’importazione” dell’energia, che dovrebbero essere esplorati anche in “coordinamento i partner internazionali”, si legge nelle conclusioni.

L’invito a studiarne la fattibilità, non significa che sarà introdotto un tetto temporaneo al prezzo del gas. Ma di fatto è una apertura da parte dei leader Ue a studiare in modo più approfondito a livello europeo la richiesta di fissare un tetto temporaneo ai prezzi del gas e dell’elettricità nel mercato dell’Ue, analizzandone i potenziali effetti negativi e positivi nel quadro del rincaro energetico che l’Europa vive dallo scorso autunno e che si è intensificato a causa delle tensioni geopolitiche con la Russia. Ora una apertura c’è, anche da parte dei Paesi del Nord Europa, come Germania e Paesi Bassi, che fino a ora si erano detti contrari a un intervento massiccio sul mercato.

Rispetto all’ultima bozza di conclusioni circolata a Bruxelles alla vigilia del Vertice, la versione finale delle conclusioni aggiunge un riferimento all’energia “importata”, ma non c’è un accenno specifico al gas importato dalla Russia, su cui invece aveva spinto Draghi. La richiesta portata a Bruxelles dal premier italiano era infatti molto specifica per fissare un prezzo al tetto importato solo dalla Russia e attraverso i gasdotti. La differenza è di sostanza, perché la proposta italiana era mirata a far valere il potere d’acquisto dell’Ue come principale acquirente dei combustibili russi e imporre in questo modo una sanzione indiretta al Cremlino.

Alla due giorni di Vertice Ue a Bruxelles, i capi di stato e governo hanno “compreso l’importanza di lavorare anche con i nostri partner e esplorare la possibilità di fissare un tetto ai prezzi” energia “sulle importazioni”, ha sintetizzato il presidente del Consiglio europeo, Charles Michel, in conferenza stampa al termine del Summit. I leader dell’Ue hanno discusso di energia come una “sfida fondamentale per tutti noi” da affrontare uniti come “Unione europea”, ha aggiunto. I capi di stato e governo hanno avuto un primo “scambio di idee” sul piano presentato dalla Commissione Ue ‘REPowerEU’ per dire addio ai combustibili fossili russi entro il 2027, attraverso la spinta sulle energie rinnovabili, efficienza energetica e maggiori investimenti nelle infrastrutture energetiche.

In caso di shock nell’approvvigionamento di gas – dopo che Mosca ha tagliato le forniture a Polonia, Bulgaria e Finlandia, e ancora Danimarca e Paesi Bassi – i leader hanno convenuto di dover migliorare la preparazione a eventuali interruzioni delle forniture e la resilienza del mercato del gas dell’UE, attraverso accordi bilaterali di solidarietà e un piano di emergenza coordinato a livello europeo per far fronte a eventuali tagli. “Il riempimento dello stoccaggio prima del prossimo inverno dovrebbe essere accelerato”, scrivono i leader accogliendo “con favore l’accordo sullo stoccaggio del gas e chiedendone la rapida attuazione”. La Commissione Ue vuole che gli Stati abbiano entro l’inverno le riserve di gas piene al 80% della propria capacità, una quota che salirà al 90% a partire dal 2023. Secondo le stime fornite dalla presidente Ursula von der Leyen le “nostre riserve di gas sono già piene al 41% della propria capacità, 5 punti percentuali in più rispetto allo stesso periodo dello scorso anno”, ha assicurato.

Parte centrale del Vertice che si chiude a Bruxelles è però l’accordo politico raggiunto nella notte tra lunedì e martedì dai leader dell’Unione europea per un embargo sulle importazioni di petrolio russo che entrerà in vigore verso la fine dell’anno. L’accordo per ora prevede una esenzione sulle importazioni di petrolio attraverso gli oleodotti che trasportano il greggio in Ungheria, Slovacchia e Repubblica ceca, Paesi dipendenti dalla Russia e senza sbocco sul mare. Il via libera di massima – che andrà dettagliato mercoledì dagli ambasciatori – raggiunto a tarda notte è arrivato “quando la Russia ha deciso di tagliare le forniture a ormai cinque Paesi dell’Ue: dopo Finlandia, Bulgaria e Polonia ora anche Paesi Bassi e Danimarca. La nostra risposta deve essere chiara su come realmente ci libereremo dalle importazioni dalla Russia e questa risposta è il piano ‘REPowerEU’”, ha detto ancora von der Leyen in conferenza stampa. Il piano che potenzialmente potrebbe mobilitare fino a 300 miliardi di euro si basa su tre pilastri: rinnovabili, abbattimento consumi energetici e investimenti in nuove infrastrutture e interconnessioni.

grano

Dal gas al grano sono sempre grane: e la soluzione come al solito passa da Bruxelles

È l’effetto G: dal gas al grano. In fondo, sempre di problemi si tratta. Perché, guarda caso, ci sono di mezzo la Russia, l’Ucraina, l’Europa e la parola crisi. La preoccupazione della gente, adesso, si sta spostando progressivamente: da come rinfrescarsi in quest’estate torrida dovendo limitare l’uso dei condizionatori – e da come riscaldarsi nell’inverno che verrà – a come scansare il rischio di dover razionare pasta, pane e affini dalla propria tavola. Per mancanza di materie prime. E di denaro.

Il minimo comune denominatore di gas e grano resta l’aumento dei prezzi: ‘supersonico’ e, spesso, figlio di speculazioni sulle quali le autorità dovrebbero vigilare. La tassa sugli extra profitti delle compagnie energetiche imposta dal governo di Mario Draghi per sostenere gli italiani con il dl Aiuti magari verrà riproposta per quelle industrie alimentari che stanno facendo lievitare sproporzionatamente i costi del cibo. Potrebbe essere una toppa, non sarà mai la soluzione del problema. La soluzione va trovata a Bruxelles, cioè a un livello superiore e internazionale. Una soluzione che, diversamente dal gas, non può essere di indipendenza dalla Russia ma di inclusione della stessa. Lavorano le diplomazie, intanto l’inflazione è alle stelle. Con calma, con calma…

Il grano è una grana. Non meno pelosa del gas. Bastano un po’ di numeri per capire la portata di ciò che rischia di accadere se la situazione non si sbloccherà. Dunque: il 25% della produzione mondiale è a rischio; in Ucraina – considerato il granaio d’Europa –  circa il 30% dei campi resterà incolto; insieme Ucraina e Russia hanno il controllo del 30% degli scambi; il prezzo del grano è salito da gennaio a oggi del 30%; a fine anno il 20% di persone in più al mondo non avrà cibo a sufficienza con un particolare coinvolgimento dell’Africa. Numeri, dicevamo, che sono eloquenti. Ora la priorità è liberare il grano, anzi ‘quel’ grano che è prigioniero nei silos a Odessa, ma non solo. Lo sblocco dei porti deve viaggiare di pari passo con la ricerca di rotte alternative, via treno, quelle ad esempio di Moldavia e di Polonia.

Pare che sul grano Vladimir Putin sia peno intransigente che sul gas, Insomma, un’apertura al dialogo per evitare che alle tensioni energetiche si sommino le tensioni alimentari. L’inquilino del Cremlino forse deve aver valutato che il popolo del mondo può resistere al caldo e al freddo ma non può farcela se non mangia. E la fame porta a reazioni incontrollate. Tipo il ‘cacerolazo’ messo in piedi a Roma dall’associazione dei consumatori: picchiare sulle casseruole per attirare l’attenzione, come nell’Argentina disgraziata di 21 anni fa…

Draghi sente Putin: “Ho chiesto lo sblocco del grano ucraino. Spiragli per la pace? Nessuno”

Il presidente del Consiglio Mario Draghi prova a fare da ‘ponte’ fra Putin e Zelensky. Un ruolo difficile, che potrebbe portare a un nulla di fatto. Ma la gravità della crisi umanitaria lo spinge comunque a fare un tentativo. In primis, per sbloccare il grano che si trova nei depositi in Ucraina. Perché “la crisi alimentare che sta avvicinandosi, in alcuni Paesi dell’Africa è purtroppo già presente, avrà proporzioni gigantesche e conseguenze umanitarie terribili”. Draghi aspetta fine giornata per fare il punto della situazione, dopo avere sentito telefonicamente Putin nel pomeriggio, durante una conferenza stampa densa di argomenti: dagli esiti del Consiglio dei ministri sull’andamento del Pnrr, passando per l’incontro con il presidente algerino Abdelmadjid Tebboune, fino, appunto, al colloquio con il presidente della Federazione russa.

E se per il presidente del Consiglio il tentativo di fare da intermediario era doveroso, proprio per la “gravità della crisi umanitaria che può toccare i più poveri”, è lui per primo a sapere di non avere “alcuna certezza che vada a buon fine”. Per ora, però, c’è un cauto ottimismo, visto che da Putin “c’è stata effettivamente una disponibilità a procedere” nella verifica della possibilità di un accordo tra Mosca e Kiev per lo sblocco dei porti ucraini in cui sono bloccate le navi con i carichi di grano pronti a partire verso il resto del mondo. Anche se il presidente russo non ha mancato di sottolineare che “la crisi alimentare è colpa delle sanzioni, perché la Russia non può esportare il grano”. Il prossimo passo sarà una telefonata di Draghi al presidente ucraino Zelensky, per vedere se c’è un’analoga disponibilità a procedere con il dialogo su questo tema.

Secondo Draghi, in ogni caso, la prima iniziativa esplorabile “è vedere se si può costruire una possibile collaborazione tra Russia e Ucraina sullo sblocco dei porti sul Mar Nero, dove sono depositati questi molti milioni di quintali di grano”. Insufficiente, per Putin, perché i fabbisogni sono molti di più. Ma per l’inquilino di Palazzo Chigi sarebbe già qualcosa: “Ho risposto di sbloccare almeno questo, altrimenti il rischio è che marcisca tutto questo deposito di grano. Per Putin sono bloccati perché minati dagli ucraini per impedire alle navi russe di attaccarli. La collaborazione deve essere quella, da un lato di sminare i porti, dall’altra garantire che non vengano attacchi durante lo sminamento. Non abbiamo parlato a lungo delle garanzie, perché non è ancora detto che le cose vadano avanti”.

La telefonata è stata anche l’occasione di parlare delle forniture di gas. Su questo fronte, Putin ha confermato la determinazione da parte di Mosca “a garantire l’approvvigionamento ininterrotto di gas naturale all’Italia, ai prezzi concordati nei contratti”. Se, quindi, su grano e sicurezza energetica sembrano aprirsi dei piccoli sprazzi di positività, sul fronte della pace l’impressione di Draghi è tranchant: “Ho visto spiragli? No, nessuno”.

UE

Prestiti inutilizzati del Recovery non saranno destinati solo a RepowerEu

I circa 225 miliardi di euro di prestiti non utilizzati dal Recovery fund varato durante la pandemia, che potrebbero essere redistribuiti tra i 27 Stati membri per attuare gli obiettivi del piano ‘RePowerEu’, potranno essere usati per tutti i capitoli di spesa del Piano nazionale di ripresa e resilienza e non solo per quello aggiuntivo dedicato ad attuare l’obiettivo di indipendenza dagli idrocarburi importati dalla Russia. È quanto spiegano a Bruxelles fonti dell’Ue, precisando che solo la parte dei 72 miliardi di euro di sovvenzioni che gli Stati possono mobilitare a questo scopo deviando i fondi di coesione, i fondi della Politica agricola comune (Pac) e le entrate del sistema di scambio di quote di emissioni di Co2 (circa 20 miliardi) saranno in maniera obbligatoria vincolati all’attuazione del RePowerEu, quindi a obiettivi propriamente energetici.

Nell’idea dell’Esecutivo comunitario il piano per l’indipendenza dall’energia russa presentato mercoledì 18 maggio dovrà essere finanziato con circa 300 miliardi di euro, di cui circa 72 miliardi in sovvenzioni e 225 in prestiti. In entrambi i casi non si tratterà di risorse ‘fresche’, nel caso delle sovvenzioni si andranno a deviare fondi già esistenti, mentre nel caso dei prestiti si andranno a utilizzare quelli ancora non usufruiti dagli Stati membri. I governi, precisano le stesse fonti, avranno tempo fino ad agosto 2023 per richiedere i prestiti non utilizzati del Recovery fund.

Nel presentare il piano, la Commissione europea ha proposto un emendamento per modificare l’attuale regolamento della Recovery and resilience facility (Rrf) e una volta che entrerà in vigore la modifica, i governi avranno 30 giorni di tempo per “mostrare un interesse a usufruire dei prestiti” che gli spettano di diritto ma che non hanno ancora richiesto. Se non lo faranno, quei prestiti potranno essere redistribuiti agli altri Stati Ue che hanno già richiesto tutta la loro quota di prestiti, come l’Italia e anche Portogallo, Polonia, Grecia, Cipro, Romania e Slovenia. L’emendamento allo strumento di ripresa proposto dall’Esecutivo comunitario deve ottenere il via libera dei due co-legislatori, Parlamento e Consiglio dell’Ue, ma per ora a Bruxelles non sono chiare le tempistiche.

La modifica ai Piani nazionali di ripresa e resilienza per incorporare gli obiettivi del RePowerEu dovranno andare incontro a una nuova valutazione da parte di Bruxelles. Il capitolo aggiuntivo al Pnrr avrà “un regime di valutazione speciale” e l’Esecutivo ha previsto una deroga a uno dei principi fondanti del piano stesso, quello del non arrecare danno significativo all’ambiente (Dnsh, acronimo di ‘Do No Significant Harm’) per le misure che “migliorano le infrastrutture energetiche per soddisfare le esigenze immediate di sicurezza dell’approvvigionamento di petrolio e gas naturale”, spiegano ancora le fonti. Nei fatti, questo significa una deroga al principio per costruire nuove infrastrutture per il passaggio e il trasporto del gas e del petrolio, che possano sostenere gli Stati membri nella diversificazione dei fornitori di risorse energetiche e garantire la sicurezza dell’approvvigionamento, mentre limitano le importazioni energetiche dalla Russia.