Francia, entra in carica il Lecornu 2: corsa contro tempo per presentare bilancio

Il secondo governo di Sébastien Lecornu, composto da ministri politici e tecnici, entra in carica oggi con l’obiettivo di presentare un progetto di bilancio nei tempi previsti e di trovare la “strada” che gli eviti la censura promessa dall’opposizione. Dopo un passaggio di consegne che Matignon ha voluto “sobrio”, senza stampa, senza ospiti e al chiuso, il capo del governo riunirà i suoi nuovi ministri a Matignon alle 14:30. La loro priorità sarà quella di “dare un bilancio alla Francia entro la fine dell’anno” e cercare di far uscire la Francia da una crisi politica senza precedenti. Dimessosi all’inizio della scorsa settimana, riconfermato venerdì al termine di una missione lampo presso le forze politiche, Sébastien Lecornu è in bilico.

Tutte le opposizioni minacciano di farlo cadere e le sue speranze di sopravvivenza dipendono solo dal Partito socialista, con il quale sta cercando di trovare un accordo, in particolare sulle pensioni. Un primo Consiglio dei ministri si terrà domani alle 10, al ritorno del presidente Emmanuel Macron da un viaggio in Egitto per sostenere l’accordo tra Israele e Hamas. Il governo spera di presentare un progetto di bilancio che possa essere trasmesso nel corso della giornata al Parlamento e poi discusso nei tempi previsti. La Costituzione prevede che il Parlamento abbia 70 giorni di tempo per esaminarlo e approvarlo prima del 31 dicembre. Nei giorni successivi, il primo ministro dovrebbe pronunciare la sua tradizionale e attesissima dichiarazione di politica generale (DPG), in cui illustrerà la sua tabella di marcia, pur rimanendo, come i suoi predecessori, privo di maggioranza.

Domenica sera Lecornu ha presentato una squadra composta da volti nuovi, di cui otto provenienti dalla società civile e 26 dalle forze politiche, tra cui 11 dal partito presidenziale Renaissance. Ma i sei ministri di destra sono stati immediatamente esclusi dal partito Les Républicains (LR) di Bruno Retailleau, che aveva dato istruzioni – contestate dai deputati – di non entrare nella squadra Lecornu 2. Il prefetto della polizia di Parigi, Laurent Nuñez, succede a Bruno Retailleau al ministero dell’Interno, l’amministratore delegato uscente della SNCF Jean-Pierre Farandou è stato nominato al Lavoro e l’ex direttore generale dell’Istruzione scolastica Edouard Geffray all’Istruzione, succedendo a Elisabeth Borne che lascia il governo. Altre nomine di personalità meno note, questa volta politiche: il capo dei deputati indipendenti Liot Laurent Panifous viene incaricato delle Relazioni con il Parlamento, mentre il suo gruppo sarà fondamentale anche nel voto a favore o contro la censura. La deputata macronista Maud Bregeon diventa portavoce del governo, come già lo era nella squadra di Michel Barnier.

Diversi ministri, già presenti nei governi Bayrou o Barnier, rimangono al loro posto. Meno atteso, dato che Sébastien Lecornu non voleva circondarsi di personalità con ambizioni presidenziali, Gérald Darmanin è stato riconfermato ministro della Giustizia. Ha annunciato che si sarebbe preso una “pausa dalle attività di partito”. Dopo le successive prese di distanza di LR e della maggior parte dei suoi alleati centristi durante il fine settimana, Sébastien Lecornu ha ringraziato coloro che “si impegnano in questo governo in piena libertà, al di là degli interessi personali e di parte”. Questo nuovo esecutivo di 34 ministri, molto meno ristretto di quanto annunciato, ha tuttavia una durata che potrebbe essere limitata. “Non disimballate troppo in fretta i vostri scatoloni, la censura sta arrivando”, ha scritto su X la leader del gruppo insoumis all’Assemblea, Mathilde Panot. Marine Le Pen (RN) ha annunciato la presentazione di una mozione di censura già lunedì. Se Sébastien Lecornu dovesse dimettersi nuovamente, la prospettiva di un nuovo scioglimento dell’Assemblea nazionale, richiesto in particolare dall’estrema destra, potrebbe avvicinarsi ulteriormente. Il gruppo socialista (69 deputati), l’unico in grado di salvare il nuovo governo, ha posto l’asticella piuttosto in alto. Senza la conferma “dell’abbandono del 49-3, delle misure per proteggere e rafforzare il potere d’acquisto dei francesi e di una sospensione immediata e completa della riforma delle pensioni, lo censureremo”, ha avvertito. “Non ci sono segnali molto positivi”, ha deplorato domenica su BFMTV il segretario generale del PS, Pierre Jouvet. Ma ha precisato, come il leader del partito Olivier Faure, che i socialisti aspetteranno la dichiarazione di politica generale per pronunciarsi.

Francia, Macron nomina premier il ministro della Difesa Sébastien Lecornu

Emanuel Macron ha nominato premier il ministro delle Forze armate Sébastien Lecornu, suo uomo di fiducia proveniente dalla destra, incaricandolo in un primo momento di “consultare” i partiti al fine di “costruire gli accordi indispensabili per le decisioni dei prossimi mesi”, ha annunciato l’Eliseo.

Gli ha affidato il compito di consultare le forze politiche rappresentate in Parlamento al fine di adottare un bilancio per la Nazione e costruire gli accordi indispensabili per le decisioni dei prossimi mesi”, ha indicato la presidenza.

A seguito di queste discussioni, spetterà al nuovo Primo Ministro proporre un governo al Presidente della Repubblica”, ha aggiunto.

Lecornu diventa il settimo primo ministro di Emmanuel Macron e il quinto dall’inizio del suo secondo mandato quinquennale nel 2022. Una situazione senza precedenti nella Quinta Repubblica, a lungo nota per la sua stabilità, ma entrata in una crisi senza precedenti dallo scioglimento dell’Assemblea nazionale nel giugno 2024.

A 39 anni, l’ex senatore normanno, inamovibile dal governo dal 2017, ha scalato i gradini fino a diventare ministro delle Forze armate, un incarico estremamente delicato in tempo di guerra in Ucraina, e si è affermato come fedele e intimo collaboratore del capo dello Stato. Già lo scorso dicembre, Emmanuel Macron avrebbe voluto nominarlo a Matignon, ma il suo storico alleato François Bayrou aveva finito per imporsi su di lui. Questa volta, il presidente non ha esitato e questa nomina espressa, in contrasto con la sua naturale tendenza alla procrastinazione, sembra indicare che fosse stata accuratamente preparata in anticipo. Dopo aver riconosciuto la sconfitta del suo schieramento alle elezioni legislative anticipate post-scioglimento, aver tentato una semi-coabitazione con l’oppositore dei Repubblicani Michel Barnier e poi con il centrista Bayrou, si affida quindi a un macronista puro e duro.

Il presidente gioca l’ultima carta del macronismo, trincerato con la sua piccola cerchia di fedeli”, ha subito ironizzato Marine Le Pen su X. Il rompicapo che il presidente deve affrontare è però lo stesso che non è riuscito a risolvere da più di un anno: trovare un profilo in grado di sopravvivere di fronte a un’Assemblea più frammentata che mai. All’Eliseo si ritiene che la fragile coalizione costruita un anno fa tra la macronia e la destra sia un dato acquisito. Il presidente ha esortato i suoi capi a “lavorare con i socialisti” per “ampliare” la sua base. Ma ha rifiutato di nominare Olivier Faure primo ministro, nonostante le sue offerte di servizi per la formazione di un “governo di sinistra” che avrebbe cercato dei “compromessi”. Prima della nomina di Sébastien Lecornu, il primo segretario del Partito socialista ha rifiutato di dire se il suo partito avrebbe negoziato con una personalità proveniente dal campo presidenziale, continuando fino alla fine a “rivendicare il potere”.

Per reggere, il futuro governo dovrà comunque ottenere, come minimo, una non censura da parte del PS, indispensabile per dotare la Francia di un bilancio per il 2026, la cui preparazione ha appena fatto cadere il governo uscente che aveva presentato uno sforzo di 44 miliardi di euro. Il calendario di bilancio rischia già di deragliare a causa di questo ennesimo sussulto della crisi politica, dopo l’inedito ritardo dello scorso anno. E l’impasse politica rischia di agitare i mercati finanziari, in attesa della decisione dell’agenzia Fitch che venerdì potrebbe abbassare il rating del debito francese. Oggi, la Francia ha contratto un prestito a dieci anni a un costo pari a quello dell’Italia, da tempo considerata tra i paesi meno virtuosi d’Europa. Secondo un interlocutore abituale di Emmanuel Macron, quest’ultimo potrebbe questa volta accettare che il primo ministro faccia concessioni concrete ai socialisti, ad esempio sulla tassazione dei più ricchi, finora un tabù per lui. Oltre alle avance di Olivier Faure, il capo dello Stato ha comunque respinto gli appelli di coloro che gli chiedevano di ricevere i leader dei partiti di sinistra “prima della decisione”, come la leader degli Ecologisti Marine Tondelier, o di nominare prima un “negoziatore” in grado di verificare le possibili coalizioni. Al di là del bilancio, c’era “urgenza di nominare un primo ministro” perché non deve “esserci un vuoto di potere” alla vigilia del movimento “Bloquons tout” (Blocchiamo tutto), previsto per mercoledì, e prima della mobilitazione sindacale del 18 settembre, aveva martellato in mattinata il ministro dell’Interno uscente Bruno Retailleau, leader di LR, evocando un mese “propizio a tutti gli eccessi”. Emmanuel Macron lo sa: se ha solo carte imperfette in mano, la carta vincente che giocherà rischia di essere l’ultima prima di dover, in caso di nuovo fallimento, sciogliere nuovamente l’Assemblea, come invita a fare il Rassemblement national. In caso di stallo prolungato, aumenterebbe la pressione per le dimissioni di Emmanuel Macron.

Ucraina, Macron: “Sostegno militare da 26 Paesi, anche Italia”. Meloni: “Non invieremo truppe”

Ventisei Paesi si impegnano a sostenere militarmente l’Ucraina, “via terra, mare o aria“, dopo un cessate il fuoco con la Russia. Ma ognuno con modalità proprie: “Il loro contributo andrà dalla rigenerazione dell’esercito ucraino, al dispiegamento di truppe o la messa a disposizione di basi”, spiega Emmanuel Macron dopo il vertice dei volenterosi di Parigi.

L’inquilino dell’Eliseo non entra nei dettagli per non dare vantaggi a Mosca, ma precisa che Italia, Polonia e Germania sono tra i 26. “L’Italia è indisponibile a inviare soldati in Ucraina“, si affretta a precisare Giorgia Meloni in una nota, confermando però l’apertura a supportare un eventuale cessate il fuoco con “iniziative di monitoraggio e formazione al di fuori dei confini ucraini”. La premier, collegata con Parigi in videoconferenza, rilancia la proposta di un meccanismo difensivo di sicurezza collettiva ispirato all’articolo 5 del Trattato di Washington, come “elemento qualificante” della componente politica delle garanzie di sicurezza. Per Meloni una pace giusta e duratura può essere solo raggiunta con un approccio che unisca il continuo sostegno all’Ucraina, il perseguimento di una cessazione e il “mantenimento della pressione collettiva sulla Russia“. Anche attraverso le sanzioni, e “solide e credibili garanzie di sicurezza”, da definire in “uno spirito di condivisione tra le due sponde dell’Atlantico“, mette in chiaro.

Il nodo resta infatti il contributo degli Stati Uniti alle garanzie. Che ci sarà, assicura Macron, ma verrà definito nei prossimi giorni. Del sostegno o “backstop” americano si è parlato nella videoconferenza con Trump dopo il vertice, alla quale ha partecipato in parte anche il suo inviato speciale Steve Witkoff, presente all’Eliseo. La speranza degli europei è che Washington contribuisca in “modo sostanziale”, riferisce il portavoce del cancelliere tedesco Friedrich Merz. Di certo, Trump spinge l’Europa a interrompere l’acquisto di petrolio russo, che a suo dire aiuterebbe Mosca a proseguire la guerra. E’ “molto scontento che l’Europa acquisti petrolio russo”, ribadisce in conferenza stampa il presidente ucraino Volodomyr Zelensky, dopo il collegamento del Tycoon con il vertice, citando in particolare Slovacchia e Ungheria

. In base ai piani dei volenterosi, di cui Macron rifiuta di specificare i contributi paese per paese, il giorno in cui il conflitto cesserà “saranno messe in atto le garanzie di sicurezza”, fa sapere il presidente, sia attraverso un “cessate il fuoco”, un “armistizio” o un “trattato di pace”. Intanto, se Mosca non accetterà la pace, l’Europa adotterà nuove sanzioni “in collaborazione con gli Stati Uniti” e misure punitive contro i paesi che “sostengono” l’economia russa o aiutano la Russia ad “aggirare le sanzioni”. La Cina è nel mirino.

Gli europei chiedono sanzioni americane da mesi, finora senza successo. Trump, dicendosi “molto deluso” da Putin, aveva avvertito nei giorni scorsi che “succederà qualcosa” se Mosca non risponderà alle sue aspettative di pace. La Russia ribadisce che non accetterà alcun “intervento straniero di qualsiasi tipo”, con la portavoce della diplomazia russa Maria Zakharova che definisce le protezioni richieste da Kiev “garanzie di pericolo per il continente europeo”. “Non spetta a loro decidere”, replica Mark Rutte a nome della Nato. Quella di oggi è stata una “riunione cruciale“, rimarca la presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, che sull’importanza del dossier non ha dubbi: “Sappiamo tutti che la posta in gioco è il futuro e la sicurezza dell’intero continente”.

Ucraina, addestratori Ue sul campo dopo cessate fuoco. VdL: “Dobbiamo essere pronti”

L’Unione europea è pronta ad addestrare l’esercito ucraino a Kiev, dopo un cessate il fuoco o un accordo di pace che ponga fine ai combattimenti con le forze russe. Dopo il consiglio informale con i ministri degli Esteri e della Difesa di Copenaghen, Kaja Kallas non ci gira intorno: “Finora abbiamo addestrato più di 80.000 soldati e dobbiamo essere pronti a fare di più”, spiega. Il che, potrebbe includere l’invio di istruttori dell’Ue in Ucraina, ma solo dopo il ritiro delle truppe.

L’Alta rappresentante Ue si dice soddisfatta dell’ “ampio sostegno” dei 27 paesi membri a questa estensione dell’attuale mandato della missione militare dell’Ue in Ucraina. Tutti i paesi dell’Unione europea sono favorevoli, a eccezione dell’Ungheria. Gli europei lavorano sulle garanzie di sicurezza da fornire all’Ucraina dopo un’eventuale cessazione dei combattimenti e Bruxelles prevede di contribuire, in particolare rafforzando la sua missione di addestramento dei militari ucraini. Gli Stati Uniti, a lungo titubanti, hanno promesso in agosto di contribuire, ma senza inviare truppe americane sul suolo ucraino, sottolineando anche la necessità che gli europei garantiscano l’essenziale di queste garanzie di sicurezza per Kiev.

E mentre il presidente ucraino Volodymyr Zelensky chiede all’Ue più velocità per il programma di acquisto delle armi americane, Kallas suggerisce che il Fondo europeo per la pace possa “fornire finanziamenti a sostegno di questo impegno”. “Può rimborsare agli Stati membri le armi acquistate per l’Ucraina, anche a sostegno delle iniziative Purl della Nato”. Pertanto, il continuo blocco dello European Peace Facility, insiste, “non è giustificato”: “Risolvere rapidamente la questione è importante per il lavoro tra l’Europa e gli Stati Uniti a sostegno dell’Ucraina, e le questioni bilaterali non devono ostacolare gli aiuti”, scandisce Kallas. “Gli aiuti all’Ucraina salvano vite umane. Dobbiamo continuare a intensificare i nostri sforzi”, precisa.

Intanto, da Riga, Ursula von der Leyen ricorda che se nel nuovo bilancio europeo appena proposto si parla di una spesa quintuplicata per la difesa, è perché è “giunto il momento di essere pronti”. In conferenza stampa insieme alla prima ministra Evika Silina, la presidente della Commissione europea sostiene che l’Europa è sulla “strada giusta”, ma il lavoro da fare è ancora lungo. Al Consiglio europeo di ottobre si farà ancora il punto sulla tabella di marcia al 2030. Su Putin, von der Leyen non fa sconti: “E’ un predatore”, attacca: “I suoi rappresentanti hanno preso di mira le nostre società per anni con attacchi ibridi e attacchi informatici, l’uso dei migranti come arma è un altro esempio”.

A Tolone, dopo un consiglio dei ministri franco-tedesco, Parigi e Berlino fanno sapere che continueranno a esercitare “pressioni” perché vengano imposte nuove sanzioni alla Russia. “Siamo pronti a farlo, ma anche da parte degli Stati Uniti d’America per costringere la Russia a tornare al tavolo delle trattative”, spiega Emmanuel Macron in conferenza stampa con Friedrich Merz. Il 18 agosto, Putin si era impegnato con Trump a incontrare Zelensky. Se questo incontro bilaterale non si terrà entro lunedì, ”credo che ancora una volta significherà che il presidente Putin si sarà preso gioco di Trump“ e ”questo non può restare senza risposta”, afferma Macron. Merz confessa di non farsi illusioni: “È possibile che questa guerra duri ancora molti mesi“, deplora. I due leader parleranno separatamente con il presidente americano ”questo fine settimana”. La prossima settimana terranno anche una nuova riunione della coalizione dei volontari con i loro omologhi di 30 paesi pronti a fornire garanzie di sicurezza a Kiev per evitare una ripresa del conflitto una volta che questo sarà terminato. Nel frattempo, in una dichiarazione congiunta, annunciano l’intenzione di fornire all’Ucraina ulteriori sistemi di difesa antiaerea, “alla luce dei massicci attacchi russi” sul Paese nelle ultime settimane. Il presidente francese si difende inoltre dall’accusa di essere “grossolano e volgare” mossa da Mosca per aver definito Putin un ‘orco’. Nega qualsiasi insulto ma giustifica gli epiteti assegnati a “un uomo che ha deciso di intraprendere una deriva autoritaria, autocratica e di condurre un imperialismo revisionista dei confini internazionali”.

Da domenica il presidente russo sarà in Cina, dove incontrerà anche il presidente turco Recep Tayyip Erdogan a margine del vertice dell’Organizzazione di cooperazione di Shanghai. “La Turchia svolge un ruolo importante nel processo di risoluzione” del conflitto, spiega il consigliere diplomatico russo, Yuri Ushakov. La Turchia ha ospitato tre sessioni di colloqui tra Russia e Ucraina quest’anno, che però non hanno portato a progressi reali verso la pace.

Dazi, energia, difesa: le (nuove) ‘forti convergenze’ Meloni-Macron alla prova dell’Ue

Non solo Ucraina. Le quattro ore di confronto tra Giorgia Meloni ed Emmanuel Macron sono servite a sgomberare il campo nel rapporto tra i leader di Italia e Francia che, nelle ultime settimane, non sono stati sempre sereni. Non c’entra la simpatia personale o meno, il presidente della Repubblica francese e il capo del governo italiano hanno messo sul tavolo temi su cui rischiare di arrivare divisi o, peggio ancora, su posizioni non sintoniche potrebbe creare seri problemi, sia ai singoli Paesi sia all’Europa.

Le parole scelte per vergare il comunicato congiunto Palazzo Chigi-Eliseo di martedì sera ne sono la testimonianza. Roma e Parigi ricordano di essere “fondatrici della costruzione europea”, ruolo al quale assicurano di voler restare “fedeli” rafforzando “il loro impegno comune per un’Europa più sovrana, forte e prospera, soprattutto orientata alla pace e capace di difendere i propri interessi e di proteggere i propri cittadini”. In poche righe c’è quasi tutto il presente (e il futuro prossimo) del Vecchio continente, chiamato a tener botta sui dazi Usa, rilanciando allo stesso tempo l’industria attraverso la difesa. Non è un dettaglio, dunque, che Meloni e Macron scelgano di mettere nero su bianco che “l’incontro ha evidenziato forti convergenze sull’agenda europea per la competitività e la prosperità, da attuare in modo ambizioso e accelerato”.

Questo è un passaggio cruciale, perché tocca temi e priorità fondamentali per affrontare le sfide del nostro tempo, come quella dei costi fuori scala dell’energia, che stanno mettendo in ginocchio famiglie e imprese in buona parte d’Europa, Italia compresa. O la sfida della neutralità tecnologica, che di fatto metterebbe un freno al Green deal ma darebbe ossigeno all’automotive. “Abbiamo riscontrato forti convergenze sull’Agenda europea, sulla competitività, sulla semplificazione normativa, sul tema degli investimenti pubblici e privati, della transizione energetica con piena neutralità tecnologica e sul sostegno a settori strategici come automotive, siderurgia, intelligenza artificiale, energie decarbonizzate rinnovabili così come nucleare e spazio”, scrive a consuntivo Meloni sui suoi canali social. Il faccia a faccia tra la premier e Macron “è un passo importante non solo per i rapporti Italia-Francia, ma anche per l’Europa”, è la convinzione pure di Guido Crosetto. Il ministro della Difesa, molto vicino alla premier, sottolinea che “per affrontare il tema della difesa e della deterrenza occorre mettere insieme le nazioni più grandi a livello militare che sono Germania, Francia, Italia”, dunque “un confronto preventivo tra Roma e Parigi può consentire di disinnescare molte problematiche alla vigilia del prossimo incontro Nato”.

Ora viene il bello, però. Perché alle parole dovranno corrispondere i fatti. Per verificare se questo ‘refresh’ tra Meloni e Macron avrà vita lunga ed effetti efficaci c’è solo un campo di gioco: l’Europa, dove si giocheranno partite cruciali da qui ai prossimi mesi. Partite in cui la forza delle alleanze è sempre determinante: una crepa di troppo, o fratture profonde, nel rapporto tra i principali partner può rivelarsi decisiva. Fatalmente decisiva.

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Difesa, il piano di Macron: Proteggere l’Ue sotto lo scudo nucleare francese

Emmanuel Macron vuole “aprire la discussione strategica” sulla protezione dell’Europa con il nucleare francese, in un momento di riavvicinamento tra Mosca e Washington, specificando tuttavia che la decisione di premere il pulsante rimarrebbe “nelle mani” del presidente francese.

Rispondendo alla storica richiesta del futuro cancelliere tedesco (Friedrich Merz), ho deciso di aprire il dibattito strategico sulla protezione dei nostri alleati del continente europeo attraverso la nostra deterrenza”, ha dichiarato il capo dello Stato francese in un discorso televisivo. Tuttavia, “qualunque cosa accada, la decisione è sempre stata e rimarrà nelle mani del presidente della Repubblica, capo delle forze armate”, ha precisato, rispondendo alle critiche di alcuni politici francesi dell’opposizione.

Macron è intervenuto mentre la nuova amministrazione Trump fa temere un disimpegno degli Stati Uniti in Ucraina e una rottura storica della loro alleanza con gli europei.
La minaccia russa è reale e colpisce i paesi europei, colpisce noi”, ha sottolineato il capo dello Stato, ricordando che la Russia ‘ha già trasformato il conflitto ucraino in un conflitto mondiale’, ‘viola i nostri confini per assassinare gli oppositori, manipola le elezioni in Romania e in Moldavia’ e ‘tenta di manipolare le nostre opinioni con bugie diffuse sui social network’. Per Emmanuel Macron, “questa aggressività non sembra conoscere confini” e di fronte a questa situazione, “rimanere spettatori sarebbe una follia”. Secondo lui, “rimaniamo fedeli alla NATO e alla nostra partnership con gli Stati Uniti ma dobbiamo fare di più. Il futuro dell’Europa non deve essere deciso a Washington o a Mosca”.

Tutte queste questioni promettono di essere al centro di un vertice straordinario dell’Unione europea, oggi a Bruxelles, che mira, secondo la presidenza francese, a dimostrare che i Ventisette stanno “accelerando” in questo settore. Subito dopo il suo discorso, Emmanuel Macron ha ricevuto a cena il primo ministro ungherese Viktor Orban, sostenitore di Donald Trump e Vladimir Putin, e una delle voci più discordanti nell’UE.

Secondo Macron, al termine del vertice di oggi “i Paesi membri potranno aumentare le spese militari senza che questo venga considerato nel loro deficit. Verranno decise massicce sovvenzioni comuni per acquistare e produrre sul suolo europeo munizioni, carri armati, armi e attrezzature tra le più innovative”.
Lo scenario di una deterrenza europea si scontra con numerosi ostacoli, tra cui l’autonomia decisionale rivendicata da Parigi. Fin dall’inizio, la dissuasione francese si basa infatti sulla valutazione di una minaccia ai vitali interessi del paese da parte di un solo uomo, il presidente della Repubblica.

Evocando inoltre l’altro tema scottante delle relazioni tra Stati Uniti ed Europa, il presidente francese ha ritenuto necessario preparare l’Europa “a una decisione degli Stati Uniti di imporre tariffe doganali sulle merci europee”, come hanno appena confermato nei confronti di Canada e Messico. “Questa decisione, incomprensibile sia per l’economia americana che per la nostra, avrà conseguenze su alcuni dei nostri settori“, ha avvertito. “Mentre prepariamo la risposta con i nostri colleghi europei, continueremo a fare tutto il possibile per convincere che questa decisione sarebbe dannosa per tutti noi”.

Europa, il tema della leadership deciderà il nostro destino

Nel maggio del 1953 uno studente americano in visita in Inghilterra chiese a Churchill quale fosse il modo migliore per arrivare ad essere buoni leader. “Studi la storia, studi la storia” gli raccomandò lo statista “nella storia sono racchiusi tutti i segreti dell’arte di governo”.

Ma giustamente Henry Kissinger nel suo magnifico libro ‘Leadership’, edito nel 2021 quando aveva 98 anni (!), afferma che la conoscenza della storia, ancorché essenziale, non basta. Alcune questioni restano sempre “velate nella nebbia” e risultano impervie e difficili anche per gli esperti.

La storia infatti ci consente di confrontare per analogia situazioni tra loro simili. Ma l’analogia deve essere usata con cautela perché nessuno può rivivere il passato: il passato si può soltanto rievocare. Ogni situazione è in qualche modo unica nelle sue caratteristiche, per la semplice ragione che contiene elementi specifici che nessuna generalizzazione può afferrare.

La leadership è esattamente la capacità di dominare queste irriducibili novità della storia e le loro complessità. È possedere “l’impulso e l’istinto, la capacità di capire uomini e situazioni”, come scriveva all’inizio del secolo scorso il grande filosofo della storia Oswald Spengler.

La situazione che oggi vive l’Europa è del tutto inedita nella sua complessità, nel suo declino demografico, economico e industriale, nelle minacce alla sua sicurezza, nelle incertezze sul futuro.

Dopo la seconda guerra mondiale che aveva devastato il continente e dopo la liberazione dal nazifascismo, grazie soprattutto al sacrificio di giovani americani morti a migliaia di chilometri da casa per salvare l’Europa (solo nello sbarco in Normandia ne morirono 26.000), il nostro continente, grazie all’aiuto e alla protezione militare degli Usa, ha vissuto una stagione straordinaria di pace e di prosperità. Non era più al culmine della propria influenza globale come all’inizio del ’900, ma l’economia e la popolazione nel secondo dopo guerra sono tornate a crescere a un ritmo mai visto prima, l’industrializzazione, e un sempre più fiorente libero scambio, poi esploso negli anni della globalizzazione, hanno portato un benessere senza precedenti sorretto da un welfare sociale mai conosciuto nella storia del mondo.

Dopo secoli di guerre fratricide, le istituzioni democratiche dalla Gran Bretagna e dalla Francia si sono a poco a poco estese alle altre nazioni del continente, e finalmente si è dato vita al sogno della cooperazione europea, prima con la Ceca (Comunità del Carbone e dell’Acciaio) e l’Euratom (l’ente per l’energia nucleare) poi con il Mec (Mercato Comune Europeo) e infine con il trattato di Maastricht del 1992 che ha sancito la nascita dell’Unione Europea, suggellata qualche anno dopo dal traguardo della moneta comune.

Poi, all’inizio del nuovo millennio, si affaccia un cambiamento epocale che non è stato compreso dai più.

Il mondo si allarga e vi è una velocità di crescita di nuovi attori (innanzitutto, ma non solo, la Cina) che l’ideologia globalista e mercatista, imperante in occidente in quegli anni ed in auge anche presso le classi dirigenti europee, vede solo come grande opportunità di nuovi grandi mercati da scalare per le nostre merci e per le nostre industrie, senza intravvederne il rovescio della medaglia: una potenziale grande minaccia proprio per le nostre merci e per le nostre industrie.

All’origine dell’incapacità di comprendere il cambiamento c’è anche un’illusione culturale, e cioè che la crescita, il benessere e la pace che gli europei sono riusciti a costruire (anche, lo si vuole ripetere, grazie alla protezione militare statunitense) dovessero durare all’infinito.

La caduta dell’impero sovietico e la corsa verso l’Europa dei Paesi dell’Est europeo oppressi per decenni dalle diverse dittature comuniste agli ordini di Mosca convinsero tutti della superiorità del nostro modello.

In questo modo ci si è dimenticati della fatica della storia: solo diritti e non più doveri, la scomparsa del bisogno come prima molla dello sviluppo, un sentimento sempre più antindustriale guidato da un’ideologia estremista ambientalista dietro la quale si sono celate spesso spinte e tendenze anticapitaliste e anti-impresa, la grave sottovalutazione delle sofferenze e delle paure generate, soprattutto nelle classi meno abbienti e più indifese, dagli eccessi di una globalizzazione non governata e dai flussi migratori imponenti dal sud del mondo.

E ci si è pure dimenticati che la libertà non è garantita per sempre e che bisogna prepararsi a difenderla anche con la forza delle armi se necessario.

L’invasione russa dell’Ucraina, una guerra di trincea alle porte dell’Europa che si protrae da più di due anni con centinaia di migliaia di morti, che ha colpito un Paese libero che si deve disperatamente difendere, ha stracciato le nostre certezze e ha visto lo sbandamento delle opinioni pubbliche europee, dividendole tra quelle più vicine e spaventate dal neoimperialismo russo e le altre, che forse si credono più lontane e meno a rischio e che non sono sempre capaci di distinguere l’aggredito dall’aggressore.

Oggi noi europei paghiamo l’incapacità di comprendere la realtà e i suoi radicali cambiamenti; paghiamo la nostra presunzione e la sottovalutazione delle nostre debolezze; e paghiamo l’atteggiamento di chi per troppo tempo si è considerato il primo della classe.

Si dice che il castigo per l’ambizione e la presunzione eccessive, quelle che i greci chiamavano hybris, sia lo sfinimento, mentre il prezzo da pagare per aver riposato sugli allori sia la progressiva perdita di importanza e, infine, il declino.

Nicolò Machiavelli nei suoi ‘Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio’ sostiene che l’indebolimento della leadership è spesso legato all’apatia sociale provocata da lunghe fasi di tranquillità. Quando le società hanno la fortuna di vivere lunghi periodi di pace indulgono a una lenta ma progressiva corruzione dei costumi e ciò provoca la disattenzione e la presunzione di cui si è detto.

Al contrario la capacità di comprendere la situazione e di inquadrare una strategia per gestire il presente e plasmare il futuro, l’abilità di condurre la società verso obiettivi elevati costituiscono l’essenza stessa della leadership politica.

C’è qualcuno che ha il coraggio di fare un’analisi della realtà e di dichiarare in che condizioni siamo messi? C’è qualcuno che ha il coraggio di dire che l’Europa ha di fronte a sé una battaglia esistenziale?

Emmanuel Macron nel suo discorso alla Sorbona ha ricordato che l’Europa “è mortale”. Qualche giorno dopo il cancelliere Scholz ha detto cose simili. Non sembra che il ragionamento sia piaciuto né ai cittadini francesi né a quelli tedeschi, almeno a giudicare dall’esito delle urne. Eppure.

E sempre sul tema della leadership, esistono ancora leader capaci di una vera visione politica di lungo termine? È ancora possibile oggi in Occidente un’autentica leadership con il carattere, l’intelletto e l’audacia necessari per affrontare le sfide che attendono l’ordine mondiale?

Kissinger conclude il suo saggio affermando: “La fiducia nel futuro è indispensabile. Nessuna società può rimanere grande se perde la fiducia o se sistematicamente mette in dubbio la percezione che ha di sé. Ciò richiede ai governanti la disponibilità ad ampliare la propria sfera di interesse alla società in generale e a evocare la generosità del senso civico, che ispira servizio e sacrifici.”

Prezioso insegnamento per un’Europa che deve ritrovare la sua via.

Meloni a Parigi per Roma Expo2030: “Progetto innovativo e sostenibile”

La città universale per eccellenza. La prima megalopoli della storia, che “vive continuamente rigenerandosi“. Culla del dialogo tra religioni monoteiste, capitale della cultura, uno degli hub universitari più grandi del mondo. La città “dal cuore antico che batte al ritmo della storia“. Dal palco dell’assemblea generale del Bureau International des Expositions, a Parigi, Giorgia Meloni usa tutte le frecce al suo arco per promuovere Roma, città in cui è nata e cresciuta, per ospitare l’Expo 2030. Lo stesso anno in cui tutti i Paesi saranno chiamati a valutare i risultati degli obiettivi dello sviluppo sostenibile posti dalle Nazioni Unite.

E’ per questo che il progetto di Roma è tutto incentrato sulla sostenibilità, con il più grande parco solare urbano al mondo. Coprirà un’area di 150mila metri quadrati e avrà una capacità produttiva di picco di 36 Megawatt, composto da centinaia di “alberi energetici” che aprono e chiudono i pannelli durante il giorno, raccogliendo energia e offrendo ombra ai visitatori. Una complessa rete completata dal padiglione ‘Eco-system 0.0‘, l’edificio più alto, che fornirà il raffreddamento attraverso l’evaporazione.

Stiamo spiegando ai nostri partner che realizzare un progetto su larga scala senza deturpare il territorio è possibile“, scandisce la premier. Il progetto sarà, ribadisce, “innovativo e sostenibile, ogni padiglione produrrà energia pulita“. L’Expo, ricorda, è stata sempre “molto di più di una esposizione mondiale“: “E’ stata la storia di un disegno dell’era successiva. Roma vuole fare questo: ponendo al centro le persone, i territori, la rigenerazione. Parliamo di un’eredità ambiziosa di progresso“.

La Città Eterna non è però l’unica a contendersi l’Esposizione Universale del 2030. In lizza ci sono anche Busan (Corea del Sud) e Riad (Arabia Saudita). L’Ucraina, che aveva presentato una candidatura nel settembre 2022 per Odessa, non risulta più menzionata nel testo del Bie.

A Parigi il principe saudita Mohammad bin Salman presenta il suo faraonico piano di sviluppo chiamato ‘Vision 2030’. Pranza con il presidente francese, che a luglio aveva espresso il sostegno della Francia alla candidatura di Riad.

Macron però incontra tutti. Vede il presidente sudcoreano Yoon Suk-Yeol per discutere di “energia nucleare civile” e “cooperazione nei settori del futuro“, secondo quanto riferito dall’Eliseo.
Poi vede Meloni e disinnesca le tensioni dei mesi precedenti. “Italia e Francia sono due nazioni legate, importanti, protagoniste in Europa, che hanno bisogno di dialogare perché molti e convergenti sono gli interessi comuni. La nostra collaborazione è stretta e proficua in molti settori“, assicura la premier italiana nelle dichiarazioni all’Eliseo dopo l’incontro.

I 179 Stati membri del Bie voteranno a novembre, a scrutinio segreto, per determinare il vincitore. Le esposizioni universali si tengono ogni cinque anni e durano al massimo sei mesi. Busan vuole ospitare l’evento dal primo maggio al 31 ottobre 2030 sul tema ‘Trasformare il nostro mondo, navigare verso un futuro migliore‘, mentre la candidatura di Roma, nelle stesse date, si concentra su ‘Persone e territori: rigenerazione, inclusione e innovazione‘. Riad si candida dall’1 ottobre 2030 al 31 marzo 2031 con il tema: ‘L’era del cambiamento: insieme per un futuro luminoso‘.

Secondo il Bie, le esposizioni consentono al Paese ospitante di “costruire padiglioni straordinari e trasformare la città ospitante nel lungo periodo“. La più recente esposizione, quella di Dubai, ha attirato 24 milioni di visitatori. Quella del 2025 si terrà a Osaka, in Giappone.

 

Photo credit: Expo2030 Roma (Instagram)

A Bali vertice G7-Nato. Poi leader in visita a foresta mangrovie

La guerra entra nei confini dell’Unione europea e salta la giornata dei leader al secondo giorno di lavori del G20 a Bali, in Indonesia. Nel diluvio di missili russi sui cieli ucraini, nel villaggio polacco di Przewodov, al confine, un’esplosione fa due morti e la Polonia allerta l’esercito.

Gli appuntamenti slittano, mentre tra Kiev e Mosca le accuse rimbalzano. Con i leader del mondo riuniti a Bali, gli Stati Unici convocano una riunione urgente del G7 con la Nato. Al tavolo il presidente Joe Biden, il premier spagnolo Pedro Sanchez, la premier Giorgia Meloni, il presidente francese Emmanuel Macron, la premier il canadese Justin Trudeau, il premier giapponese Fumio Kishida, il primo ministro dei Paesi Bassi, Mark Rutte, il premier inglese Rishi Sunak. Presenti anche la presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, e il presidente del Consiglio europeo, Charles Michel.

Meloni scende nella hall dell’albergo e procede spedita verso la riunione dei leader, senza rilasciare dichiarazioni. Palazzo Chigi fa sapere poi di una telefonata con il premier polacco Mateusz Morawiecki per esprimergli la sua solidarietà e parla di “fortissima apprensione e preoccupazione” per quanto accaduto in Polonia. “E’ conferma della gravità e delle conseguenze della ingiustificata aggressione russa nei confronti dell‘Ucraina“, spiega lei su Twitter.

Il mondo al G20 chiede una de-escalation, mentre la Russia continua a bombardare: “E’ totalmente inconcepibile“, tuona Biden al termine della riunione. A ogni modo, “è improbabile che il missile che ha fatto due vittime in Polonia sia stato sparato dalla Russia“, lasciando intendere che è stato abbattuto nei cieli ucraini. A far luce sulla vicenda sarà un’indagine polacca, alla quale G7 e Nato offrono supporto, ritenendo la Russia “responsabile dei suoi sfacciati attacchi alla comunità ucraina“. I Paesi resteranno in stretto contatto per, spiegano in una nota congiunta, “determinare i passi successivi appropriati man mano che le indagini procedono“.

A riunione finita, i leader raggiungono la foresta delle mangrovie di Hutan, coinvolta nel programma di ripristino degli esemplari su un’area di 600mila ettari. Giorgia Meloni è l’ultima ad arrivare, dopo un bilaterale con il canadese Trudeau, in cui sul tavolo c’è l’impegno reciproco sulla transizione climatica. Nella foresta, i leader in polo e camicie bianche piantano simbolicamente un albero.

Cop27/Imago

Le tensioni tra Usa-Cina mettono a repentaglio l’esito di Cop27

Le tese relazioni tra Pechino-Washington potrebbero indurre la Cina a trattenersi dal prendere nuovi impegni sul clima, nonostante la crescente pressione internazionale sul più grande emettitore mondiale di gas serra. Il presidente degli Stati Uniti Joe Biden è atteso al vertice della COP27 in corso a Sharm el-Sheikh, mentre è certa l’assenza del suo omologo cinese Xi Jinping. La cooperazione tra i due Paesi più inquinanti è stata fondamentale per realizzare progressi in quasi 30 anni di negoziati sul clima sotto l’egida delle Nazioni Unite, in particolare per portare allo storico accordo di Parigi del 2015. Ma a oggi le relazioni si sono inasprite sulle spinta delle crescenti tensioni legate a Taiwan. L’esito della COP27 è quindi incerto, visto che la Cina è stata uno dei principali attori nel successo dell’accordo di Parigi. Si susseguono dunque, da parte della comunità internazionale, gli appelli affinché Pechino e Washington si assumano la propria responsabilità sui cambiamenti climatici: dall’Egitto, il presidente francese Emmanuel Macron ha chiesto loro in particolare di essere “davvero presenti”. Xi Jinping ha già preso due grossi impegni negli ultimi anni: la Cina raggiungerà il picco delle emissioni di carbonio entro il 2030 e sarà carbon neutral entro il 2060. Queste misure si stanno rivelando cruciali per raggiungere l’obiettivo dell’accordo di Parigi di mantenere l’aumento della temperatura globale ben al di sotto dei 2°C (l’aspirazione è 1,5°C) rispetto ai livelli preindustriali. Visti gli impegni attuali, è aumentata dunque la pressione sui principali inquinatori per andare oltre le loro promesse.