Comparto moda chiede tempi realistici per la transizione

Ripensare totalmente l’approccio alla sostenibilità, nell’ottica della ‘rigenerazione’ dell’intero settore moda. L’appello arriva dal Venice Sustainable Fashion Forum, che oggi apre i lavori della terza edizione.
Nel summit sono coinvolti Sistema Moda Italia, The European House – Ambrosetti e Confindustria Veneto Est – Area Metropolitana Venezia Padova Rovigo Treviso. Gli artigiani, i designer, le imprese, l’indotto: tutti chiedono una rigenerazione guidata attraverso l’innovazione, l’economia circolare, il sostegno della finanza, le aggregazioni e, soprattutto, coinvolgendo l’intera filiera alle prese con un mutamento dei consumi senza precedenti.
Il titolo della terza edizione riassume gli intenti: ‘Leading Re-Generation’, appunto, guidare la ri-generazione. In altre parole, tracciare nuovi paradigmi nel processo di sostenibilità ambientale, sociale ed economica.
Il traguardo è ambizioso, spiega Sergio Tamborini, presidente di Smi: “Rigenerare una delle industrie di maggior valore della nostra economia, grazie all’innovazione e a una visione di circolarità che coinvolga tutti gli attori del comparto”. Se la congiuntura economica non aiuta si addensano nuovi elementi di burocrazia su qualcosa che, osserva, “non dovrebbe mai mettere in discussione la crescita: la certezza del diritto”. Si riferisce al credito d’imposta sulla ricerca e l’innovazione, ma anche alla trasparenza garantita da contratti già esistenti, ora un onere a carico della filiera.
Chiede più “coesione” dell’intero settore Flavio Sciuccati di The European House – Ambrosetti. E’ necessaria, scandisce, per affrontare “questa forte complessità economica, insieme alla sfida europea della sostenibilità”. Per fare questo è imprescindibile che i tre elementi strategici del sistema collaborino strettamente tra di loro: “i grandi marchi, i piccoli marchi e l’intera filiera produttiva che rappresenta oggi sicuramente l’anello più debole e va sostenuta e preservata”.
I numeri del comparto sono impressionanti. Per fare un esempio, il Tessile-Moda, Calzature e Pelletteria, solo in Veneto, supera i 14,5 miliardi di export e 100mila addetti. “La transizione sostenibile è una via obbligata e un driver di crescita per il settore che, però, ha bisogno di tempo adeguato”, mette in guardia Leopoldo Destro, presidente Confindustria Veneto Est. Guai, quindi, a “confondere politiche ambientali e regolatorie autoreferenziali con politiche industriali. Questo approccio non ci aiuta”, avverte, assicurando di condividere gli obiettivi ambiziosi del Green Deal, ma senza ignorare i pilastri della transizione come la neutralità tecnologica. La transizione va invece “accompagnata, con norme realistiche e adeguati stimoli agli investimenti”.

Green Deal, Meloni: “Effetti disastrosi sull’industria”. Avs-M5S: “La crisi è colpa sua”

L’approccio “ideologico” delle politiche ambientali europee ha effetti “disastrosi” sull’industria, perché “inseguire la decarbonizzazione al prezzo della deindustrializzazione è un suicidio, ed è una strada che noi non intendiamo seguire“. Ancora una volta, Giorgia Meloni denuncia le conseguenze del Green Deal, che derubrica a un “errore del passato” da non ripetere.

In un messaggio inviato per il decennale dell’Associazione italiana Pressure equipment, che rappresenta i produttori italiani che operano nel settore degli apparecchi in pressione, ricorda che il suo esecutivo, fin dall’insediamento, lavora per mettere le imprese e i lavoratori “nelle condizioni di esprimere al massimo il loro potenziale, non creando difficoltà e ostacoli”.
La ricetta del governo per la transizione ecologica parte dal principio di neutralità tecnologica: “Abbiamo bisogno di tutte le tecnologie che ci permettono di trasformare l’economia da lineare a circolare, e tutte le tecnologie utili alla transizione devono essere prese in considerazione“, spiega la premier.

Non parla solo di rinnovabili, ma anche di gas, biocarburanti, idrogeno, cattura dell’anidride carbonica e, non ultima, la “grande prospettiva” che arriva dalla possibilità di produrre, in un futuro che definisce “non troppo lontano“, energia dal nucleare da fusione. “L’Italia è la Patria di Enrico Fermi, e su questo fronte non è seconda a nessuno, grazie all’expertise tecnologico di cui disponiamo, alla nostra formazione accademica superiore e all’attività di ricerca e sviluppo, portata avanti dai nostri centri d’eccellenza e dal nostro sistema produttivo“, rivendica, considerando la fusione un “obiettivo nel quale possiamo e dobbiamo credere“.

Parole che non piacciono alle opposizioni. “E’ la presidente Meloni che porta al suicidio la nostra economia non il Green deal“, tuona Angelo Bonelli, che grida alla “miopia” e alla “totale mancanza di visione” di fronte all’emergenza climatica in atto. Le “lobby del fossile – denuncia – si ostinano a mantenere lo status quo“. Intanto, ricorda Bonelli, la devastazione degli eventi meteo estremi legati alla crisi climatica e ai danni economici e sociali, ogni anno costano all’Italia 300 euro per abitante “un record in Europa“.

Meloni “frigna“, accusano i parlamentari delle commissioni Attività Produttive di Senato e Camera del Movimento 5 Stelle, ma “la crisi è colpa del suo immobilismo”: “Con i patrioti alla gricia, del resto, è sempre colpa di qualcun altro”, scrivono. Certi “piagnistei“, sostengono, “cominciano a stancare, in primis agli imprenditori italiani, i quali sanno benissimo che anche quest’anno in manovra rimarranno all’asciutto“. I pentastellati definiscono Transizione 5.0 un “reticolo informe di ostacoli burocratici, creato ad hoc per far sì che le imprese rinuncino a priori a investire su sé stesse“. E parlano del “down” in cui sta sprofondando il settore delle costruzioni, dall’eliminazione del Superbonus: “Dopo due anni di becera e fasulla narrazione sui bonus edilizi, presto Meloni si accorgerà che la paralisi dell’edilizia porterà con sé nell’abisso tanti altri segmenti industriali“, osservano i parlamentari, chiedendo che si eviti un “impresicidio di massa“.

Le stagioni di una volta tra Green Deal e Agenda Onu 2030

Un fisico del Cnr, Antonello Pasini, ha spiegato nei giorni scorsi su Repubblica perché l’Italia è/era spaccata in due: clima autunnale al Nord, clima africano al Sud. E perché lo sarà sempre di più, là dove il Po diventa il crinale tra il fresco/freddo e le temperature da altoforno e, soprattutto, là dove una volta troneggiava l’anticiclone delle Azzorre e adesso dominano gli anticicloni africani. Lo ha fatto sostenendo che le attività umane hanno “prodotto tutto questo” e ci ha messo in guardia sul futuro perché “si lascia intendere che quanto sta accadendo sia colpa di una natura matrigna, contro cui nulla possiamo, mentre invece sappiamo che le cause sono umane e potremmo rimuoverle”.

Pasini non è il primo e non sarà probabilmente nemmeno l’ultimo scienziato che lancerà l’allarme sul climate change e ci esorterà ad avere comportamenti meno brutali nei confronti di un pianeta che si sta ribellando ai disastri dell’uomo. Allarmi che devono necessariamente essere colti da chi governa la politica: nazionale e internazionale. Quel “non esistono più le stagioni di una volta” è diventato il claim un po’ surreale di uno stato di fatto in realtà preoccupante, anche se il punto è sempre lo stesso: bandire le ideologie e trovare un punto di incontro tra la salvaguardia della terra e la tutela degli interessi industriali. Non sarà facile e non potrà essere prerogativa solo europea. Quindi sarà difficilissimo allineare Cina e India e Stati Uniti. Insomma, un nuovo Green Deal più equilibrato ma pure nuovi atteggiamenti collettivi.

“Il cambiamento climatico non ha colore politico: danneggerà chi crede che il mondo debba essere più equo e giusto, ma anche chi punta sul libero mercato”, il pensiero conclusivo di Pasini che non può non accompagnare a riflessioni inevitabilmente profonde sui flagelli dell’estate 2024, il Nord sott’acqua e il Centro-Sud arrosto, fiumi in piena e siccità estrema, incendi diffusi dagli usa all’Australia e il brutto non è ancora cominciato. Qualcosa non va (più) questo è certo, qualcosa va fatto (questo è altrettanto certo), qualcuno deve prendersi la responsabilità di agire, non c’è più tempo per bisticciare sul negazionismo, non c’è più margine per arrovellarsi sui 17 obiettivi stabiliti dalle Nazioni Unite per l’agenda 2030. Sei anni e ci siamo. Sei anni così, però, sono lunghissimi. E faticossissimi.

Nuova “estate militante” per Elly Schlein. E sfida Meloni su Green deal, Pnrr e autonomia

Prima le elezioni europee, poi le amministrative e ora il successo dei laburisti in Gran Bretagna. Dalle parti del Pd inizia a tirare aria nuova e positiva, così la segretaria, Elly Schlein, nonostante le fatiche della doppia campagna elettorale ravvicinata, chiede comunque uno sforzo alla sua squadra per continuare l’opera sui territori, una nuova “estate militante” per “battere il ferro finché è caldo“. Sperando di avere al suo fianco le altre opposizioni, da Avs al Movimento 5 Stelle, ma anche Azione e Iv. Partendo dalla raccolta firme per il referendum abrogativo dell’Autonomia differenziata, dopo aver depositato stamane in Cassazione, assieme ai partiti di minoranza e sindacati il quesito referendario. La riforma Calderoli “sancisce che ci sono cittadine e cittadini di serie A e di serie B, a seconda di dove nascono, limitando l’accesso a servizi fondamentali come la sanità pubblica, la scuola, il trasporto pubblico locale“, dice nella sulla sua relazione alla Direzione nazionale del Partito democratico. “Ma è una battaglia, insisto, che interessa tutto il Paese e non soltanto il Sud e le aree interne – aggiunge -. Anche il mondo produttivo, al Nord, capisce benissimo l’assurdità di rischiare 20 politiche energetiche diverse, quando dovremmo ridurre la frammentazione e lavorare per una politica comune europea sull’energia“.

Ne approfitta per togliersi un altro sassolino dalle scarpe: “Il governo schiaffeggia da un anno e mezzo le autonomie locali, tagliando sui Comuni: volevano togliere altri 250 milioni già prima delle elezioni, la nostra denuncia e protesta li ha fermati, ma solo temporaneamente“. Dunque occhi aperti, soprattutto sui fondi di Coesione: “Un atteggiamento vessatorio e punitivo verso le Regioni che loro non governano, come stiamo vedendo con il vergognoso sequestro dei fondi per Campania e Puglia“, denuncia.

C’è molta Europa nelle parole di Schlein, che fiuta le difficoltà del governo, della premier e la sua maggioranza nel negoziato per la composizione della nuova Commissione Ue. “L’Unione europea ha bisogno di un nuovo inizio e di rilanciare con grande coraggio e lungimiranza e il disegno di integrazione verso l’Europa federale, di andare avanti sui diritti sociali, sulla sostenibilità ambientale, sul rinnovato protagonismo per promuovere la pace e la cooperazione internazionale – sostiene -. Lavoreremo con il nostro gruppo parlamentare e i partiti nostri alleati e seguiremo con grande attenzione e preoccupazione anche le mosse della presidente del Consiglio, perché appare evidente che l’interesse dell’Italia e l’interesse della sua famiglia politica non coincidono affatto. Anzi, sono in palese contraddizione“.

Intanto a Bruxelles lancia messaggi chiari, come capo del partito che offre la delegazione più ampia di europarlamentari ai Socialisti, seconda forza d’Europa dietro il Ppe. “Vogliamo l’Europa degli investimenti comuni. Il Next Generations Eu non può essere una parentesi di solidarietà e innovazione che si chiude sotto la spinta dei suoi alleati nazionalisti, l’Italia ha bisogno di investimenti comuni europei, lo sa bene il nostro mondo produttivo e industriale, perché abbiamo una vocazione industriale, abbiamo il sapere e la creatività degli artigiani, delle maestranze e l’intelligenza delle mani e delle teste, ma da soli non abbiamo il margine fiscale che altri Paesi hanno già messo in campo per creare nuove filiere strategiche: penso alle rinnovabili e i sistemi di accumulano, le batterie“.

Avanti deve andare anche il Green deal: “Per un grande piano industriale europeo, in cui rilanciare la nostra manifattura, guidando una conversione ecologica giusta e la trasformazione digitale senza lasciare nessuno indietro e creando anche buone imprese e lavoro di qualità“. Perché, sottolinea Schlein, il Gd “non è meno industria, ma un tipo diverso di industria in cui l’Italia può fare da guida, come ha sempre fatto sull’economia circolare“.

Parole che poi rimbalzano sulle questioni interne, di casa Italia. “Non è negando l’emergenza climatica che aiuteremo imprese, lavoratori, agricoltori. Come quelli alluvionati che dopo più di un anno stanno ancora aspettando i ristori al 100% promessi da Giorgia Meloni, che non sono mai arrivati“, attacca. Promettendo: “Li aiuteremo ottenendo tutti gli investimenti comuni europei che servono a prenderli per mano e accompagnarli, passo dopo passo, in tutti i cambiamenti che sono necessari per rinnovare i propri processi e le competenze per ridurre gli impatti negativi sul pianeta“. La sfida del Pd è aperta e lanciata.

Green Deal trascurato e inevitabile tra fondi Ue e sponde capitalistiche

Secondo un parere della Commissione Politica di coesione territoriale e bilancio dell’Ue (Coter) del Comitato europeo delle regioni (Cdr), adottato mercoledì 3 luglio, l’Unione europea dovrebbe sostenere tutte le regioni nella realizzazione di una transizione giusta ed equa, in particolare quelle fortemente dipendenti da un unico settore economico o da industrie ad alta intensità energetica. Come sostiene la Coter, le difficoltà incontrate nell’approvazione dei piani di transizione e la riduzione dei fondi alla fine del periodo di programmazione evidenziano la necessità di prorogare il termine per l’utilizzo delle risorse del “Fondo per la transizione” nell’ambito del piano di ripresa dell’Ue di prossima generazione. Il parere invita la Commissione europea a semplificare i finanziamenti e a migliorare la trasparenza nel prossimo quadro finanziario pluriennale (Qfp) dell’Ue post-2027. Presa a prestito da Agence Europe, uno dei punti di riferimento dell’informazione da Bruxelles e su Bruxelles, questa notizia offre lo spunto per rivisitare il Green Deal nell’ottica della Commissione che sarà.

E intanto… Manfred Weber, nominato presidente del Ppe, ha ribadito in un recente intervista che dal Green Deal non si torna indietro. Weber è stato seguito a ruota da Ursula von der Leyen che, nel delicato tentativo di mettere insieme una maggioranza non traballante, ha posto sempre il Green Deal tra le cinque priorità dei prossimi cinque anni di governo. Ovviamente ammesso che, come accade spesso nei Conclave, chi entra Papa non esca cardinale. Green Deal, per la verità, che è stato sorpassato a sinistra da altre tematiche cogenti come la competitività, la Difesa, le questioni sociali e la semplificazione normativa. Sintetizzando: la transizione verde è indispensabile ma non così indispensabile come nel 2019. Ora: cosa sia cambiato in meglio o in peggio dopo un lustro di propositi più o meno buoni è difficile da stabilire con determinazione matematica, ma che siano indispensabili delle correzioni ‘in corsa’ questo è ineluttabile.

Con o senza i Verdi, oppure anche solo con l’appoggio esterno, il Green Deal continuerà a esserci. Giusto. Ma qui si torna al punto di partenza: più delle ideologie e di certe rigide ottusità saranno i denari da investire nella transizione verde a fare la differenza. E di denari ne serviranno davvero tanti: in fondo, più le pratiche sono virtuose più i costi aumentano. Saranno determinanti i fondi privati e il buonsenso collettivo, sarà determinante coinvolgere sempre di più Cina, India e Stati Uniti in un percorso che abbia cura del Pianeta senza creare ulteriori diseguaglianze non solo tra Paesi ma tra blocchi di Paesi, come ad esempio la Ue e i Brics.

Il presidente di Federacciai, Antonio Gozzi, scrive in un suo intervento che “dietro l’estremismo ambientalista, ideologico ed astratto, che purtroppo ha orientato negli ultimi dieci anni anche le politiche europee contro il climate change e per il così detto green deal, ci siano anche alcuni ‘grandi vecchi’, sconfitti nel loro credo dalla storia, ma che hanno rivestito lo spirito e il pregiudizio anticapitalista e anti-impresa con le bandiere dei verdi”. Cita Noam Chomsky e Robert Pollin e giunge a sostenere che Occidente e Stati Uniti andranno avanti ma dovranno fare i conti con il popolo. “’Voi parlate della fine del mondo ma noi ci preoccupiamo della fine del mese. Come sopravviveremo alle vostre riforme?, è questa la domanda pressante a cui bisogna dare risposte concrete onde evitare un rigetto totale delle politiche ambientaliste”, sottolinea Gozzi.

Non è indispensabile essere d’accordo, è fondamentale riflettere. E fornire risposte concrete. Il cambiamento climatico è sotto i nostri occhi, “non ci sono più le stagioni di una volta” direbbe qualcuno, ed è una evidenza che si abbatte sulle economie, sul turismo, sull’agricoltura. Come se ne esce? E’ chiaro che ricerca, innovazione, nuove tecnologie, rinnovabili, nucleare sono gli ingredienti indispensabili di una ricetta che, comunque, dovrà avere il sostegno economico di Stati e di industrie. Finanziare il futuro delle generazioni future: non è uno slogan ma una necessità. Insomma, adelante ma con juicio.

Nomine e Agenda strategica, sale l’attesa per il Consiglio Ue. Green deal resta in campo

Ucraina, Medio Oriente, sicurezza e difesa, competitività, migrazione, politica estera e minacce ibride. Ma su tutto, le massime cariche dell’Unione europea, l’Agenda strategica per il quinquennio 2024-2029 e l’incontro con il presidente ucraino Volodymyr Zelensky. Sono i temi sul tavolo dei 27 capi di Stato e di governo dell’Ue che oggi e venerdì si riuniranno a Bruxelles nel Consiglio europeo. “Sarà una riunione particolarmente significativa, in quanto ci troviamo di fronte a un corposo ordine del giorno e a decisioni critiche che delineeranno il nostro futuro cammino”, ha scritto il presidente del Consiglio europeo, Charles Michel, nella lettera di invito ai leader.

“Tra queste decisioni ne spiccano tre in particolare: innanzitutto, adotteremo l’agenda strategica. Fedele al ruolo attribuitogli dai trattati, il Consiglio europeo definirà le priorità dell’Ue e ne stabilirà gli orientamenti strategici per i cinque anni a venire, indirizzando in tal modo i lavori del prossimo ciclo istituzionale. In secondo luogo, determineremo la via da seguire in materia di riforme interne e, in terzo luogo, concorderemo le nomine istituzionali”, ha spiegato. “La nostra riunione inizierà giovedì 27 giugno alle ore 14 con uno scambio di opinioni con il presidente Zelensky: sarà un’opportunità per discutere della situazione sul campo, ma anche per prendere atto di alcuni risultati conseguiti dalla nostra ultima riunione”, ha descritto Michel.

Rispetto alle nomine ai vertici di Commissione, Consiglio e al ruolo di Alto rappresentante per la Politica estera, il trio dei partiti di maggioranza Ppe, S&d e Renew Europe (popolari, socialisti e liberali) ha trovato martedì la quadra su Ursula von der Leyen, sull’ex primo ministro portoghese Antonio Costa e sulla premier estone, Kaja Kallas. Tre nomi che il Consiglio europeo dovrà validare nella due giorni di Vertice. Possibilmente all’unanimità, anche se fonti diplomatiche a Bruxelles ricordano che Jean Claude Juncker fu il primo presidente, nel 2014, ad essere eletto non all’unanimità bensì a maggioranza qualificata, con il no di Regno Unito e Ungheria.

Intanto, a Palazzo Berlaymont, sede della Commissione europea, i conti dei parlamentari europei a sostegno di von der Leyen non tornano: sempre secondo fonti diplomatiche, infatti, dai 399 seggi attuali della cosiddetta maggioranza Ursula – dati dalla somma aritmetica di popolari, socialisti e liberali (rispettivamente 189, 136, 74) – andrebbe tolto il 15% di franchi tiratori, almeno tra i 40 e i 50 deputati, che farebbe scendere la politica tedesca sotto la soglia richiesta dei 361 consensi. Il voto, a scrutinio segreto, si terrà il 18 luglio, nella prima seduta plenaria dell’Eurocamera.

Altro tema intenso della riunione dei leader sarà l’Agenda strategica 2024-2029, ovvero la traiettoria dell’Ue per i prossimi 5 anni. Nel testo, allegato alla bozza di conclusioni del Consiglio europeo, vengono ricordate le “sfide senza precedenti” che hanno portato l’Ue “a percorrere nuove strade nella nostra cooperazione e integrazione negli ultimi cinque anni”, fissando “obiettivi chiave per combattere il cambiamento climatico”, sviluppando e distribuendo vaccini in tutta Europa e fornendo “all’Ucraina un significativo sostegno militare ed economico per difendersi dalla guerra di aggressione della Russia e proteggere la sicurezza europea”.

Ma per i leader il lavoro non è affatto terminato. “Come Unione e come Stati membri, uniremo le nostre forze e risorse per affrontare i prossimi anni con unità e determinazione. Affronteremo le aspirazioni dei nostri cittadini. Rafforzeremo la nostra competitività e diventeremo il primo continente a impatto climatico zero, realizzando con successo la transizione climatica e digitale, senza lasciare indietro nessuno. Ci assumeremo la responsabilità necessaria per la nostra sicurezza e difesa e rafforzeremo la nostra capacità di agire per diventare più influenti nel mondo. Assumeremo un ruolo guida nell’affrontare le sfide globali, sostenendo il diritto e le istituzioni internazionali, una governance globale equa, un multilateralismo inclusivo e una crescita e uno sviluppo sostenibili”.

Nel contesto europeo, secondo i leader affidarsi alle aziende per “trasformare i rischi in opportunità stimolerà gli investimenti, stimolerà la crescita economica e renderà l’Europa un leader mondiale nelle industrie e nelle tecnologie verdi e digitali”. E per tutto ciò “il prossimo quadro finanziario pluriennale per l’Unione dovrà riflettere queste priorità” e “lavoreremo per l’introduzione di nuove risorse proprie”. Come a dire: il Green deal e gli impegni per la sostenibilità restano in piedi.

Le politiche verdi dell’Europa e l’aumento dei biglietti aerei

Mentre sta per prendere forma il nuovo esecutivo della Ue in una situazione non proprio rilassata – aspettando tra l’altro l’esito dei colloqui di domani e dopodomani al Consiglio europeo tra i capi di governo (a naso non si tratterà di una passeggiata salutare) – l’ormai ex apparato di Bruxelles ha creato le condizioni affinché il trasporto aereo sia meno inquinante e, poco alla volta, si avvicini ai target stabiliti dal Green Deal. Entro il 2050, infatti, i vettori delle compagnie europee dovranno arrivare a zero emissioni, con un check intermedio fissato al 2030 dove dovrà essere certificato un calo del 55%. Tutto questo comporterà sicuramente un beneficio per la salute dei cittadini del Vecchio Continente ma anche un salasso per chi di questi è viaggiatore. Che sia solito usare gli aerei per ragioni di lavoro o solo per turismo poco importa.

Scendendo nel dettaglio, il salasso sarà da 1 (difficile…) fino a 72 euro in più a biglietto perché, a detta delle compagnie, assolvere ai propri doveri ambientali costa tantissimo in termini di investimenti e, nella più classica delle reazioni a catena, si tratta di incombenze che andranno a ricadere sul consumatore finale. Usando una valutazione spannometrica, si parla di 800 miliardi di investimenti da qui al 2050 e quei soldi da qualche parte devono saltare fuori. Precisamente dalle tasche dei cittadini europei. Scendendo ancora di più nel dettaglio, dal 2025 tutti i voli in partenza da un aeroporto europeo saranno obbligati a utilizzare una quota di Saf (il carburante sostenibile per l’aviazione) via via crescente fino al 2050. E chi non riesce o fatica, potrà compensare piantando alberi o riassorbendo l’anidride carbonica emessa.

Sintetizzando: come per le auto elettriche, le case green, gli imballaggi, le pompe di calore eccetera eccetera l’intento è nobilissimo e può essere solo condiviso, ma anche per quanto riguarda il trasporto aereo il nodo sta nel punto di equilibrio economico. Perché la summa di tutte queste regole imposte dall’Unione europea va a impattare in maniera significativa sulle economie famigliari. Ha detto Enrico Letta che la grande sfida della prossima Commissione sarà il finanziamento della transizione verde: “C’è chi stima servano cinquecento miliardi, chi seicento, ma il punto è: chi li metterà questi soldi? E purtroppo su questa come su altre cose l’Europa è divisa”. Letta che era uno dei papabili alla guida del Consiglio, non uno qualsiasi.

Le due sfide delle Europee: astensionismo e nuovo Green Deal

Un italiano su due. La previsione di voto di sabato e domenica per le elezioni europee è questa. Ed è una previsione nefasta perché, se davvero sarà aderente alla realtà, significa abbassare ulteriormente la percentuale di votanti del 2019, tristemente attestata al 54,50%. Eppure mai come questa volta è importante recarsi alle urne ed esprimere una preferenza, di qualsiasi colore: in fondo, non c’è bisogno di essere un politologo per capire che, se non decidiamo (anche) noi, qualcuno deciderà per noi. Che non è cosa né buona né giusta.

Dunque, la prima sfida è quella dell’affluenza alle urne. E dipende da noi. La seconda è quella di un’Europa più forte e più coesa, più performante e più di buonsenso. E questo dipende da chi siederà sugli scranni di Strasburgo e occuperà le stanze di Bruxelles. Dei 705 eurodeputati, 76 sono italiani, insomma, il 10%, qualcosa si può dire e si può fare. La terza, che è figlia legittima delle altre due, riguarda il green deal, o come si chiamerà il nuovo pacchetto di misure per affrontare il tema ineludibile della decarbonizzazione, per mettere un freno ai cambiamenti climatici, per non essere vasi di coccio nella morsa tra Stati Uniti e Cina. Tema, quello dell’ambiente e di cosa ne consegue, che però è stato appena sfiorato dalle forze in campo. Per lo meno in Italia. Hanno tenuto banco la sanità e la pace, la Difesa comune e le armi all’Ucraina, il toto presidente della Commissione: Draghi sì o Draghi no? Giorgetti o Fico? C’è chi ha paventato il rischio di trasformare una delicatissima elezione europea in una conta a uso interno: nel caso fosse, si tratterebbe un rischio pericolosissimo. E’ come litigare all’assemblea di condominio per le spese del giardino mentre brucia il palazzo.

Di Green Deal, comunque, si è parlato molto nei nostri #GeaTalk. Perché, alla resa dei conti, le misure che dovranno essere prese o le correzioni che dovranno essere apportate a quelle già esistenti, andranno a impattare pesantemente sulla vita dei cittadini. Dalle auto elettriche alle case green, dagli imballaggi alle pompe di calore, dalla nuova Pac ai fitofarmaci, dai pannelli alle pale: qualcuno ha dimenticato, forse scientemente rimosso, eppure dal 10 giugno saranno tematiche che ci accompagneranno nella discussione collegiale con gli altri 26 Paesi d’Europa e che si infileranno nelle nostre tasche e nei conti correnti delle aziende, piccole o grandi che siano. Ore di talk per certificare che il green (good?) deal va rivisto alla luce di cosa è accaduto – e non è poco – dal Covid in avanti. Questione di modi e di toni, spesso però di purissima sostanza. E’ emerso un rifiuto netto per l’ideologia ‘tout court’, è affiorata la necessità di normare la transizione verde con regole e tempistiche flessibili oltre che con meno burocrazia, qualcuno ha portato avanti l’idea di una eco-patrimoniale per finanziare l’azione verde. Il nodo centrale, d’altronde, è la reperibilità dei fondi senza squassare l’economia.

Che soffi forte il vento e che scaldi molto il sole: questo se lo augurano tutti. Ma per alcuni la via d’uscita è il nucleare, per altri di gas dovremo vivere almeno per i prossimi dieci anni. I combustibili fossili non sono una parolaccia ma un termine che, a medio termine, dovrà diventare desueto. Del resto, la transizione ecologica non può essere scollata da quella energetica, che determina le strategie del mondo industriale e che fa battere il cuore ai grandi Gruppi, italiani e non. Ai #GeaTalk nessuno si è nascosto, qualcuno si è esposto, come sempre la campagna elettorale è stata teatro di slogan e promesse, di ripicche e rilanci. Niente di nuovo, ci sta. Ma la prima sfida da vincere era e resta l’affluenza alla urne. L’indifferenza è esiziale, menefreghismo fa rima con autolesionismo. Si può e si deve votare senza rinunciare alla tintarella di questa primavera tarocca. Già, i cambiamenti climatici…

Green Deal, Bonelli: Su obiettivi von der Leyen ha cambiato idea per farsi rieleggere

“Dove è stato applicato il Green Deal? Il Green Deal non ha avuto nessun tipo di applicazione. Noi abbiamo degli obiettivi climatici, voluti anche dal von der Leyen, che poi ha cambiato idea per farsi rieleggere. Stiamo parlando di alcuni problemi, come i pesticidi, messo da parte per fare un favore all’agroindustria. Questo è il punto. La norma del 4% dei terreni messo a riposo è nella Pac, che non abbiamo mica votato noi, l’ha votata anche Fdi. C’è un livello incredibile di mistificazione della realtà a proprio uso che prescinde dai contenuti. Il Green Deal va applicato, investendo sulle rinnovabili, facendo una legge sullo stop del consumo di suolo, facendo una politica di efficientamento delle case. Nella prossima finanziaria ci sarà un taglio di 12-13 miliardi di euro sulla spesa pubblica. Perché dobbiamo tagliare la sanità, trasporto pubblico, quando in questo paese 62 persone hanno un patrimonio di 230 miliardi di dollari? Qualcuno che ha tanto, può dare qualcosa al proprio Paese?”. Così l’esponente di Avs, Angelo Bonelli, intervenendo al Gea Talk.

Green Deal tra (belle) promesse elettorali e (brusca) realtà

Ce l’hanno tutti con ‘questo’ green deal, pur ammettendo che la decarbonizzazione è un passaggio ineludibile per il futuro. E per il presente. Ce l’hanno tutti con le politiche verdi “ideologiche e antindustriali” portate avanti dall’Europa negli ultimi anni – alcune però votate dagli europarlamentari italiani in scadenza di mandato: conviene ricordarlo, non sia mai… – dagli inquilini di Bruxelles e Strasburgo. Ce l’hanno così tutti che tutti, ma proprio tutti, pubblicizzano (sotto elezioni) la necessità di un cambiamento nel segno del buonsenso e della fattibilità. Ecco, i candidati alle elezioni dell’8e 9 giugno in questo sembrano davvero compatti, allineati e abbastanza coperti. A destra e a sinistra, come al centro. Bisogna fare qualcosa per il clima, giusto, però non come è stato fatto fino adesso.

E allora la domanda che sorge spontanea è questa: come, allora? Perché se è facile e anche giusto mettere in evidenza cosa non ha funzionato nel Green Deal pensato da Ursula von der Leyen e da Frans Timmermans (ei fu), è più difficile ma indispensabile indicare quali sono le altre vie per raggiungere quei target considerati obbligatori dagli esperti. E qui, però, la situazione si fa più complicata, dal momento che alle intenzioni vanno poi applicate le azioni. E, insomma, la messa a terra di cosa viene promesso appare abbastanza nebulosa. Ad esempio, il claim di trasformare il Green Deal in un Good Deal è a presa rapida come la colla, ma in concreto cosa significa? Spesso ci siamo sentiti raccontare che non è questione di norme ma di tempi nell’applicazione delle stesse. Sintetizzando, l’idea è buona o quasi però la fretta rende tutto irrealizzabile. Lo stop ai motori endotermici? Non dal 2035 ma più avanti. Le case green? Non a emissioni zero dal 2030 o dal 2033 (a seconda delle classi di appartenenza) ma con più calma. E gli imballaggi? E la nuova Pac? E il Nutriscore?

Riflessioni che si accompagnano, anzi si dilatano con il megafono degli industriali, preoccupati che la Nuova Europa non attui politiche adeguate di sostegno per le imprese e che in tema di Green Deal non venga creato un fondo per la transizione, anche digitale. Il riferimento è sempre a due colossi, gli Stati Uniti e la Cina, che dispongono di risorse enormi, sicuramente superiori a quelle della Ue e che poco alla volta stanno esercitando una pressione che nel medio termine rischia di diventare insostenibile. Anche perché certe sensibilità né Usa né Cina le hanno, in considerazione che l’Europa produce l’8 per cento del gas serra mondiale.

Quindi, è semplicissimo: più soldi, tanti più soldi, più tempo, molto più tempo. Questo almeno in campagna elettorale…