Pelù

Il ‘green’ della rock band italiana Litfiba sul palco dell’Ultimo Girone

Energie rinnovabili, pulite, green, risparmio dell’acqua. E, ancora, difesa del popolo curdo e di quello palestinese, critiche all’occupazione russa dell’Ucraina e al nucleare ‘pulito’. L’ambientalismo e le denunce sociali dei Litfiba sono tornati e lo hanno fatto sui palchi dell’ultimo tour della storica rock band italiana (lasciatemi dire, anche l’unica, ma chi scrive è di parte). La tappa torinese di sabato 9 luglio, nella meravigliosa cornice della Palazzina di caccia di Stupinigi, non ha fatto eccezione.

E mentre si chiude il cerchio inaugurato nel 1980 in via de’ Bardi a Firenze (cosa faranno al termine del tour Piero Pelù e Ghigo Renzulli?), intorno c’è un caos senza precedenti. Crollano letteralmente le montagne, la terra ha sete, i popoli hanno fame. E il bandido Piero lo ricorda, come sempre: “Energia e acqua non vanno sprecate“, urla dal palco fasciato nei consueti pantaloni di pelle, con il petto a vista e una camicia rossa maculata. Perché è pur sempre un’icona del rock. E quando le icone parlano, la platea ascolta. In migliaia applaudivano quelle parole non certo nuove – sono anni che Pelù ne parla – ma questa volta lo hanno fatto con gli occhi lucidi (e tanti con il posacenere portatile appeso alla cintura, altro che sesso-droga-rock’n’roll).

E lui rincara la dose: Parlare di nucleare pulito è come” parlare dell’onestà “di un mafioso. Da sempre i Litfiba (Pelù soprattutto) sensibilizzano la fan base sui rischi di un eventuale ritorno al nucleare, di cui nel pieno della crisi energetica si è tornati a parlare. Dagli appelli pubblici per il referendum del 2011 al palco di Stupinigi, snocciolando i ricordi delle tragedie di Chernobyl e Fukushima “sulla pelle – ricorda il frontman – della nostra tiroide“.

Questa volta non ha citato Greta Thunberg, ma sappiamo che ce l’ha nel cuore. È del 2020, infatti, il brano solista ‘Picnic all’inferno’ nel quale faceva letteralmente parlare la giovane simbolo del movimento Fridays For Future (“Piccola guerriera, scesa dalla luna, come una nave di vichinghi nella notte scura”). L’artista aveva ripreso il discorso di Greta in occasione della COP24 nel dicembre 2018 a Katowice (Polonia) inserendolo nella canzone e ‘duettando’ con lei. E poi, come dimenticare il Clean beach tour con Legambiente per ripulire le spiagge dai rifiuti.

C’era tutto questo sul palco sabaudo che più sabaudo non si poteva, tra una ‘Fata Morgana’ e un ‘Terremoto’, tra una ‘Regina di cuori’ (che ha costretto Pelù a raccogliere reggiseni per tutto il palco) e ‘Resta’, seguendo un ideale percorso che dal 1980 a oggi ha portato la band all’Ultimo Girone.

Purtroppo per chi scrive questa volta non c’è stato un ‘greendez-vous’ vero e proprio (in passato sì e ancora sventolo le foto ricordo come santini da conservare gelosamente nella scatola dei ricordi), ma anche a dieci metri dal palco la coscienza ambientale dei Litfiba si è sentita forte. Certo, pensare che questa è stata l’ultima volta insieme sul palco per la coppia Pelù-Renzulli lascia un po’ di amaro in bocca, ma dopo 42 anni – forse – è ora di voltare pagina. O forse no.

Da Parlamento Ue ‘sì’ a gas e nucleare in tassonomia verde

Sì a gas e nucleare nella tassonomia ‘verde’ dell’Unione Europea, il sistema di classificazione degli investimenti sostenibili. È la decisione che ha preso il Parlamento europeo, riunito a Strasburgo in plenaria, ponendo però delle condizioni fra cui un limite di tempo. La risoluzione di obiezione alla Tassonomia ha ricevuto 328 voti contrari e 278 favorevoli, con 33 astenuti su un totale di 639 votanti. Il Parlamento era chiamato a votare sull’obiezione alla proposta della Commissione Ue di includere, appunto, gas e nucleare in tassonomia.

Lo scorso 14 giugno, le commissioni competenti per il dossier, Ambiente (ENVI) e Affari economici (ECON), in una sessione riunita avevano sostenuto l’obiezione (76 voti a favore, contrari 62 e 4 astensioni), che non è però stata confermata dall’Eurocamera.

C’è ancora tempo fino all’11 luglio affinché Parlamento e Consiglio possano sollevare obiezioni alla proposta, ma se questo non accadrà l’atto delegato sulla tassonomia verrà applicato dal 1 gennaio 2023. Poco prima del voto la presidente della Commissione Europea Ursula von der Leyen aveva precisato che se il Parlamento avesse bocciato la proposta, non ce ne sarebbe stata una nuova da parte dell’esecutivo.

La tassonomia verde è un sistema di standard e criteri comuni a livello europeo per classificare le attività economiche sostenibili a livello ambientale con cui finanziare il Green Deal. Introdurre a livello europeo un’etichetta verde per gli investimenti, con l’obiettivo di mobilitare grandi somme di capitale (provenienti in particolare dal settore privato) in attività che contribuiscano ai suoi obiettivi climatici e ambientali. Le attività escluse dalla tassonomia non saranno vietate nell’Ue, ma l’idea alla base della classificazione è quella di fare in modo che la gran parte delle risorse private siano investite in attività o progetti che ne fanno parte. Nei fatti la tassonomia si traduce in un regolamento che ha stabilito 6 obiettivi ambientali: mitigazione e adattamento al cambiamento climatico, l‘uso sostenibile e la protezione delle acque e delle risorse marine; la transizione verso un’economia circolare; la prevenzione e la riduzione dell’inquinamento; la protezione e il ripristino della biodiversità e degli ecosistemi. Un’attività economica per entrare nella tassonomia deve contribuire “in modo significativo” al raggiungimento di uno di questi sei obiettivi fissati da Bruxelles, ma nessuno di questi obiettivi può essere compromesso (ovvero, l’attività non può arrecare un danno significativo).

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Sì o no al nucleare in Italia? Spada: “Zero rischi”, Ciafani: “Pericoloso”

Nella folle corsa all’approvvigionamento energetico, torna sul tavolo del dibattito pubblico il tema del nucleare, accantonato dal referendum del 1987. C’è chi è convinto sia l’unica alternativa per evitare il continuo rischio di emergenza energetica e chi, invece, vorrebbe chiudere il discorso ancora prima di intavolarlo.

Quello a cui guarda l’Italia è un nucleare di quarta generazione. Ma bisogna stare attenti, avverte Stefano Ciafani, presidente di Legambiente, intervistato da GEA: “Non esiste”. Si studia da 20 anni, senza “grandi passi avanti”. Secondo le stime più concrete, se le ricerche dovessero dare risultati diversi, i reattori su scala commerciale di quarta generazione si vedranno “a ridosso della metà del secolo. Quando, cioè, sarà troppo tardi e “per certi versi una parte del nostro Paese già sarà sott’acqua, se non facciamo quegli interventi immediati di riduzione di emissioni di gas serra per contenere il cambiamento climatico in atto”.

Il nucleare che oggi è possibile avere, e si sta realizzando in Francia e Finlandia, è di terza generazione avanzata. Eppure, insiste il presidente di Legambiente, “non ha risolto nessuno dei problemi storici”: uno su tutti la produzione di scorie altamente radioattive, che non si sa ancora come smaltire definitivamente. Continua, poi, ad avere “rischi di incidente” e a essere la fonte di energia più costosa: “Il nucleare, mi spiace dirlo da ambientalista, non è stato ucciso dagli ambientalisti, ma dal libero mercato, perché i costi di gestione di attività e chiusura del ciclo sono assolutamente proibitivi e per questo negli ultimi 10 anni gli investimenti sono andati a picco, perché le rinnovabili sono una tecnologia consolidata, che non produce emissioni di gas serra, non produce scorie, ha dei costi sempre più bassi, molto più bassi del nucleare, quindi questa discussione che si sta facendo in Italia è surreale”, avverte.

Chi nella tecnologia nucleare vede, invece, un’opportunità è il presidente di Assolombarda, Alessandro Spada: “Se davvero l’Italia ambisce all’autonomia energetica, non può che essere una parte importante del mix di fonti”, spiega contattato da GEA. La nuova generazione “sta raggiungendo molto rapidamente uno stadio di sviluppo fino a pochi anni fa impensabile – osserva -. Ma, in un futuro più prossimo, è opportuno rivalutare anche il nucleare tradizionale. Impianti sicuri, flessibili, di piccole dimensioni e realizzabili in pochi anni. È improcrastinabile parlarne senza preconcetti; il know how lo abbiamo in casa dato che le aziende del nostro territorio offrono servizi per gli impianti all’estero. Il nucleare, insomma, è un’alternativa reale su cui investire fin da subito”.

A percepirne le potenzialità applicate all’ambito ferroviario è Luigi Cantamessa, direttore generale della Fondazione Fs. Ammette di credere fermamente nella scienza: “Dieci anni fa chi avrebbe mai pensato che l’iPhone potesse fare quello che fa. Credo che il nucleare oggi, a livello ferroviario, sia una opportunità veloce e sicura”, afferma. Trentacinque anni fa, confessa, non sarebbe stato della stessa opinione: “Io nel nucleare vedo il minor impatto e non l’avrei pensata così nel giorno del referendum. Ho cambiato idea perché ho visto di cosa è capace la tecnologia”.

Inoltre, prosegue, “nell’opinione pubblica rimangono Chernobyl e un referendum fatto in un contesto diverso e obsoleto, quando avevamo il telefono a casa. Penso che se ci rimettiamo a camminare in quella direzione, in meno di un decennio il nucleare potrebbe risolvere il grande problema dell’Italia, avere un’indipendenza energetica eliminando l’idrocarburo, non vedo al momento altro”.

Il problema delle scorie non sembra spaventare il presidente della Fondazione Fs: “Anche l’eternit copriva tutte le stazioni ferroviarie italiane, oggi è smaltito come un rifiuto speciale. So di essere un po’ brusco, ma sono per il pensiero forte, quindi o noi rinunciamo allo standard di vita al quale siamo abituati e ci diamo alla la decrescita felice, il che è una libera scelta, o troviamo, come ci insegna l’economia circolare, la fonte energetica con meno esternalità, con meno conseguenze negative e non al prelievo, ma dall’inizio della creazione della fonte energetica fino allo sfruttamento e dopo”.

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Nucleare di quarta generazione, Dodaro (Enea): “Strada giusta ma ancora lunga”

Più sostenibile, sicuro, resistente alla proliferazione e economico, o quantomeno non più costoso rispetto a oggi. Sono le promettenti caratteristiche del cosiddetto nucleare di quarta generazione, una tecnologia sulla quale ha dichiarato più volte di voler puntare lo stesso ministro della Transizione ecologica, Roberto Cingolani.

Se le prime tre generazioni di reattori presentano una filosofia simile e derivano da progetti nati alla fine degli anni 40 e poi affinati per migliorarne efficienza e sicurezza, la quarta generazione promette di superare alcune delle principali criticità collegate alla produzione di energia nucleare. Dispositivi come i reattori veloci refrigerati a piombo (LFR), sui quali già da più di 20 anni sta lavorando Enea, rappresentano la quasi esclusività delle attività di ricerca e sviluppo nel settore in Italia. A delinearne i potenziali vantaggi parlando con Gea è Alessandro Dodaro, direttore del Dipartimento Fusione e Tecnologie per la sicurezza Nucleare Enea. “Il nucleare di quarta generazione non utilizza uranio-235 bensì uranio naturale che non viene trasformato in rifiuto radioattivo. Si può così arrivare a eliminare il 99% di quelle che sono chiamate volgarmente scorie radioattive”, spiega innanzitutto. A questo aspetto ne è legato un altro molto importante, quello della resistenza alla proliferazione degli armamenti nucleari visto che “diventerebbe inutile recuperare l’uranio-235 a partire dall’uranio naturale presente nel combustibile per realizzare ordigni: è un aspetto cruciale a livello di sicurezza”, ricorda Dodaro. Sicurezza che riguarda anche i reattori, dotati di sistemi passivi basati su leggi fisiche e non sull’intervento dell’uomo o sulla disponibilità di energia elettrica, capaci di attivarsi in automatico in caso di incidente. Un’altra Chernobyl, insomma, non sarebbe più possibile: il reattore tende spontaneamente a una condizione stabile e sicura. Infine, l’efficienza. L’esponente di Enea prova a esemplificare i vantaggi attraverso semplici numeri. “Con un reattore di quarta generazione raffreddato a metallo liquido, se il nocciolo produce 1.000 di energia, 400 vanno in corrente elettrica, 250 si possono sfruttare per altri scopi come generare idrogeno o il teleriscaldamento, e solo 350 viene disperso nell’ambiente. Con i reattori attuali invece tutto ciò che non diventa energia elettrica viene perso”.

Non è però tutto oro quel che luccica. C’è un grande ostacolo da superare per arrivare a utilizzare su larga scala sistemi nucleari di quarta generazione. “La difficoltà principale è gestire il metallo liquido che deve muoversi e assorbire calore dal nocciolo del reattore – afferma Dodaro -. Il piombo liquido è dieci volte più denso dell’acqua ed è quindi impossibile movimentarlo con i sistemi tradizionali. Occorre trovare un modo per gestire la parte termofluidodinamica del reattore”. I costi invece non rappresentano un problema, quantomeno se rapportati a quanto si spende oggi per produrre energia nucleare. “Bisogna considerare il costo del kilowattora di energia, comprendendo sia la spesa per la costruzione dell’impianto sia i costi successivi per lo smaltimento dei rifiuti radioattivi e quelli per lo smantellamento del reattore una volta finito il suo ciclo di vita – afferma Dodaro -. Un reattore di quarta generazione ha un costo di costruzione dell’impianto simile a uno di terza, ma avrà costi decisamente minori legati ai rifiuti e allo smantellamento, visto che ha dimensioni minori rispetto a uno di terza. Il costo finale sarà, se non più basso, almeno uguale a quello attuale”.

Nonostante negli ultimi tempi il dibattito sul nucleare si sia riacceso, complice anche la crisi energetica generata dal conflitto russo-ucraino, la strada per gli impianti ‘generation four’ è ancora piuttosto lunga. Secondo Dodaro, “bisognerà attendere il 2035 per i prototipi più consolidati di quarta generazione ‘classica’, e almeno il 2040 per vedere questi impianti pienamente operativi. Ci sono però progetti per reattori di taglia più piccola, come quelli su cui stiamo lavorando con al strat-up newcleo, che hanno orizzonti temporali più brevi e potrebbero concretizzarsi già attorno al 2030”.

(Photo credits: Sameer Al-DOUMY / AFP)

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Crescono gli investimenti globali in energia nucleare

A oltre 36 anni dal disastro di Chernobyl, punto di svolta nella storia dell’energia nucleare, sono 441 i reattori in funzione nel mondo, secondo gli ultimi dati forniti dal Power Reactor Informations System dell’Iaea, l’Agenzia internazionale per l’energia atomica. Il numero di reattori attivi nel mondo è sempre cresciuto dagli anni 50 fino al 1989, quando se ne contavano 420. Da allora il dato è rimasto pressoché stabile, anche se va considerato che attualmente risultano 53 i reattori in fase di costruzione. Ma la frenata alla costruzione di nuovi impianti alla fine degli anni 80 porta a un quadro dove l’età media dei reattori in funzione supera i 30 anni. Attualmente il paese con più impianti sono gli Stati Uniti (93), seguiti da Francia (56) e Cina (55), anche se il “gigante” asiatico vanta 15 reattori in fase di costruzione. Stringendo il campo alla sola Europa, dopo la Francia ci sono Regno Unito (11), quindi Belgio e Spagna (7 per entrambi).

Ma quanto incide la produzione nucleare sul fabbisogno globale di energia? Circa il 10%, secondo i dati dell’Agenzia internazionale dell’energia. Si tratta della quarta fonte dopo carbone (36,7%), gas (23,5%) e idroelettrico (16%). Nel 2020 le centrali nucleari nel mondo hanno fornito 2553 TWh di elettricità, in calo rispetto ai 2657 TWh del 2019. Ma la tendenza ad abbandonare questa fonte per puntare maggiormente sulle rinnovabile risulta chiara se si pensa che nel 1996 era nucleare il 17,5% dell’energia prodotta in tutto il mondo. Com’è facilmente intuibile, l’incidenza dell’atomo varia parecchio da zona a zona. Ad esempio, secondo i dati Eurostat nel 2020 circa il 25% dell’energia prodotta in Ue è arrivata dalle centrali nucleari. Dato che sale al 34,3% se si tolgono dal mazzo i Paesi che, come l’Italia, non utilizzano l’atomo. Il primato è della Francia, che trae dal nucleare circa due terzi della propria energia.

I numeri sembrano quindi raccontare un progressivo abbandono del nucleare, ma in realtà il trend potrebbe invertirsi nei prossimi anni a causa di due fattori: la spinta di paesi ‘affamati’ di energia come Cina e India e l’evoluzione tecnologica che sembra poter portare a reattori più sicuri, efficienti e puliti come quelli di quarta generazione. Per non parlare delle potenzialità racchiuse nella fusione, che promette di produrre energia senza scorie, emissioni nocive e rischi di incidenti disastrosi per l’ambiente. Il combinato disposto di tutto ciò porta a prevedere una crescita degli investimenti sul nucleare. Rystad Energy, società indipendente di ricerca energetica e business intelligence con sede a Oslo, ha stimato che le spese per il nucleare ammonteranno a 45 miliardi di dollari nel 2022 e 46 miliardi nel 2023, rispetto ai 44 miliardi di dollari del 2021. Una crescita dunque contenuta, ma che potrebbe accelerare non di poco negli anni successivi. Pechino infatti sta pianificando almeno 150 nuovi reattori nucleari nei prossimi 15 anni, con un esborso stimato di 440 miliardi di dollari. Mentre Nuova Dehli ha annunciato l’obiettivo di triplicare la produzione annuale di energia nucleare nei prossimi 10 anni.

(Photo credits: ALEX HALADA / AFP)

In Europa è battaglia per l’inserimento in tassonomia ‘verde’

Nucleare o non nucleare nel mix energetico del futuro dell’Ue. La necessità di ridurre la dipendenza dai combustibili fossili importati dalla Russia, costringe l’Unione Europea a ripensare le sue forniture di energia, soprattutto nel caso del gas naturale come fonte di transizione nel passaggio dal carbone alle energie rinnovabili. Da Mosca arriva oltre il 40% del gas importato in Ue e Bruxelles ha lasciato ai governi carta bianca su quando e come liberarsi dalle forniture di idrocarburi russi, dando il suo ok all’idea di prolungare – se pure “di poco” – l’uso delle centrali a carbone o del nucleare per la produzione di energia elettrica, evitando di ricorrere al gas come ponte di transizione.

La crisi dei prezzi del gas che va avanti dall’autunno ha rilanciato il fronte di chi vede nell’energia nucleare la migliore alternativa, nel breve periodo, al gas russo. L’Ue punta sulle energie rinnovabili, che ora sono più economiche e prive di carbonio ma non c’è ancora produzione su larga scala che consenta di affidarvisi completamente. Quindi Bruxelles è alla ricerca di una fonte più “stabile” per l’energia e guarda all’atomo. L’energia elettrica prodotta da centrali nucleari non produce emissioni di CO2 ed è questo il motivo per cui diversi Stati membri – e la stessa Commissione europea – continuano a sostenerne l’inclusione nel proprio mix energetico.

Sebbene sia una fonte energetica “pulita” perché a basse emissioni, gli Stati che la impiegano devono convivere con lo smaltimento di scorie e rifiuti radioattivi che restano sui territori per decenni. L’Italia, ad esempio, attraverso un referendum ha deciso di abbandonare la produzione di energia elettrica dal nucleare nel 1987, e ancora oggi sconta di non aver costruito un centro nazionale per lo stoccaggio e lo smaltimento dei rifiuti radioattivi.

In Europa c’è chi, come la Germania e l’Austria, hanno scelto di prolungare temporaneamente l’uso del carbone per ridurre la dipendenza da Mosca, chi, come la Francia o il Belgio, rilanciano la costruzione di nuovi reattori nucleari per la propria sicurezza energetica o ritardano la chiusura degli impianti esistenti. Il dibattito è più vivo che mai, dal momento che le istituzioni europee dovranno decidere nelle prossime settimane se inserire l’energia dell’atomo, insieme al gas naturale, nella lista delle attività economiche classificate come sostenibili, la cosiddetta Tassonomia verde dell’Ue. Un insieme di criteri comuni per mobilitare grandi somme di capitale (provenienti in particolare dal settore privato) in attività che possano contribuire ai suoi obiettivi climatici e ambientali.

Nel corso della prossima sessione plenaria che si terrà a Strasburgo dal 4 al 7 luglio, il Parlamento europeo si esprimerà su una risoluzione contro l’inserimento dell’energia nucleare e del gas naturale nella tassonomia. Il secondo atto delegato del regolamento della Commissione – quello che riguarda il nucleare e il gas – è stato adottato lo scorso 2 febbraio e presentato ai due co-legislatori di Parlamento e Consiglio per il voto decisivo.

Secondo la proposta della Commissione, per essere inseriti nella lista verde dell’Ue, i permessi per la costruzione di nuovi impianti nucleari non potranno essere rilasciati dopo il 2045 dagli Stati membri, mentre per estendere la vita degli impianti esistenti i permessi dovranno essere rilasciati entro il 2040. Le centrali serviranno per la produzione di elettricità o calore e anche la produzione di idrogeno, ma per poter costruire nuove centrali, gli Stati saranno vincolati a creare un fondo per la gestione dei rifiuti radioattivi e lo smantellamento degli impianti a fine vita. I governi dovranno mettere a punto un piano per fare entrare in funzione, al più tardi entro il 2050, un impianto a livello nazionale per lo smaltimento di rifiuti altamente radioattivi, sul quale riferiranno ogni 5 anni alla Commissione Ue.

Alla plenaria dell’Europarlamento servirà la maggioranza assoluta per opporsi al nucleare e al gas in tassonomia (353 voti). Molto più facile da raggiungere rispetto alla maggioranza rafforzata (20 su 27 Stati) che servirebbe in Consiglio. È proprio in Consiglio dove una maggioranza neanche si cerca ed è qui che è possibile osservare quanto sia cambiato l’approccio degli Stati membri negli ultimi mesi in relazione alla tassonomia, condizionato prima dall’aumento dei prezzi del gas e dell’energia e poi dalla guerra, che ha ricordato quanto l’Ue sia dipendente energeticamente da Stati terzi. A marzo di un anno fa c’erano solo Francia, Repubblica Ceca, Romania, Slovacchia, Ungheria, Slovenia e Polonia dichiaratamente a favore del nucleare nella tassonomia, oggi se ne contano oltre dieci con Bulgaria, Croazia, Finlandia, Romania, Slovacchia ma anche i Paesi Bassi. Poco si dice, però, di quanto l’atomo renda l’Unione dipendente dalla Russia, dal momento che nel 2020 il 26% dell’uranio arricchito (usato nella produzione di energia nucleare) era importato proprio da Mosca.

Una storia di amore e odio all’italiana: da perdita primato ricerca a referendum

Appaiono lontani, lontanissimi, i tempi in cui un referendum sfondava la quota del 50% e veniva validato. Se nel 1987 la sfiducia degli elettori verso la politica non aveva ancora raggiunto l’acme, nel 2011 l’indice di gradimento era quasi ai minimi storici. In entrambi i casi alle urne i cittadini trovarono le schede con 5 quesiti, alcuni dei quali riguardavano il nucleare in Italia.

I REFERENDUM

Il primo referendum si tenne all’indomani del disastro di Chernobyl: promosso dai radicali, passò con un’affluenza che superò il 65% e l’80,57% dei Sì. Il quesito riguardava lo stop alla costruzione di nuove centrali (“Volete che venga abrogata la norma che consente al Comitato interministeriale per la Programmazione economica di decidere sulla localizzazione delle centrali nel caso in cui gli enti locali non decidano entro tempi stabiliti?”). Fu la prima pietra tombale sulla produzione di energia nucleare in Italia.

Venticinque anni dopo gli italiani tornarono alle urne con una sorta di deja-vu per la preoccupazione (e l’indignazione) sollevata dal disastro alla centrale di Fukushima. Con un governo sfiancato dalla crisi del debito e indebolito agli occhi dell’opinione pubblica, l’Italia dei Valori tentò la proverbiale spallata e raccolse le firme necessarie per presentare un quesito sull’abrogazione “delle nuove norme che consentono la produzione nel territorio nazionale di energia elettrica nucleare”. Il quorum si fermò al 54,79%, più che sufficiente a far passare il referendum grazie al 94,05% di Sì. Più che pietra tombale, in questo caso si trattò di una risposta più che eloquente alla volontà di ritorno al nucleare e agli accordi internazionali siglati nell’aprile 2010 per la costruzione di 8 reattori. Ironia della sorte: il progetto sulla costruzione di una centrale da lì a 3 anni prevedeva la collaborazione tra il governo guidato da Silvio Berlusconi e la Russia di Vladimir Putin. E anche in quel caso l’argomento all’ordine del giorno era la “sicurezza energetica”.

RICERCA E SVILUPPO

Nulla di più attuale, legato peraltro a doppio filo con il nucleare. Lo stesso ministro alla Transizione ecologica, Roberto Cingolani, lo considera “il futuro. Perchè, ha spiegato di recente, i referendum si rispettano” ma “va fatta ricerca e sviluppo. E non si tratta della solita boutade. Da uno studio di Elsevier su oltre 70mila paper degli ultimi 6 anni nel mondo emerge che gli studiosi italiani sono sul terzo gradino del podio in Ue (dopo Regno Unito e Germania), per numero di pubblicazioni sul nucleare. Se ne contano almeno 2600 dal Belpaese e alcune di queste rappresentano un modello di accuratezza e innovazione superiore persino a quello di Francia e Giappone, Paesi che hanno maturato una certa esperienza sul tema. E non è un caso.

BOOM ECONOMICO AGLI ANNI ’80

Già negli anni ’50 e ’60 i ricercatori italiani erano pionieri nella ricerca sull’energia nucleare. Spinti dalla necessità di garantire al Paese una certa “sicurezza energetica”, i governi di allora promossero la costruzione dei primi reattori. Risale al 1959 quello di Ispra (Varese) destinato “alla ricerca”. Seguirono 4 anni più tardi le centrali di Borgo Sabotino (Latina) e di Sessa Aurunca (Caserta), mentre nel 1965 venne inaugurata quella di Trino (Vercelli), che segnò un record: alla sua entrata in funzione era la più potente al mondo, con i suoi 260 MWe e il reattore ad acqua pressurizzata. La quarta centrale fu nel 1978 quella di Caorso (Piacenza). Ci fu anche il tentativo di accendere l’impianto di Montalto di Castro (Viterbo) ma i lavori si interruppero prima nel 1987 (per il referendum) e poi, definitivamente, nel 1988. Di fatto l’espansione del nucleare in Italia cominciò alla fine degli anni Cinquanta e si fermò al 1981, con la centrale emiliana. In mezzo ci fu la nascita dell’Enel e l’avvio dell’importazione di idrocarburi che, secondo gli studiosi, fu il primo freno allo sviluppo dell’industria nucleare di Stato e ai programmi di ricerca italiani.

IL NODO SCORIE

I referendum abrogativi sul nucleare stabilivano lo stop alle centrali ma non stabilivano certo le modalità di gestione e smaltimento delle scorie. Dopo oltre un anno per la consultazione pubblica (dal 5 gennaio 2021 al 14 gennaio 2022), a metà marzo Sogin (Società Gestione Impianti Nucleari, commissariata dal governo il 22 giugno) ha trasmesso al ministero della Transizione ecologica la proposta di Carta nazionale delle aree idonee (Cnai) ad ospitare il deposito nazionale per i rifiuti radioattivi. La mappa individua 67 aree tra Piemonte, Toscana, Lazio, Puglia e Basilicata, Sicilia, Sardegna e ora la norma prevede che il MiTe, acquisito il parere tecnico dell’Ispettorato nazionale per la Sicurezza nucleare e la radioprotezione (Isin), approvi con proprio decreto la Carta, di concerto con il Ministero delle Infrastrutture e della Mobilità sostenibili. Delle 67 aree individuate, sono 12 quelle ritenute più idonee: 2 in provincia di Torino (Rondissone-Mazze-Caluso e Carmagnola), 5 in provincia di Alessandria (Alessandria-Castelletto Monferrato-Quargnento; Fubine-Quargnento; Alessandria-Oviglio; Bosco Marengo-Frugarolo; Bosco Marengo-Novi Ligure) e altre 5 in provincia di Viterbo (Montalto di Castro, Canino-Montalto di Castro, Corchiano-Vignanello, Corchiano). Le altre aree sono ritenute comunque idonee ma hanno una valutazione inferiore. Il monitoraggio è servito infatti ad assegnare una sorta di punteggio ai vari siti e tra i parametri considerati ci sono la morfologia del territorio (altitudine sotto i 700 m s.l.m, pendenze inferiori al 10%) ma anche il grado di rischio sismico e idrogeologico, la densità abitativa e la presenza di aree protette e siti Unesco.

Nel nuovo deposito nazionale saranno stoccati tutti i rifiuti nucleari italiani: sono circa 95mila metri cubi (17mila a media-alta attività e 78mila a bassa-molto bassa attività). Il materiale radioattivo proviene da installazioni nucleari (4 centrali e 4 impianti del ciclo del combustibile), ma anche da centri di ricerca e gestione di rifiuti industriali. In particolare in Italia esistono 4 centrali e un reattore di ricerca Sogin, 4 impianti del ciclo del combustibile (Sogin-Enea) e 7 centri di ricerca (Impianti Ipu e Opec di Enea a Casaccia-Roma, Ccr Ispra a Varese, Deposito Avogadro a Vercelli, LivaNova a Vercelli, Centro Energia e Studi Nucleari ‘Enrico Fermi’ di Milano, Lena-Università di Pavia e Agn-201 dell’Università di Palermo). A questi si aggiungono i 3 centri attivi del Servizio Integrato (Nucleco a Casaccia-Roma, Campoverde ad Alessandria e Protex a Forlì) e 1 centro del Servizio Integrato non più attivo (Cemerad a Taranto).

Lo scorso aprile, Sogin ha garantito l’impegno “nell’accelerazione delle attività che consentirà entro quest’anno di superare la soglia del 45% nelle attività di decommissioning nucleare. Il piano industriale 2020-2025 conferma peraltro “l’obiettivo di realizzare nell’arco di piano un volume di attività per oltre 900 milioni di euro. Il picco è nel biennio 2022–2023 con l’avvio, fra l’altro, degli smantellamenti dei reattori delle centrali di Garigliano e Trino, che rappresentano i lavori più complessi dal punto di vista ingegneristico e operativo nella dismissione di un impianto nucleare”.

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Italia senza energia atomica, ma Enea è leader nella ricerca applicata

Anche se l’Italia ha detto di fatto addio all’energia nucleare con i referendum del 1987, il nostro Paese rimane un punto di riferimento internazionale a livello di ricerca sull’atomo. La testimonianza più chiara arriva da Enea, l’Agenzia nazionale per le nuove tecnologie, l’energia e lo sviluppo economico sostenibile al centro di importanti progetti di ricerca e sviluppo sul nucleare di quarta generazione. Lo scorso dicembre è stato rinnovato il Consorzio Falcon (Fostering Alfred Construction) con Ansaldo Nucleare e Istituto di Ricerca Nucleare della Romania per realizzare un dimostratore di reattore a piombo di media taglia di IV generazione, il primo in Europa. Un’altra collaborazione al via in questo periodo coinvolge uno spin-off del Cern e riguarda reattori cosiddetti ADS (Accelerator Driven System) cioè ‘sistemi guidati da un acceleratore’ di protoni. Impianti che garantirebbero un livello di sicurezza molto maggiore visto che il reattore si spegnerebbe subito in caso di blackout elettrico, l’incubo peggiore per una centrale nucleare. “Questo tipo di reattore funziona ad acqua e sta a metà strada tra terza e quarta generazione, ma permette comunque di ridurre di molto il carico di rifiuti pericolosi”, spiega, parlando con GEA, Alessandro Dodaro, direttore del Dipartimento Fusione e Tecnologie per la sicurezza Nucleare Enea. A marzo, inoltre, Enea ha siglato un accordo con la startup newcleo che prevede la realizzazione di Advanced Modular Reactors di piccole dimensioni raffreddati al piombo invece che ad acqua. L’obiettivo, ambizioso, della società è di sviluppare i primi prototipi entro sette anni e quindi di commercializzare i nuovi reattori per sostituire quelli oggi in funzione, di seconda e terza generazione. Un progetto che sta attirando le attenzioni di molti investitori, come testimoniano i 300 milioni di capitale raccolti a metà giugno coinvolgendo realtà di primissimo piano come Exor e Azimut. Enea in questa partita metterà in campo infrastrutture, know-how e professionalità del suo Centro Ricerche del Brasimone (Bologna), potendo anche implementate nuove strutture e laboratori con investimenti attorno ai 50 milioni di parte di newcleo e l’assunzione di diversi ingegneri. “È un progetto in cui io e tutta Enea crediamo molto – conferma Dodaro -. Vogliamo sviluppare un dimostratore di un reattore nucleare che però non è nucleare: non ci sarà alcun isotopo radioattivo e le funzioni del nocciolo saranno svolte da resistenze elettriche. Di fatto, noi costruiremo uno ‘scaldabagno’ ma non a acqua, bensì a piombo per dare la possibilità a newcleo di realizzare in Regno Unito e Francia i primi due prototipi di reattori al piombo di piccole dimensioni”.

Enea però vanta anche una tradizione pluridecennale nel campo della fusione nucleare, la cosiddetta ‘energia delle stelle‘ che, spiega Dodaro, ci “renderà indipendenti dai combustibili e sarà pulita e sicura”. Al Dipartimento Fusione e Sicurezza Nucleare Enea lavorano quasi 500 fra ricercatori e tecnologi nei Centri di ricerca di Brasimone e Frascati. “Oggi c’è un grande interesse dal punto di vista industriale per la fusione”, dice Dodaro. I numeri mostrano che nel maggior progetto internazionale sulla fusione, cioè ITER (International Thermonuclear Experimental Reactor) le imprese italiane hanno vinto quasi 2 miliardi di euro di commesse: meglio di noi soltanto la Francia. “Le competenze sul nucleare erano un fiore all’occhiello per l’Italia già quando avevamo le centrali. Fortunatamente dopo il referendum del 1987 le competenze italiane sul nucleare non sono andate perdute e sono state reinvestite in altri ambiti. L’Enea rappresenta un esempio piuttosto chiaro di questa capacità”. Prova ne sia che di recente a Brasimone la ricerca sulla fusione ha dato il la a due nuovi filoni: la produzione di radiofarmaci, con la prospettiva di realizzare un Polo Nazionale per la medicina nucleare e lo sviluppo di tecnologie avanzate per il monitoraggio e la sicurezza/difesa del territorio.

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Gli italiani dicono ‘no’ a gas fossile e nucleare ‘verdi’

Gas fossile e energia nucleare sono ‘verdi’? Per la maggioranza dei cittadini italiani no. Un nuovo sondaggio del Wwf mostra che solo il 29% della popolazione pensa che l’Unione Europea dovrebbe classificare l’energia nucleare come sostenibile dal punto di vista ambientale. Per quanto riguarda il gas fossile, solo il 35% ritiene che l’Ue dovrebbe assegnare a questa fonte energetica un’etichetta verde. Plebiscitario invece il sì all’energia solare (92%) e a quella eolica (88%). In particolare, in Italia, solo il 26% degli intervistati ritiene che l’energia nucleare dovrebbe essere classificata come energia ambientalmente sostenibile, mentre il 96% dei cittadini è d’accordo che l’etichetta verde sia assegnata all’energia solare e il 91% pensa altrettanto per l’eolico. Solo il 38% degli intervistati pensa che l’Unione Europea dovrebbe ritenere il gas fossile una fonte sostenibile.

Non c’è assolutamente alcun consenso pubblico per il piano della Commissione di considerare come ’sostenibili’ il gas fossile e gli impianti nucleari. Ciò che i cittadini considerano ‘verdi’ sono l’energia solare ed eolica, non i combustibili sporchi e obsoleti”, ha dichiarato Mariagrazia Midulla, responsabile Clima ed Energia del WWF Italia, lanciando un appello agli eurodeputati, ovvero quello di ascoltare il loro elettorato e di bloccare questa proposta. L’Ue sta per approvare, infatti, l’elenco di fonti di energia ‘verdi’ come parte della sua nuova guida agli investimenti, la Tassonomia Ue. Di conseguenza, c’è il forte rischio che miliardi di euro siano dirottati dall’eolico, dal solare e da altre tecnologie verdi verso il gas fossile e l’energia nucleare, di fatto rallentando ancora la transizione e con essa la sicurezza e l’indipendenza energetica. Se gli eurodeputati non respingeranno l’Atto sulla tassonomia verde, questa diventerà legge dell’Ue.