Aiutare il Marocco a rialzarsi non è solo un ‘doverismo’

Nel dramma che ha sconvolto il Marocco c’è stato subito un riscontro che ben depone a favore dell’Italia: le istituzioni, a cominciare dal presidente della Repubblica, hanno offerto aiuti concreti a un popolo piegato dal terremoto. Non è un ‘doverismo’, quello italiano, ma una concreta mozione di affetto solidale nei confronti di un Paese che sta vivendo ciò che anche noi abbiamo passato in epoche lontane e vicinissime. La macchina dei soccorsi umanitari si è messa in moto, il governo di Rabat ha teso la mano, le prossime settimane, i prossimi mesi saranno tanto importanti quanto difficili. Purtroppo ne sappiamo qualcosa.

Il Marocco è legato a molteplici interessi commerciali con l’Italia anche se non rientra geopoliticamente nel Piano Mattei. Il motivo è semplicissimo: si tratta dell’unico Stato del Nord Africa che non possiede né gas né petrolio e che proprio per questo ha sviluppato altre fonti energetiche innovative, dal fotovoltaico all’idrogeno. Eppure, dicevamo, anche se non rientra nel Piano Mattei, il Marocco è importante per noi e, estendendo il discorso, per l’Europa. Il porto di Tangeri è un affaccio di rilievo internazionale per i passaggi tra i due continenti, le produzioni agricole ‘sostentano’ buona parte dell’Europa, l’estrazione del fosfati è una belle principali voci del Pil.

Nelle turbolenze africane, il Marocco è verosimilmente l’unico Paese stabile. Ed è questo particolare non di poco conto che lo rende affidabile per l’Europa. Tanto per citare un esempio, Fiat (cioè Stellantis) ha scelto di produrre la nuova Topolino proprio in Marocco ( e in Polonia) affidandosi alla manodopera locale. Non lo avrebbe fatto senza garanzie. L’assestamento internazionale procede, la grana del Sahel dovrebbe essere in via di definizione. Intanto però c’è il post terremoto da gestire. Non sarà semplice per un Paese così vasto e stratificato rialzarsi in tempi ristretti: adesso che non è ancora finita la conta dei morti è praticamente impossibile disegnare prospettive a breve termine, però può essere determinante aiutare la rinascita con i nostri aiuti. I nostri e quelli di tutti.

Gozzi: “Germania in crisi, serve alleanza industriale con Italia e Francia”

È in atto un declino industriale ed economico della Germania?

Se sì, esso può essere l’esempio di ciò che potrebbe succedere in tutta l’Europa industriale nei prossimi anni?

La Germania, che è la più grande economia europea, per il quarto trimestre consecutivo ha mostrato una crescita negativa e conferma quindi di essere in recessione (Ricordiamo che gli economisti definiscono un’economia in recessione quella che per tre trimestri consecutivi ha avuto un PIL negativo). Sia il Fondo Monetario Internazionale che l’OCDE si aspettano che, tra le più importanti economie mondiali, la tedesca sia quella che quest’anno andrà peggio.

Molti fanno notare che il problema viene da lontano. Infatti secondo diversi centri di ricerca la Germania negli ultimi tre anni è cresciuta poco e nei prossimi cinque potrebbe crescere meno degli USA, della Gran Bretagna, della Francia, della Spagna e della stessa Italia.

C’è nel Paese un malessere diffuso, testimoniato da una raffica di sondaggi che mostrano come sia le aziende che i consumatori tedeschi siano profondamente scettici sul futuro.

L’idea che mi sono fatto parlando con amici tedeschi è che, forse per la prima volta dal dopoguerra, in Germania c’è una grande confusione e una visione non chiara sulla prospettiva.

Nonostante ci sia chi, nel mondo politico e delle imprese, si sforza di definire l’attuale recessione come ‘tecnica’ e congiunturale, e quindi di minimizzarne gli aspetti strutturali, si ha la sensazione che in Germania sia in corso un’inversione fondamentale delle sorti economiche del Paese, una rottura del modello che per 20 anni ha visto crescere e prosperare l’economia tedesca.

Questa situazione fa tremare l’Europa, portando ancora più scompiglio nel già polarizzato panorama politico continentale.

Ma quale era il modello che è entrato in crisi?

Dopo i giganteschi problemi della riunificazione che avevano fatto definire la Germania come il ‘malato d’Europa’ tre elementi fondamentali avevano guidato la rinascita tedesca:

  • coraggiose riforme del mercato del lavoro, che avevano liberato tutto il potenziale industriale del Paese;
  • energia a basso prezzo grazie ai rapporti privilegiati con la Russia per le importazioni di gas;
  • gigantesche esportazioni di macchinari e di automobili in Cina.

Tutto ciò ha garantito un lungo periodo di crescita e di prosperità. Ma oggi le cose sono profondamente cambiate. E i tratti di un repentino cambiamento economico-industriale, geostrategico e demografico hanno colpito la Germania, prospettando quel che potrebbe avvenire nel resto d’Europa nei prossimi dieci anni.

Si tratta di un cocktail tossico di invecchiamento della popolazione e di grave mancanza di forza lavoro, di alti costi energetici e di estremismi ideologici nella transizione e nella lotta al climate change (che hanno portato ad esempio a chiudere le centrali nucleari tedesche senza chiarire cosa le sostituirà nella produzione di energia elettrica, dato che le rinnovabili non sono sufficienti), di grave carenza negli investimenti pubblici in infrastrutture, causata dall’ossessione del pareggio di bilancio.

Con riferimento alla situazione demografica, all’invecchiamento della popolazione e alla mancanza di mano d’opera specie qualificata, 2 milioni di lavoratori andranno in pensione nei prossimi 5 anni, e la denatalità non consente di rimpiazzare le uscite lavorative.

Con il pensionamento di una generazione di baby boomer nei prossimi anni la Germania si sta avviando ad un vero e proprio precipizio demografico che lascerà le sue aziende senza ingegneri, scienziati e senza gli altri lavoratori qualificati di cui queste hanno bisogno per rimanere competitive sul mercato. Nei prossimi 15 anni circa il 30% della forza lavoro tedesca raggiungerà l’età della pensione.

Già oggi i due quinti dei datori di lavoro affermano di avere difficoltà a trovare lavoratori qualificati. Il Land di Berlino non riesce a coprire la metà dei suoi posti vacanti con personale qualificato.

E ciò nonostante la Germania abbia gestito negli ultimi anni in maniera intelligente ed efficiente grandi flussi migratori come ad esempio quelli derivanti dalla tragedia siriana.

Con riferimento all’energia la Germania, dato il suo alto livello di dipendenza dal gas russo, è stata, insieme all’Austria, il Paese più colpito dalle conseguenze dell’invasione della Russia in Ucraina. Bloccando le forniture di gas naturale alla Germania, il Cremlino ha di fatto eliminato il perno del modello commerciale del Paese che si basava sul facile accesso all’energia a basso costo. Sebbene i prezzi all’ingrosso del gas si siano recentemente stabilizzati, essi sono ancora circa più del doppio rispetto a prima della crisi; ciò crea grandi problemi a tutti i settori industriali energivori, che infatti verranno sostenuti con una tariffa sussidiata.

Alcuni analisti ipotizzano che con la chiusura di tutte le centrali nucleari e di tutte le centrali a carbone all’orizzonte del 2030 alla Germania mancheranno 150 Giga (150 mila Mw!!!!) di potenza elettrica installata. Anche se la previsione pare eccessiva, il gap energetico in prospettiva si preannuncia gigantesco e certamente non compensabile con le sole rinnovabili. Il Governo tedesco, e le forze politiche che lo sostengono, spesso divise su tutto e lontane anni luce dalla disciplina e dal senso di responsabilità che per decenni ha caratterizzato la politica tedesca, sembrano incapaci di rispondere a questi interrogativi. Nello stesso tempo AFD (Alternative für Deutschland), un partito populista di estrema destra che ipotizza l’uscita della Germania dall’Unione Europea e un’intesa privilegiata con Russia e Cina, veleggia nei sondaggi intorno al 20% dei consensi.

Tutto quanto detto sopra pone grandi problemi prospettici all’economia e all’industria tedesca, che è la prima d’Europa.

In particolare alcune caratteristiche del sistema industriale tedesco ci appaiono come altrettanti elementi di debolezza.

I segmenti industriali più importanti della Germania, dai prodotti chimici alle automobili, ai macchinari sono radicati in tecnologie del secolo scorso; sebbene il Paese abbia prosperato per decenni sfruttando la sua leadership in questi prodotti, molti di essi stanno diventando obsoleti o semplicemente troppo costosi per essere prodotti in Germania.

Nelle nuove tecnologie il Paese è molto più indietro degli Stati Uniti d’America, della Cina e della stessa Francia. Se si fa eccezione per SAP (il grande produttore mondiale di software) il settore tecnologico tedesco è ben poca cosa.

Il sistema industriale tedesco ha un’impronta carbonica molto maggiore di quelli della Francia o dell’Italia (La siderurgia tedesca, ad esempio, produce più del 60% dell’acciaio dal carbone, mentre l’Italia l’80% lo fa con i forni elettrici. Una tonnellata d’acciaio prodotta con il carbone emette 10 volte più CO2 di una tonnellata di acciaio prodotta con il forno elettrico).

Il sistema industriale tedesco è molto più concentrato e meno diversificato di quello italiano ad esempio e, quindi, è intrinsecamente più rigido e meno adattivo.

Inoltre, esso sta perdendo complessivamente in competitività per l’erosione causata dagli alti e crescenti costi del lavoro, dall’alto livello fiscale, da una burocrazia asfissiante, da un significativo ritardo nella digitalizzazione delle produzioni e dei servizi.

Questo fa si che colossi dell’industria tedesca come BASFLinde, e la stessa Volkswagen decidano sempre più spesso di fare tutti gli investimenti per il loro futuro fuori dalla Germania, in particolare negli Usa e in Cina.

Simbolica della crisi prospettica dell’industria tedesca è proprio la vicenda dell’auto. L’industria automobilistica ha sostenuto le fortune della Germania per più di un secolo, e il futuro economico del Paese dipende in larga misura dalla capacità del settore – che rappresenta quasi un quarto della produzione manifatturiera nazionale – di mantenere la sua posizione nel segmento del lusso in un mondo dominato dai veicoli elettrici.

Le grandi case automobilistiche tedesche da un lato non hanno avuto il coraggio o la forza di difendere la loro leadership mondiale sui motori endotermici, mentre dall’altro sono arrivate in ritardo nello sviluppo dei veicoli elettrici. E così l’anno scorso i produttori cinesi hanno realizzato circa il 60% degli oltre 10 milioni di auto completamente elettriche vendute al mondo.

Volkswagen che ha dominato il mercato automobilistico cinese per decenni (la Cina è il più grande mercato automobilistico del mondo e rappresenta quasi il 40% del fatturato di Volkswagen), nel primo trimestre di questo anno ha perso il primato a favore di BYD, un produttore cinese.

Un recente studio di Allianz ha previsto che, se le tendenze attuali si confermano con i produttori cinesi che aumentano la loro quota di mercato sia in Cina che in Europa, le case automobilistiche e i fornitori europei potrebbero vedere i loro profitti ridursi di decine di miliardi di euro entro il 2030, con le aziende tedesche a farne le spese.

È molto probabile che presto saranno le grandi case automobilistiche cinesi a costruire i loro stabilimenti in Europa.

L’erosione del nucleo industriale tedesco avrà un impatto sostanziale sul resto dell’Unione Europea. La Germania non è soltanto il più grande attore industriale europeo; funziona come il mozzo di una ruota, collegando le diverse economie della regione come il più grande partner commerciale e investitore per molte di esse.

L’Italia è da sempre un partner fondamentale della Germania. Lo scorso anno le esportazioni italiane in Germania hanno raggiunto gli 80 miliardi di euro rappresentando quasi il 20% del totale dell’export italiano. Vi sono provincie come Brescia e Bergamo estremamente connesse con la Germania (Brescia ha realizzato 4,5 miliardi di export in Germania l’anno scorso, soprattutto nei settori metallurgico, della meccanica, delle macchine).

La crisi dell’economia tedesca non può che preoccupare grandemente anche noi e le nostre catene di subfornitura.

Il tema di una cooperazione ancora più forte dei tre grandi Paesi industriali d’Europa, Germania, Italia e Francia, è all’ordine del giorno per riportare urgentemente i temi dell’industria al centro dell’Agenda europea. Questo è il compito delle organizzazioni industriali in vista delle elezioni europee del 2024.

Il 28 e il 29 settembre a Berlino Confindustria, BDI (la Confindustria tedesca) e MEDEF (la Confindustria francese) si vedranno per parlare di questo.

VIDEO I collegamenti fra i maggiori porti italiani e l’infrastruttura nazionale

Trieste, Genova, Gioia Tauro, Livorno, Cagliari. I 5 maggiori porti italiani per flusso merci movimentano insieme oltre 200 mila tonnellate di prodotti l’anno. Ma quanto è semplice il collegamento dei porti con l’infrastruttura nazionale? La ferrovia è in media la più vicina, dagli 0,1 km di distanza fra il porto di Cagliari e la stazione più prossima, fino ai 4 km nel caso del porto di Gioia Tauro. Considerando gli aeroporti, il più vicino è Genova (0,4 km) ma si può arrivare fino ai 37 o 70 km nel caso di Trieste e Gioia Tauro. Mentre Genova, Livorno e Gioia Tauro rimangono entro il raggio di 10 km dal casello autostradale più vicino.

Il Green Deal europeo chiede di trasferire su ferrovia una parte dei trasporti interni di merce che oggi avviene su strada, ma oggi in Italia oltre il 75% dei trasporti interni di merce avviene su gomma: il 36,8% considerando i percorsi sotto i 300 km, il 39,7% per i tragitti più lunghi.

Secondo i dati elaborati nel 2021 da Isfort, il trasporto ferroviario è più frequente nei Paesi di piccole dimensioni e con bassi volumi di traffico complessivi. Nel caso di realtà con maggiori scambi commerciali e con numerosi poli produttivi e di consumo – se si considera la percentuale di spostamenti in Europa (quota modale) – l’Italia è dietro la Germania, ma davanti a Francia e Regno Unito.

 

Meloni incontra Scholz: “Italia-Germania, grandi convergenze sul Piano Mattei per l’Africa”

Si consolida il canale di dialogo tra Italia e Germania anche in capo alla visita del cancelliere Olaf Scholz a Roma. Il numero uno tedesco ha incontrato la presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, e il capo dello Stato, Sergio Mattarella. Al termine dell’incontro di Palazzo Chigi, la premier ha riassunto i temi che sono stati affrontati con uno sguardo particolarmente fiducioso per il futuro; “Il piano d’azione Italia-Germania sul quale abbiamo raggiunto intesa e che vorremo adottare nel vertice intergovernativo in Germania entro fine anno, intende rendere più regolare e intenso il nostro dialogo bilaterale a livello politico e tecnico che ci permetterà di lavorare con un approccio pragmatico su molti temi di importanza fondamentale per il futuro delle nostre nazioni: innovazione, ricerca, sviluppo, mercato del lavoro, coesione sociale, crescita ecologicamente sostenibile e protezione del clima”, la sua dichiarazione.

L’idea è quella di una collaborazione intensa per fronteggiare il problema migratorio e, soprattutto, il problema dell’approvvigionamento energetico: “Siamo d’accordo che è molto importante assicurare la diversificazione delle fonti di approvvigionamento, lavorare sulle infrastrutture di collegamento, particolarmente nel Mediterraneo in tema di rapporto con il Nord Africa. Lavoriamo anche a sostegno del progetto SoutH2 Corridor, che collegherà i flussi di idrogeno verde di Italia, Germania, Austria. Sfide strategiche molto importanti”, la sottolineatura di Meloni.

Con la Germania, ha poi aggiunto, la presidente dell’esecutivo ci sono “importanti convergenze” sul Piano Mattei per l’Africa che, alla luce della seconda visita ravvicinata in Tunisia nel giro di pochi giorni (questa volta domenica, assieme alla presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, e al primo ministro olandese Rutte), diventa sempre più strategico.

Dal canto suo, il cancelliere Scholz ha evidenziato come “il potenziamento delle reti gioverà a tutti, soprattutto per la sicurezza dell’approvvigionamento energetico. Sono felice che abbiamo deciso di portare avanti lavori per una pipeline per il gas e l’idrogeno tra l’Italia e la Germania. I nostri colloqui hanno dimostrato quanto siano stretti e fiduciosi i rapporti tra i due Paesi. Sono lieto della presidenza del G7 italiana e offro il mio pieno appoggio”.

La ripartizione delle forniture di gas all’Italia: cala flusso da Nord e da Sud

Nel primo trimestre 2023 è stata decisa la riduzione dei consumi italiani di gas, calati del 18,9% a 20,7 miliardi di metri cubi dai 25,6 miliardi di metri cubi dello stesso periodo del 2022. Nel periodo sono diminuiti i consumi residenziali (-17,1% a 11,6 miliardi di metri cubi), quelli termoelettrici (-26,9% a 5,3 miliardi di metri cubi), gli industriali (-13,2% a 3 miliardi di metri cubi). Alla base dei ribassi le temperature superiori alle medie stagionali e gli effetti del piano nazionale di contenimento dei consumi di gas. La tendenza ha evitato problemi di approvvigionamento di metano, nonostante il forte calo di flussi dalla Russia e nonostante nel primo trimestre siano stati estratti 778 milioni di metri cubi nel nostro Paese, cioè il 5,5% in meno di produzione nazionale nei confronti dei primi tre mesi del 2022. Complessivamente tra gennaio e marzo il flusso di gas da Nord è sceso di 3,5 miliardi di metri cubi rispetto allo scorso anno e quello da Sud è calato di 0,3 miliardi di metri cubi, mentre invece è salito di un miliardo il volume di Gnl. Ecco la ripartizione delle forniture all’Italia.

GASDOTTI NORD. Due sono i gasdotti attivi che portano gas nella Penisola. A Tarvisio arriva il tubo che parte dalla Russia, attraversa l’Ucraina e la Mitteleuropea fino a entrare nell’estremo nordest italiano. Nel primo trimestre sono entrati da questa infrastruttura 1,4 miliardi di metri cubi, in calo del 73,6% dall’anno precedente. In controtendenza invece il flusso da Passo Gries, al confine svizzero, che porta il metano proveniente dall’Europa del Nord: +35,7% a 2,3 miliardi di metri cubi.

GASDOTTI SUD. Tre sono gli impianti che garantiscono forniture all’Italia. In Sicilia arrivano due tubi: uno proveniente dall’Algeria che, attraverso la Tunisia, arriva poi a Mazara del Vallo, uno che invece dalla Libia sbarca il metano a Gela. Il primo, nonostante un rafforzamento dei patti di collaborazione tra governo italiano e quello algerino, ha visto una diminuzione degli approvvigionamenti dell’1,3% attestandosi a 5 miliardi di metri cubi: si tratta comunque della principale forniture di metano all’Italia. Il secondo invece ha segnalato un balzo dei rifornimenti del 34,5% a 672 milioni di metri cubi. Il terzo gasdotto che garantisce metano all’Italia è il Tap, che dall’Azerbaigian attraversa il Sud Europa e giunge a Melendugno in Puglia. Nel primo trimestre di quest’anno ha garantito 2,5 miliardi di metri cubi, in crescita del 6,3%.

GNL IN CRESCITA. Prima della recente entrata in funzione del rigassificatore di Piombino, l’Italia aveva tre impianti capaci di trasformare allo stato gassoso il gas liquefatto e immetterlo in rete. Il principale, in funzione da oltre un decennio, è l’Adriatic Lng al largo delle coste rodigine in Veneto, controllato principalmente da ExxonMobile e Qatar Terminal: le sue forniture da inizio anno fino al 31 marzo hanno segnato un rialzo del 13,3% garantendo 2,2 miliardi di metri cubi. Gli altri due rigassificatori si trovano nell’area tirrenica settentrionale. In Liguria l’impianto di Panigaglia ha visto una crescita del 555,4% di operazione, che gli hanno permesso di sfornare 0,9 miliardi di metri cubi. L’Olt (Offshore LNG terminal) di Livorno ha visto una più contenuta attività (+7,2%) che ha permesso al nostro Paese di utilizzare 1 miliardo di metri cubi.

MENO EXPORT. Il calo della domanda di gas ovviamente non è solo italiana, ma europea. Tant’è che le esportazioni di metano, nei primi tre mesi del 2023, sono calate del 31% a 626 milioni di metri cubi.

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L’indipendenza dal gas russo entro il 2025 è a portata di mano

Secondo un nuovo rapporto dell’Oxford Sustainable Finance Group, parte della Smith School of Enterprise and the Environment dell’Università di Oxford, l’Ue può sostituire il gas naturale russo con tecnologie verdi entro il 2028. Si stima che fino al 90% dell’investimento aggiuntivo richiesto, in aggiunta alla spesa attualmente prevista per il Green Deal europeo, potrebbe essere recuperato nei prossimi trent’anni eliminando la necessità di acquistare gas. Dato che il gas russo rappresentava circa la metà dell’approvvigionamento di gas naturale dell’Unione europea nel 2021, ciò avrebbe un impatto positivo significativo sulla sicurezza energetica e sulla decarbonizzazione, affermano gli autori. “La transizione dal gas russo all’energia pulita non solo è realizzabile, ma offre molteplici vantaggi. La sostituzione del gas naturale con l’energia eolica e solare elimina la necessità di pagare per il gas in futuro“, spiega Gireesh Shrimali, coautore del rapporto e responsabile della ricerca sulla finanza di transizione presso l’Oxford Sustainable Finance Group. “Eliminando la dipendenza dall’importazione di un combustibile fossile con prezzi e offerta volatili, l’Ue può alleviare i problemi di sicurezza energetica, affrontare la crisi del costo della vita attraverso i costi energetici e portare avanti i propri obiettivi per raggiungere zero emissioni nette e affrontare la crisi climatica“.

La spesa totale in conto capitale della “corsa per sostituire” il gas russo con energie rinnovabili e pompe di calore entro il 2028 è di 811 miliardi di euro. Questo totale include una spesa pianificata di 299 miliardi di euro per l’energia pulita nell’ambito del Green Deal europeo e un investimento aggiuntivo in energie rinnovabili e pompe di calore di 512 miliardi di euro. Una frazione significativa dell’investimento richiesto può essere ripagata dalla conseguente riduzione della spesa per il gas. A seconda delle ipotesi sui prezzi del gas naturale, il rapporto rileva che i risparmi potrebbero variare dal 40% fino al 90%.

Per l’Italia la situazione è leggermente diversa. Il gas è ancora il combustibile dominante nel mix energetico, con una quota del 48%, seguito dalle energie rinnovabili (34%), dal carbone (10%) e dall’idroelettrico (8%). La transizione per tanto sarebbe più lunga e probabilmente più costosa in termini di costi per investimenti in rinnovabili e maggiore rinuncia al metano per produrre elettricità, ora che tra l’altro i prezzi sono in netta discesa rispetto ai picchi di un anno fa. L’Italia rappresenta il Paese più sicuro per quanto riguarda l’approvvigionamento di gas, soprattutto perché riceve la materia prima da 5 gasdotti tutt’ora funzionanti, mentre ad esempio la Germania si è vista chiudere il rifornimento dalla Russia da Nord e da Est.

Dalla Russia tuttavia, complice la guerra e le risposte di Putin alle sanzioni, nel primo trimestre di quest’anno sono entrati da questa infrastruttura 1,4 miliardi di metri cubi, in calo del 73,6% dall’anno precedente. Potenzialmente sarebbero poco più di 5,5 miliardi di metri cubi per fine 2023, un crollo verticale nei confronti degli ultimi due anni. Se nel 2021 il maggiore partner per l’importazione era stata appunto Mosca con 29,1 miliardi di metri cubi transitati da Tarvisio, nel 2022 la quota di gas russo è scesa del 61% a 11,2 miliardi di metri cubi. Ora siamo a metà dello scorso anno. Per cui la sostituzione del gas russo, prevista per l’inverno 2024-2025 da Claudio Descalzi, amministratore delegato di Eni, è a portata di mano.

Il calo dei consumi di gas, circa un 20% nei primi mesi di quest’anno, agevola il raggiungimento dell’obiettivo. Target che sarà centrato grazie a due nuovi rigassificatori, uno già in funzione da pochi giorni a Piombino e l’altro che dovrà iniziare ad operare l’anno prossimo a Ravenna. Entrambi, a regime, dovrebbero garantire circa 10 miliardi di metri cubi.

Complessivamente, sosteneva sempre Descalzi pochi mesi fa “per il 2023-2024 porteremo 17,6 mld di forniture addizionali, che saliranno nel 2024-2025 a 22 miliardi. Bisogna pensare che solo 2 anni fa l’Algeria dava all’Italia circa 21 miliardi, adesso ha dato 25, arriveremo a 28 miliardi l’anno prossimo e poi nel 24-25 supereremo ancora l’import”. Giorgia Meloni, insieme proprio al numero uno del Cane a sei zampe, negli ultimi mesi ha siglato accordi pluriennali con Algeria e Libia per assicurarsi flussi di gas. A tal fine Snam è al lavoro per incrementare la capacità di trasporto di metano dal Sud Italia verso il Nord. A gennaio, durante la presentazione del piano strategico 2022-2026, Stefano Venier, Ceo del gruppo energetico, aveva spiegato che la capacità giornaliera della tratta adriatica “è di 135 milioni metri cubi al giorno e attualmente è usata per 100 milioni. Con il completamento del gasdotto Adriatico potremmo arrivare a una capacità di 155 milioni, potendo così trasportare un maggiore flusso dal Tap e dall’Algeria”.

Pnrr: è tempo di concentrarsi sul fare, non sui ritardi

A Bruxelles chi deve verificare tutto sommato è soddisfatto. Certo, non tutto ciò che riguarda lo sviluppo e l’attuazione del Pnrr (parliamo, ricordiamo, di quasi 200 miliardi di finanziamenti) è perfettamente in linea, ma non lo è non solo per l’Italia. Le condizioni dell’economia europea e mondiale sono cambiate negli ultimi tre anni, l’inflazione galoppante mette i bastoni tra le ruote, la guerra della Russia in Ucraina ha creato nuove urgenze, e dunque è chiaro per tutti, anche per la Commissione europea, che aggiustamenti saranno probabilmente necessari.

E’ però necessario mostrare buona volontà e capacità di spesa e realizzazione. I ‘no’ preventivi preoccupano chi osserva, anche perché l’Italia non ha un ruolino di marcia storico di quelli immacolati, di soldi europei ne abbiamo sprecati tanti, di cantieri avviati e mai chiusi è piena la Penisola. Il timore che si ripetano storie già viste è legittimo.

Questa volta i soldi sono davvero tanti, non bastano ovviamente a “rivoltare il paese come un calzino”, ma son un bell’aiuto, in particolare per l’Italia, di gran lunga il maggior beneficiario del Piano di ripresa europeo, per scrollarsi di dosso le debolezze del passato ed affrontare da protagonista la transizione. Perché il tema non è, qui, affermare la “sovranità decisionale” del nostro Paese, ma è quello di dargli le gambe per partecipare alla corsa verso la transizione irrobustendo la propria economia, e di conseguenza anche la situazione sociale, l’occupazione, la formazione, il problema demografico e così via.

Ci si deve dunque concentrare, questo è il messaggio che viene dai partner dell’Unione europea, sull’ammodernare il Paese, sul creare le condizioni perché sia competitivo, perché non perda la corsa con gli altri grandi Paesi industriali restando arretrata tecnologicamente e dunque debole economicamente.

La ‘transizione‘ non è solo una meritevole lotta per la difesa del clima, è oramai una condizione fondamentale della crescita economia. Chi resta indietro ora lo sarà sempre più nei prossimi anni, perché altri produrranno a costi più bassi, produrranno merci che avranno più mercato, occuperanno gli spazi che saranno lasciati liberi da chi non avrà le gambe per partecipare alla corsa,

Dunque iniziamo a realizzare i progetti, dimostriamo la capacità di farlo, e poi, se sarà obiettivamente necessario cambiare qualcosa, come prevedono le stesse regole del programma Next Generation Eu, lo si cambierà. Ma la base non può essere lo scontro politico (o polemico), non può essere dare l’immagine di voler mettere le mani avanti scaricando colpe e ritardi su altri (che sia vero o meno, non è questo il punto). La base deve essere dimostrare che le cose le si vogliono fare, che ci si attrezza per farle e che le si fanno. Nell’interesse dell’Italia, non di altri, per permettere all’Italia di sedersi ai tavoli internazionali ed essere vista con rispetto, quel rispetto che poi permette di far ascoltare la propria voce.

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Vertice Mattarella-Wang Yi: rilancio dell’export Italia-Cina e appello per porre fine alla guerra

Un incontro per riavvicinare la Cina al mondo occidentale. A Roma, il consigliere di Stato e direttore dell’Ufficio della Commissione centrale per gli Affari esteri del Comitato centrale del Partito comunista cinese, Wang Yi, è stato ricevuto dal presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, al Quirinale, assieme al vicepremier e ministro degli Esteri, Antonio Tajani, con il quale aveva già avuto un lungo colloquio il giorno prima alla Farnesina.

Al capo dello Stato Wang Yi spiega che questo giro nelle capitali arriva dopo che la Cina è uscita dalla ragnatela del Covid, con l’intento di rilanciare lo sviluppo del proprio Paese. E l’Italia ha un’antica consuetudine culturale con la Cina. I rapporti sono anche commerciali, infatti nel corso del colloquio viene fatto accenno alla Via della Seta, ovvero quel pacchetto di accordi sottoscritti dall’allora governo gialloverde con Pechino che scadranno nel mese di marzo del prossimo anno, ma che si rinnoveranno (automaticamente) alla fine del 2023. Il capo della diplomazia cinese, comunque, ha garantito che la sua nazione intende raddoppiare la collaborazione con il nostro Paese. Non solo con le importazioni dalla Cina, ma anche per implementare le esportazioni dei prodotti italiani.

Tra i temi toccati nel faccia a faccia tra Mattarella e Wang Yi non è ovviamente mancata l’Ucraina. Il presidente della Repubblica, secondo quanto si apprende, ha invitato la Cina a far valere la propria influenza su Mosca per arrivare a alla pace. Dall’inizio del conflitto scatenato dalla Russia, ormai, sono già passati dodici mesi e i negoziati sono ancora fermi.
Una richiesta arrivata anche dal vicepremier, Antonio Tajani. Come lo stesso ministro degli Esteri ammette ai microfoni di ‘Radio Anch’io’, su Radio Rai1, spiegando come è andato l’incontro con Wang Yi in Farnesina del giorno prima. “Ho chiesto di esercitare tutta la forza che un grande Paese quale la Cina ha nei confronti della Russia, affinché venga a più miti consigli, si sieda al tavolo di pace per garantire l’indipendenza dell’Ucraina ma soprattutto per porre fine alla guerra che ormai dura da un anno“. Non solo, perché al capo della diplomazia cinese “ho anche detto quali sono le nostre idee, da dove si dovrebbe cominciare” a costruire la pace. Innanzitutto “creare una zona neutra attorno a Zaporizhzhia, dove si trova la centrale nucleare – spiega Tajani -. Poi, occorre rafforzare i corridoi per il trasporto dei cereali, che sono indispensabili alla popolazione africana“.

Il vice presidente del Consiglio racconta che Wang Yi “ha usato molte parole di pace”, oltre ad avergli preannunciato che il presidente della Repubblica popolare cinese, Xi Jinping, “farà un discorso per la pace in occasione del primo anniversario della guerra”. Sottolineando che il diplomatico “ha insistito sul fatto che la Cina vuole la pace” e “Pechino ha una grande influenza su Mosca”.

L’Italia, dunque, conferma l’impegno per Kiev anche a livello diplomatico. Sul piano pratico, infatti, il nostro Paese è molto attivo: “Abbiamo inviato 100 tonnellate di materiale elettrico perché la popolazione civile non passasse l’inverno al gelo”, chiarisce ancora Tajani. Rivendicando di aver “sempre incoraggiato la Turchia perché facesse la mediazione” per lo sblocco dei corridoi del grano. Con la Cina, però, c’è da risolvere anche la questione legata al rinnovo degli accordi per la Via della seta. Ma per quello c’è ancora tempo fino alla fine dell’anno: “Stiamo valutando la situazione – conclude Tajani -, il governo deciderà il da farsi al momento opportuno”.

L’Italia leader del riciclo rifiuti in Europa: è il Paese più virtuoso

E’ un primato tutto italiano quello sul riciclo di rifiuti. Dal 1997 – anno in cui è cominciata la riforma del settore – a oggi il nostro Paese ha fatto un enorme balzo in avanti, tanto da diventare il primo in Europa per la percentuale di rifiuti riciclati che, nel 2020, ha raggiunto il 72%. Un dato decisamente superiore alla media europea, che è appena del 52%, e che fa segnare un grande distacco anche dalla Germania (55%), dalla Spagna (49%), dalla Francia (48%) e dalla Polonia (27%). E’ quanto emerge dal Rapporto ‘Il Riciclo in Italia 2022’, realizzato dalla Fondazione Sviluppo Sostenibile e presentato in occasione della Conferenza Nazionale dell’Industria del Riciclo.
Nel 1997 la raccolta differenziata dei rifiuti urbani era solo del 9,4% e l’80% della spazzatura finiva in discarica. I dati oggi sono decisamente positivi anche sul fronte dei rifiuti industriali: 25 anni fa se ne riciclava il 21% e il 33% era destinato alla discarica, mentre nel 2020 il recupero è salito al 70% e lo smaltimento in discarica è sceso al 6%. Anche per la gestione dei rifiuti d’imballaggio l’Italia è un’eccellenza europea, con più di 10,5 milioni di tonnellate avviate a riciclo, con un tasso pari al 73,3% nel 2021, superiore non solo al target europeo del 65% al 2025 ma, con 9 anni di anticipo, anche al target europeo del 70% al 2030.
Questo cambiamento nella gestione di rifiuti, spiega il rapporto, “ha alimentato la crescita dell’industria italiana del riciclo, diventata un comparto rilevante e strategico del sistema produttivo nazionale” che conta 4.800 imprese, 236.365 occupati, genera un valore aggiunto di 10,5 miliardi (aumentato del 31% dal 2010 al 2020) e che produce ingenti quantità di materiali riciclati. Si tratta di 12milioni e 287 mila tonnellate di metalli, in gran parte acciaio, di 5 milioni e 213 mila tonnellate di carta e cartone, di 2 milioni 287 mila tonnellate di pannelli di legno truciolare. E, ancora, di 2 milioni e 229 mila tonnellate di vetro riciclato, di un milione e 734 mila tonnellate di compost e 972 mila tonnellata di plastica riciclata. Nel complesso la produzione di materiale riciclato è aumentata del 13,3% tra il 2014 e il 2020.
Il settore del riciclo, pilastro fondamentale di un’economia circolare – spiega Edo Ronchi, Presidente della Fondazione per lo Sviluppo Sostenibile – è strategico per non sprecare risorse preziose, per non riempire il Paese di discariche, per recuperare materiali utili all’economia e ridurre le emissioni di gas serra”. Per questo, è il suo ragionamento, in un momento di congiuntura economica negativa “servono misure incisive per rafforzare la domanda di MPS, le materie prime seconde prodotte col riciclo e interventi strutturali per affrontare il forte aumento dei costi dell’energia che per l’industria del riciclo costituiscono la quota maggiore dei costi di produzione”.

Gas, risparmiato il 10% stoccaggi: due settimane in più assicurate

Secondo gli ultimi dati forniti da Gie (Gas Infrastructure Europe) Agsi (Aggregated Gas Storage Inventory) il tasso di riempimento degli stoccaggi al 19 novembre nell’Unione Europea è al 95,17%. Lo stesso giorno di un anno fa la percentuale era al 75,57%. Il tasso di riempimento dell‘Italia è leggermente sotto la media Ue al 94,42%. Un anno fa la percentuale era però all’82,92%.

In pratica, fermandoci al caso italiano, abbiamo risparmiato finora circa il 10% delle scorte di gas stipate nei siti dove un tempo si estraeva metano, gran parte dei quali si trovano in Lombardia o comunque nella pianura padana. In parte merito del clima, più mite di altri anni, in parte per una riduzione forzata dei consumi, soprattutto da parte del mondo industriale, che inevitabilmente genereranno un calo dell’attività produttiva.

A ottobre, primo mese del nuovo anno termico, i consumi di gas naturale in Italia si attestano a 4.339 milioni di mc (-23,2%)”, sintetizzava pochi giorni fa il Gme. La frenata della domanda è proseguita anche a novembre, basta considerare che l’accessione dei riscaldamenti in alcune città è scattata solo pochi giorni fa, un mese dopo il tradizionale avvio degli scorsi anni.

Ora, visto che gennaio generalmente mangia 10 miliardi di metri cubi, febbraio 7,7, marzo 7,3 e aprile 5,3, il risparmio di gas non appare granché. Più o meno parliamo di un mancato utilizzo di oltre 2 miliardi di metri cubi di gas. Tuttavia, visti anche i prezzi – il Ttf con consegna a dicembre è scambiato a 113,7 euro/Mwh in calo dell’1,5% – si può ipotizzare che proprio grazie a questo tesoretto di metano, che allunga le scorte di un paio di settimane, non andremo incontro all’incubo razionamento. Anche in Italia, nonostante il balzo a quota 108,4 euro, il valore medio del gas di novembre (78,4 euro) resta ancora sotto la media di 80,7 di ottobre. Siamo in linea con le quotazioni di un anno fa e il boom di luglio/agosto sembra un lontano brutto ricordo.

Il mercato dunque è convinto che questo inverno è al sicuro e che le scorte non arriveranno a zero a inizio primavera. “Con gli stoccaggi che abbiamo, con tutti i meccanismi messi a punto, con distinzioni tra gasivori e altri, con una graduatoria di interrompibilità temporanea a fronte di indennizzo, vedo questo inverno con fiducia. Si può superare. La preoccupazione maggiore è per il 2023. Dovremmo ricostituire tutte le riserve e gli stoccaggi e non avremo più il gas russo“, avvertiva stamattina il ministro dell’Ambiente e della Sicurezza energetica, Gilberto Pichetto Fratin, intervenendo all’evento ‘Direzione Nord’ al Palazzo delle Stelline di Milano. Questi oltre due miliardi di metri cubi di gas risparmiati comunque sono fondamentali. Proprio grazie a questa base di stoccaggio più elevata del previsto, “la domanda di gas europea nordoccidentale può essere mediamente di circa 22 milioni di metri cubi al giorno superiore alle nostre precedenti aspettative per l’estate senza compromettere l’obiettivo di riempire al 90% gli stoccaggi a fine ottobre 2023“, scriveva pochi giorni fa Goldman Sachs. Una analisi in base alla quale, “ipotizzando una sensibilità alla domanda che vale 2,4 euro per milione di metro cubo“, la banca d’affari americana ha rivisto al ribasso la previsione del prezzo Ttf per l’estate 2023 a 180 euro/MWh, 55 euro in meno rispetto alle precedenti stime. E questo significa che il gas, sulla carta, costerà sempre caro ma non mancherà.