Russia, Meloni: “Calpesta statuto Onu”. Crosetto: “A provocazioni risposta ferma e razionale”

(Photo credit: Palazzo Chigi)

La pazienza nei confronti di Mosca si sta esaurendo anche per l’Italia, che continua a sostenere la linea del dialogo, ma lancia un messaggio chiaro: la risposta alle “provocazioni” sarà compatta e logica.

A tre anni e mezzo dall’inizio del conflitto, dal palco dell’assemblea generale dell’Onu, Giorgia Meloni chiede alle nazioni unite di “riflettere” sulle conseguenze dell’aggressione. La Federazione Russa, membro permanente del Consiglio di Sicurezza, ha “deliberatamente calpestato l’articolo 2 dello Statuto dell’Onu violando l’integrità e l’indipendenza politica di un altro stato sovrano con la volontà di annetterne il territorio e ancora oggi non si mostra disponibile ad accogliere seriamente alcun invito a sedersi al tavolo della pace“, denuncia. La premier italiana parla di una “ferita profonda inferta” dalla Russia al diritto internazionale che “ha scatenato effetti destabilizzanti molto oltre i confini nei quali si consuma quella guerra“. Il conflitto in Ucraina, insomma, osserva la presidente del Consiglio, “ha riacceso e fatto detonare diversi altri focolai di crisi, mentre le Nazioni Unite si sono ulteriormente disunite“.

Le ultime violazioni dello spazio aereo della Nato da parte di aerei e droni russi sono per Guido Crosetto un campanello d’allarme che “non si può ignorare. Il ministro della Difesa comunica al Parlamento sugli attacchi a danno della Global Sumud Flotilla, ma non può non toccare il tema Russia. Gli eventi in Polonia e in Estonia sono una “specie di test, una sorta di provocazione” che richiede, scandisce, una “risposta ferma, razionale e coordinata“.

L’Italia, ricorda il ministro della Difesa, sin dalle prime avvisaglie, ha messo schierato quattro F-35, la batteria di difesa aerea Samp-T (che sarà mantenuta più a lungo del previsto) e un aereo radar fondamentale per la sorveglianza e la difesa aerea. E’ presente nel Baltico dal 2017 con la missione in Lettonia per “rispondere con determinazione al mutamento della postura russa”, precisa Crosetto. Oggi Roma è tra i principali contributori sul fianco Est con oltre 2000 militari, mezzi terrestri impegnati nell’attività di Forward Land Forces, caccia, Eurofighter, veicoli di comando e controllo, sistemi radar e difesa una presenza che, rivendica il ministro, “testimonia la serietà del nostro impegno nell’alleanza atlantica”.

La postura è “ferma, ma non provocatoria“, spiega, proprio perché l’obiettivo è di far sì che la situazione “non degeneri”, evitando di “cadere nella provocazione”, perché un’escalation avrebbe “conseguenze negative per tutti“. La strada da seguire per il governo quindi non è quella della paura, ma della responsabilità: “Difendere la pace significa essere pronti a proteggerla e oggi più che mai dobbiamo dimostrare che l’Europa e la Nato sono uniti, vigili e determinati“.

Intanto, sul fronte interno, l’esecutivo lavora a un piano nazionale per la protezione delle infrastrutture strategiche con sistemi anti-droni, già attivi nell’aeroporto di Roma: “È una risposta necessaria a una minaccia che oggi può non più essere solo convenzionale, ma anche ibrida e tecnologica“, riferisce Crosetto. Che ribadisce: “L’Italia e l’Europa non sono pronte ad affrontare un conflitto su larga scala, ma sono pronte a fare qualunque cosa per evitare un conflitto”.

Ucraina, Zelensky: “Mosca vuole espandere guerra”. Von der Leyen apre a dazi su petrolio russo

La guerra in Ucraina è al centro della seconda giornata di lavori all’Assemblea generale dell’Onu. A New York è infatti il giorno di Volodymyr Zelensky che, rinfrancato da un rinnovato sostegno a Kiev del presidente americano Donald Trump, ha esortato la comunità internazionale a fare di più in difesa dell’Ucraina. “A causa della debolezza delle istituzioni internazionali, questa follia continua, e anche far parte di un’alleanza militare di lunga data (come la Nato, ndr), non significa automaticamente essere al sicuro”, ha dichiarato lanciando un appello. “La Russia vuole espandere la guerra. Nessuno se non noi stessi possiamo garantire la sicurezza. Solo forti alleanze, forti alleati e solo le nostre armi”.

Intanto, sempre sulla scia delle dichiarazioni di Trump, la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen ha ammesso di stare lavorando a dazi sulle forniture di petrolio “che continuano ad arrivare in Ue dalla Russia”. “Il presidente Trump ha assolutamente ragione. Ci stiamo lavorando. Abbiamo già ridotto in modo massiccio la fornitura di gas dalla Russia, abbiamo completamente eliminato il carbone russo e abbiamo ridotto drasticamente anche l’approvvigionamento di petrolio”, ha detto in un punto stampa con il presidente degli Stati Uniti, a margine dei lavori dell’Assemblea.

Gli Stati Uniti hanno escluso qualsiasi possibile adesione dell’Ucraina all’Alleanza Atlantica, uno dei cui principi fondanti è che un attacco a uno dei suoi membri è un attacco a tutti. Il leader ucraino ha nuovamente espresso soddisfazione per l’incontro di martedì a margine dell’Assemblea Generale con il presidente americano. “Abbiamo avuto un buon incontro con il presidente Trump e ho parlato anche con molti altri leader influenti. Insieme possiamo cambiare molto”, ha affermato. “Certo, stiamo facendo tutto il possibile per garantire che l’Europa fornisca un’assistenza concreta e, naturalmente, contiamo sugli Stati Uniti“, ha aggiunto.

Ieri, dallo stesso pulpito, Trump ha affermato che Kiev potrebbe “riconquistare il suo territorio nella sua forma originale e forse anche spingersi oltre” contro la Russia, cambiando completamente il suo approccio al conflitto dopo mesi in cui aveva affermato che l’Ucraina, al contrario, avrebbe probabilmente dovuto cedere territorio. Anzi, il presidente americano ha definito la Russia “una tigre di carta“, che “combatte senza scopo da tre anni e mezzo una guerra che una vera potenza militare avrebbe dovuto vincere in meno di una settimana” assicurando che “dopo aver conosciuto e compreso appieno la situazione militare ed economica” tra i due Paesi “con il sostegno dell’Unione Europea, l’Ucraina sia in grado di combattere e riconquistare l’intero Paese nella sua forma originale. Con il tempo, la pazienza e il sostegno finanziario dell’Europa e, in particolare, della Nato, i confini originali da cui è iniziata questa guerra sono un’opzione concreta”.

Dichiarazioni che non sono affatto piaciute al Cremlino. “Continuiamo la nostra operazione militare speciale per garantire i nostri interessi e raggiungere gli obiettivi che (…) il presidente del nostro Paese ha stabilito fin dall’inizio. E agiamo così per il presente e il futuro del nostro Paese, per le numerose generazioni a venire. Non abbiamo quindi altra alternativa”, dice il portavoce della presidenza russa, Dmitri Peskov, secondo il quale il riavvicinamento tra Washington e Mosca avviato da Trump è stato infruttuoso. “Nelle nostre relazioni (russo-americane), una linea di condotta mira ad eliminare i fattori di irritazione (…). Ma questa linea di condotta procede lentamente. I suoi risultati sono vicini allo zero”, spiega durante un’intervista alla radio russa. L’appellativo di ‘tigre di carta’ non è piaciuto alla Federazione Russa, che ha ribattuto: il Paese “mantiene la sua stabilità economica”, dice Peskov, aggiungendo tuttavia che “la Russia sta affrontando tensioni e problemi in diversi settori dell’economia”. “La Russia non è una tigre. La Russia è più simile a un orso. E gli orsi di carta non esistono”, dice Peskov. Da New York Zelensky ha accusato la Russia “di non volere il cessate il fuoco” e ha anche lanciato l’allarme sullo sviluppo di droni autonomi e velivoli senza pilota in grado di abbattere altri droni e di colpire infrastrutture critiche. “Stiamo vivendo la corsa agli armamenti più distruttiva della storia dell’umanità, perché questa volta include l’intelligenza artificiale”, ha sostenuto. “Se il mondo non riesce a rispondere a tutte le minacce e se non esiste una solida piattaforma per la sicurezza internazionale, ci sarà ancora pace sulla Terra?”, ha esclamato

 

Trump show all’Onu: “Cambiamento climatico più grande bufala mai raccontata”

Il cambiamento climatico? “Una truffa, la più grande bufala mai raccontata”. Le politiche green? “Una follia”. L’impronta di CO2? “Non esiste”. In quasi un’ora di discorso senza contradditorio – a fronte dei 15 minuti concessi agli altri capi di Stato e di governo – è dal Palazzo di Vetro dell’Onu – in occasione dell’80esima Assemblea generale delle Nazioni Unite – che l’uragano Donald Trump fa piazza pulita di decenni di ricerche, progetti, politiche internazionali e accordi. Il climate change, per il repubblicano, non esiste affatto e, anzi, agire per contrastarlo significa, soprattutto per l’Europa, “continuare ad autoinfliggersi delle ferite”. La posizione di The Donald in tema ambientale è sempre stata chiara, ma mai in un discorso pubblico aveva messo sul piatto tutto ciò che ruota intorno al clima, dalle politiche energetiche alla salute, dalla manifattura alla Cina, passando per l’Accordo di Parigi al petrolio e al carbone “buono e pulito”.

L’assunto di base è evidente: “Il cambiamento climatico è la più grande truffa mai perpetrata al mondo” da un gruppo di “stupidi”, nel quale rientrano anche le “Nazioni Unite”. Il riscaldamento del pianeta, insomma, è “una bufala”, ed è per questo che “mi sono ritirato dal falso accordo di Parigi sul clima, dove tra l’altro l’America stava pagando molto più di ogni altro paese”. Mettere in campo azioni per non superare +1,5°C è, per Trump, troppo. Il presidente Usa fa un esempio legato all’attualità. Recenti ricerche hanno stimato che il caldo abbia causato almeno 175mila vittime solo in Europa. Negli Usa, invece, si registrano “circa 1.300 decessi all’anno” per la stessa ragione. “Ma dato che il costo” dell’energia “è così elevato” nel Vecchio Continente, “non si può accendere l’aria condizionata. Tutto in nome della finzione di fermare la bufala del riscaldamento globale”. In sostanza per il repubblicano, “l’intero concetto globalista di chiedere alle nazioni industrializzate di successo di infliggersi dolore e sconvolgere radicalmente le loro intere società deve essere respinto totalmente”.

Gli sforzi messi in campo dall’Europa, dalle organizzazioni internazionali, dal mondo delle imprese, dalle Cop sono “una follia”. L’effetto principale di queste “brutali politiche energetiche verdi non è stato quello di aiutare l’ambiente, ma di ridistribuire l’attività manifatturiera e industriale dai paesi sviluppati che seguono le folli regole imposte ai paesi inquinanti che le infrangono e stanno facendo fortuna”. Favorire, quindi, in primis, la Cina, che ora produce “più CO2 di tutte le altre nazioni sviluppate del mondo”.

Quindi, sulla scia dell’ormai celebre ‘Drill, baby drill’, il presidente Usa stronca ogni apertura verso le rinnovabili perché “sono costose da gestire. Sono un grandissimo scherzo”. Per l’Agenzia internazionale dell’Energia (Aie), invece, il 96% delle nuove energie rinnovabili ha un costo di produzione inferiore rispetto ai combustibili fossili. Meglio ripiegare sul “carbone pulito”, che “ci permette di fare qualsiasi cosa”, sul “gas” e sul “petrolio”, dal momento “che ne abbiamo più di ogni altro Paese al mondo”. E poco importa se poco prima il segretario generale dell’Onu, Antonio Guterres, aveva parlato di una crisi climatica che “sta accelerando”, sottolineando che “il futuro dell’energia pulita non è più una promessa lontana. È già qui. Nessun governo, industria o interesse particolare può fermarlo. Ma alcuni ci stanno provando”. Appunto.

Dal palco, di fronte a centinaia di delegazioni internazionali, Trump fa la sua predica: “Se non usciamo da questo scherzo che io chiamo il green, non avremo scampo. I vostri paesi non ce la faranno”. Gli Stati Uniti, ne è certo, sono invece “in una nuova età dell’oro”.

“Alcuni passaggi” del lunghissimo discorso del leader Usa convincono la premier Giorgia Meloni, il cui intervento all’Onu è previsto per domani alle 20 (orario di New York). “Sono d’accordo sul fatto che un certo approccio ideologico al Green Deal abbia finito per non rendersi conto che stava minando la competitività dei nostri sistemi e quindi ci sono dei passaggi di Trump che ho assolutamente condiviso”, dice in un punto stampa a margine dell’Assemblea.

Salute, Onu: Una persona su quattro non ha accesso sicuro all’acqua potabile

Più di 2 miliardi di persone non hanno ancora accesso all’acqua potabile gestita in modo sicuro, denuncia l’Onu in un rapporto che esprime preoccupazione per l’insufficienza dei progressi verso la copertura universale.

Le agenzie delle Nazioni Unite responsabili della salute e dell’infanzia stimano che lo scorso anno una persona su quattro nel mondo non avesse accesso all’acqua potabile gestita in modo sicuro e che oltre 100 milioni di persone dipendessero ancora dall’acqua di superficie, proveniente ad esempio da fiumi, stagni e canali. L’Organizzazione mondiale della sanità (OMS) e l’Unicef constatano che i ritardi nel programma di miglioramento dei servizi idrici, igienico-sanitari e di igiene (WASH) espongono miliardi di persone a un rischio maggiore di malattie. In uno studio congiunto, le due agenzie delle Nazioni Unite ritengono inoltre che l’obiettivo dell’accesso universale entro il 2030 sia ancora lontano dall’essere raggiunto. Al contrario, secondo loro, questa ambizione sta diventando “sempre più irraggiungibile”.

L’acqua, i servizi igienico-sanitari e l’igiene non sono privilegi: sono diritti umani fondamentali”, afferma Rüdiger Krech, responsabile dell’ambiente e dei cambiamenti climatici presso l’OMS. “Dobbiamo accelerare le nostre azioni, in particolare per le comunità più emarginate”.

Gli autori del rapporto hanno esaminato cinque livelli di servizi di approvvigionamento idrico potabile. Il livello più alto, “gestione sicura”, corrisponde a una situazione in cui l’accesso all’acqua potabile in loco è disponibile e privo di contaminazione fecale o chimica. I quattro livelli successivi sono “di base” (accesso ad acqua migliorata in meno di 30 minuti), ‘limitato’ (migliorato ma con tempi di attesa più lunghi), “non migliorato” (proveniente da un pozzo o da una fonte non protetta) e “acqua di superficie”.

Dal 2015, 961 milioni di persone hanno ottenuto l’accesso all’acqua potabile gestita in modo sicuro, con una copertura che è passata dal 68% al 74%, secondo il rapporto. Dei 2,1 miliardi di persone che non avevano ancora accesso a servizi di acqua potabile gestiti in modo sicuro, 106 milioni utilizzavano acque superficiali, con una riduzione di 61 milioni di persone in un decennio. Il numero di paesi che hanno eliminato l’uso delle acque superficiali per il consumo è passato da 142 a 154, secondo il rapporto. Nel 2024, solo 89 paesi disponevano di un servizio di base di approvvigionamento di acqua potabile, di cui 31 con accesso universale a tali servizi gestiti in modo sicuro. I 28 paesi in cui una persona su quattro non aveva ancora accesso ai servizi di base erano concentrati principalmente in Africa.

Per quanto riguarda i servizi igienico-sanitari, dal 2015 1,2 miliardi di persone hanno ora accesso a servizi gestiti in modo sicuro, con una copertura passata dal 48% al 58%. Questi servizi sono definiti come strutture migliorate che non sono condivise con altre famiglie e in cui i rifiuti vengono smaltiti in loco o trasportati per essere trattati fuori sito. Il numero di persone che defecano all’aperto è sceso da 429 milioni a 354 milioni, pari al 4% della popolazione mondiale. Dal 2015, 1,6 miliardi di persone hanno ottenuto l’accesso a servizi igienici di base (un dispositivo che consente di lavarsi le mani con acqua e sapone). Un comfort di cui ora beneficia l’80% della popolazione mondiale, contro il 66% di dieci anni fa. “Quando i bambini non hanno accesso all’acqua potabile, ai servizi igienico-sanitari e all’igiene, la loro salute, la loro istruzione e il loro futuro sono a rischio”, ricorda Cecilia Scharp, direttrice del programma WASH dell’Unicef. Secondo lei, “queste disuguaglianze sono particolarmente evidenti per le ragazze, che spesso si assumono l’onere di raccogliere l’acqua e devono affrontare ulteriori problemi durante il ciclo mestruale”. “Al ritmo attuale, la promessa di accesso all’acqua potabile e ai servizi igienico-sanitari per ogni bambino si allontana sempre più”, spiega Scharp.

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Gaza nel baratro: Onu dichiara ufficialmente lo stato di carestia

La via è ormai senza ritorno. L’Onu ha ufficialmente dichiarato lo stato di carestia a Gaza, dove secondo i suoi esperti 500.000 persone versano in condizioni “catastrofiche”, mentre Israele minaccia di distruggere la città più grande del territorio palestinese devastato dalla guerra.

Dopo mesi di avvertimenti, l’Integrated Food Security Phase Classification (IPC), un organismo delle Nazioni Unite con sede a Roma, ha confermato che nella provincia di Gaza è in corso una carestia. Israele ha definito l’annuncio come “basato sulle menzogne di Hamas”, il movimento islamista palestinese il cui attacco senza precedenti del 7 ottobre 2023 contro Israele ha scatenato la guerra. “Non c’è carestia a Gaza”, ha affermato il ministero degli Esteri israeliano. “E’ una menzogna spudorata”, ha replicato il primo ministro Benjamin Netanyahu, secondo cui “Israele non ha una politica di carestia. Israele ha una politica di prevenzione della carestia”.

Ma secondo l’IPC, la carenza estrema di cibo dovrebbe estendersi ai governatorati di Deir el-Balah (centro) e Khan Younès (sud) entro la fine di settembre. Il governatorato di Gaza rappresenta circa il 20% della superficie del territorio palestinese. Se si aggiungono quelli di Khan Younès (29,5%) e Deir el-Balah (16%), si arriva al 65,5%, ovvero circa i due terzi della superficie totale della Striscia di Gaza, un territorio povero di 365 km2 dove vivono ammassati più di due milioni di palestinesi.

Secondo gli esperti dell’Onu, più di mezzo milione di persone in questa zona affrontano condizioni “catastrofiche”, il livello più alto di emergenza alimentare dell’IPC, caratterizzato da carestia e morte. Una situazione che “avrebbe potuto essere evitata” senza “l’ostruzionismo sistematico di Israele”, ha accusato il responsabile del coordinamento degli affari umanitari delle Nazioni Unite, Tom Fletcher.

Il Cogat, l’organismo del ministero della Difesa israeliano che supervisiona gli affari civili nei Territori palestinesi occupati, ha denunciato il rapporto dell’IPC come “falso e parziale”, aggiungendo che non si è tenuto conto degli sforzi compiuti nelle ultime settimane per “stabilizzare la situazione umanitaria nella Striscia di Gaza”. Il capo dei diritti umani delle Nazioni Unite, Volker Türk, ha ricordato venerdì che “affamare le persone per scopi militari è un crimine di guerra”. “Non possiamo lasciare che questa situazione continui impunemente”, ha dichiarato il segretario generale dell’Onu, Antonio Guterres. “Abbiamo bisogno di un cessate il fuoco immediato, del rilascio immediato di tutti gli ostaggi e di un accesso umanitario totale e senza ostacoli”, ha aggiunto. Per il ministro degli Esteri britannico, David Lammy, si tratta di uno “scandalo morale” e “totalmente evitabile”. A puntare il dito è anche la Croce Rossa Internazionale, secondo cui Israele, in quanto forza di occupazione, ha l’obbligo di “soddisfare i bisogni primari della popolazione” di Gaza come afferma il diritto internazionale.

“Sapete chi sta morendo di fame? Gli ostaggi rapiti e torturati dai barbari di Hamas”, ha reagito su X l’ambasciatore degli Stati Uniti in Israele, Mike Huckabee, fervente sostenitore di Israele anche prima della pubblicazione del rapporto dell’IPC.

Clima, Onu: Vertigini fino alla morte, proteggere lavoratori dal caldo estremo

L’aumento delle temperature globali ha un impatto sempre più negativo sulla salute e sulla produttività dei lavoratori, avverte l’Onu, che chiede azioni rapide per limitare i rischi.Sono necessarie misure immediate per combattere l’aggravarsi dell’impatto dello stress termico sui lavoratori di tutto il mondo”, affermano l’Organizzazione mondiale della sanità (OMS) e l’Organizzazione meteorologica mondiale (OMM), due agenzie delle Nazioni Unite che hanno pubblicato un rapporto congiunto su questo tema.

Lo stress da calore, causato in particolare dall’esposizione prolungata al calore, si verifica quando l’organismo non riesce più a raffreddare il corpo, provocando sintomi che vanno da vertigini e mal di testa fino all’insufficienza organica e alla morte. Le raccomandazioni si basano sui dati dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro (OIL), secondo cui oltre 2,4 miliardi di lavoratori sono esposti a calore estremo in tutto il mondo, pari al 71% della popolazione attiva mondiale. Di conseguenza, ogni anno si registrano oltre 22,85 milioni di infortuni sul lavoro e quasi 19.000 decessi. La frequenza e l’intensità degli episodi di calore estremo sono aumentate notevolmente, aumentando i rischi per le persone all’aperto e al chiuso, secondo l’OMS e l’OMM. Colpi di calore, disidratazione, disfunzioni renali o disturbi neurologici. Gli effetti sulla salute sono vari e i lavoratori dei settori agricolo, edile e della pesca sono particolarmente esposti, precisano.

Lo stress termico sul lavoro è diventato una sfida sociale globale che non si limita più ai paesi situati vicino all’equatore”, afferma Ko Barrett, vicesegretario generale dell’OMM. Proteggere questi lavoratori “non è solo un imperativo sanitario, ma anche una necessità economica”, aggiunge. Secondo queste agenzie delle Nazioni Unite, la produttività dei lavoratori diminuisce del 2-3% per ogni grado in più oltre i 20 °C. Chiedono l’attuazione di piani d’azione adeguati a ciascun settore e regione. “Senza un’azione coraggiosa e coordinata, lo stress termico diventerà uno dei rischi professionali più devastanti della nostra epoca, causando gravi perdite in termini di vite umane e produttività”, afferma Joaquim Pintado Nunes, capo del servizio per la sicurezza e la salute sul lavoro dell’OIL. “Investire in strategie efficaci di prevenzione e protezione consentirebbe al pianeta di risparmiare diversi miliardi di dollari ogni anno”, ha proseguito in conferenza stampa.

Il rapporto raccomanda di dare priorità ai lavoratori anziani, a quelli che soffrono di malattie croniche o che hanno una condizione fisica meno buona, i più sensibili allo stress termico. Lavoratori, sindacati, esperti sanitari e autorità locali devono collaborare per elaborare misure adeguate, raccomanda il rapporto. L’ultimo rapporto tecnico e le ultime raccomandazioni dell’OMS sullo stress termico sul lavoro risalgono al 1969, “un’epoca in cui il mondo era molto diverso in termini di cambiamenti climatici”, osserva Ruediger Krech, responsabile dell’ambiente e dei cambiamenti climatici presso l’OMS. “Ciò che è cambiato è la gravità” degli episodi di calore, aggiunge, dato che gli ultimi dieci anni sono stati i dieci più caldi mai registrati. “In futuro dovremo affrontare il calore estremo. È una realtà per molti: si tratta di adattarsi o morire”, afferma Johan Stander, direttore dei servizi dell’OMS.

Greenpeace richiama le responsabilità delle aziende dei combustibili fossili nella crisi climatica. “I governi di tutto il mondo non possono più restare a guardare mentre la salute e il reddito dei lavoratori vengono compromessi a causa di una crisi climatica alla quale hanno contribuito in misura minima. Nel frattempo, le compagnie petrolifere e del gas guadagnano miliardi ogni giorno, alimentando il riscaldamento globale con le loro emissioni fuori controllo”, commenta Federico Spadini della campagna Clima di Greenpeace Italia. “Il rapporto ONU elenca molte soluzioni giuste per affrontare questa grave situazione, ma sono i grandi inquinatori, e non le persone comuni, che dovrebbero finanziare le azioni contro la crisi climatica. Per questo chiediamo ai governi di introdurre una tassazione adeguata sui profitti delle aziende dei combustibili fossili”.

Clima, allarme Onu: 70% probabilità che Terra si riscaldi più di 1,5 °C tra 2025 e 2029

Il riscaldamento medio del pianeta dovrebbe superare di oltre 1,5 °C i livelli preindustriali nel periodo 2025-2029, secondo le previsioni formulate mercoledì con un grado di certezza del 70% dall’Organizzazione meteorologica mondiale (OMM), agenzia delle Nazioni Unite.

Il pianeta dovrebbe quindi rimanere a livelli storici di riscaldamento dopo i due anni più caldi mai registrati (2023 e 2024) e persino il decennio più caldo, secondo il Servizio meteorologico del Regno Unito (Met Office) sulla base delle previsioni di dieci centri internazionali, in un rapporto pubblicato dall’OMM.

Abbiamo appena vissuto i dieci anni più caldi mai registrati. Purtroppo, questo rapporto dell’OMM non lascia intravedere alcuna tregua”, spiega il vice segretario generale, Ko Barrett.

Il riscaldamento di 1,5 °C è calcolato rispetto al periodo 1850-1900, prima che l’umanità iniziasse a bruciare industrialmente carbone, petrolio e gas, la cui combustione emette anidride carbonica, il gas serra largamente responsabile del cambiamento climatico. Si tratta dell’obiettivo più ottimistico che i paesi del mondo hanno fissato nel 2015 nell’accordo di Parigi, ma che sempre più climatologi ritengono ormai impossibile da raggiungere. Infatti, le emissioni di CO2 non hanno ancora iniziato a diminuire a livello globale, anzi continuano ad aumentare.

Ciò è perfettamente in linea con il fatto che siamo vicini al superamento di 1,5 °C a lungo termine alla fine degli anni 2020 o all’inizio degli anni 2030”, commenta il climatologo Peter Thorne, dell’Università di Maynooth in Irlanda. Per appianare le variazioni naturali del clima, esistono diversi metodi per valutare il riscaldamento a lungo termine, ha spiegato Christopher Hewitt, direttore dei servizi climatologici dell’OMM. Un approccio combina le osservazioni degli ultimi 10 anni con le proiezioni per i prossimi 10 anni, prendendo la stima centrale. Ciò dà un riscaldamento medio attuale, nel periodo 2015-2034, di 1,44 °C. “Non c’è consenso”, avverte tuttavia Hewitt. Ma la stima è dello stesso ordine di grandezza di quella dell’osservatorio europeo Copernicus (1,39 °C). Sebbene sia “eccezionalmente improbabile” secondo l’OMM, esiste ora una probabilità non nulla (1%) che almeno uno dei prossimi cinque anni superi i 2 °C di riscaldamento. “È la prima volta che vediamo questo dato nelle nostre previsioni”, ha osservato Adam Scaife, del Met Office. “È uno shock”, anche se “pensavamo che fosse plausibile a questo punto”. Ha ricordato che dieci anni fa, per la prima volta, le previsioni avevano indicato la probabilità, allora “molto bassa”, che un anno superasse 1,5 °C. Si è verificato per la prima volta in un anno solare nel 2024. Ogni frazione di grado di riscaldamento in più può intensificare ondate di calore, precipitazioni estreme, siccità, scioglimento delle calotte glaciali, dei ghiacci marini e dei ghiacciai.

La scorsa settimana, la Cina ha registrato oltre 40 °C in alcune zone, gli Emirati Arabi Uniti quasi 52 °C e il Pakistan è stato attraversato da venti mortali, dopo un’intensa ondata di caldo. “Abbiamo già raggiunto un livello pericoloso di riscaldamento globale” con le recenti “inondazioni mortali in Australia, Francia, Algeria, India, Cina e Ghana” e “gli incendi boschivi in Canada”, sottolinea Friederike Otto, climatologa dell’Imperial College di Londra. “Continuare a puntare sul petrolio, sul gas e sul carbone nel 2025 è una follia assoluta”, insiste. Il riscaldamento dell’Artico dovrebbe continuare a superare la media mondiale nei prossimi cinque anni, prevede anche l’OMM. La concentrazione di ghiaccio marino dovrebbe diminuire nei mari di Barents, Bering e Okhotsk, mentre l’Asia meridionale dovrebbe continuare a ricevere precipitazioni superiori alla media. Si prevedono condizioni più umide nel Sahel, nell’Europa settentrionale, in Alaska e nella Siberia settentrionale, nonché condizioni più secche nel bacino amazzonico.

Clima, Onu: Dal 2008 mai così tante persone in fuga dalle catastrofi

Centinaia di migliaia di persone sono state costrette a fuggire da cicloni, siccità, incendi e altre catastrofi climatiche lo scorso anno. Un numero record dal 2008, che sottolinea l’urgenza di implementare reti di allerta precoce in tutto il mondo, secondo l’ONU.

I paesi poveri sono fortemente colpiti, ricorda il rapporto annuale sullo stato del clima della World Meteorological Organization (WMO), basato sui dati dell’International Displacement Monitoring Centre (IDMC). In Mozambico, circa 100.000 persone sono state sfollate durante il passaggio del ciclone Idai. Ma i paesi ricchi non sono risparmiati. L’OMM ricorda, ad esempio, che le inondazioni a Valencia, in Spagna, hanno causato 224 morti e che i devastanti incendi in Canada e negli Stati Uniti hanno costretto più di 300.000 persone ad abbandonare le loro case per mettersi in salvo.

“In risposta, l’OMM e la comunità internazionale stanno intensificando i loro sforzi per rafforzare i sistemi di allerta precoce”, spiega Celeste Saulo, segretaria generale dell’agenzia. L’OMM vuole che entro la fine del 2027 l’intera popolazione mondiale possa essere avvertita in tempo. “Stiamo facendo progressi, ma dobbiamo andare oltre e più velocemente. Solo la metà dei paesi del mondo dispone di adeguati sistemi di allerta precoce”, sostiene.

L’appello arriva mentre il ritorno al potere di Donald Trump fa temere un regresso nelle scienze del clima. La principale agenzia americana responsabile delle previsioni meteorologiche, dell’analisi del clima e della conservazione marina, la NOAA, è diventata un obiettivo privilegiato dell’amministrazione repubblicana, e centinaia di scienziati ed esperti sono già stati licenziati. Donald Trump ha anche nominato a capo di questa prestigiosa agenzia un meteorologo, Neil Jacobs, che aveva ingannato la popolazione sul passaggio di un uragano durante il suo primo mandato.

Nelle ultime settimane, l’OMM ha sottolineato il ruolo di “leadership” degli Stati Uniti nel sistema internazionale che consente di stabilire previsioni meteorologiche essenziali e vitali. “Lavoriamo con tutti gli scienziati del mondo per migliorare la situazione delle popolazioni” e ‘speriamo che ciò continui nonostante le divergenze politiche e i cambiamenti interni’, ha dichiarato Omar Baddour, che dirige i servizi di monitoraggio del clima dell’OMM, durante la presentazione del rapporto. Scienziati e ambientalisti hanno espresso preoccupazione per i licenziamenti e per un possibile smantellamento della NOAA. “Investire nei servizi meteorologici e idrologici nazionali è più importante che mai per affrontare le sfide e costruire comunità più sicure e resilienti”, osserva anche Celeste Saulo. Tanto più che “i chiari segni del cambiamento climatico causato dall’uomo hanno raggiunto nuovi picchi nel 2024”, con conseguenze irreversibili per centinaia o addirittura migliaia di anni, sottolinea l’OMM in un comunicato.

Lo storico accordo sul clima del 2015 mira a mantenere il riscaldamento ben al di sotto dei 2°C e a proseguire gli sforzi per limitarlo a 1,5°C rispetto all’era preindustriale. Il rapporto dell’OMM ricorda che il 2024 è stato l’anno più caldo mai registrato e il primo anno solare al di sopra di questo livello di riscaldamento, con una temperatura media sulla superficie del pianeta superiore di 1,55°C alla media del periodo 1850-1900, secondo un’analisi basata su sei grandi database internazionali. “Il nostro pianeta invia sempre più segnali di allarme, ma questo rapporto mostra che è ancora possibile limitare l’aumento della temperatura globale a lungo termine a 1,5 °C”, afferma il capo dell’ONU Antonio Guterres nel comunicato. Nel 2024, “i nostri oceani hanno continuato a riscaldarsi” e “il livello del mare ha continuato ad aumentare”, si preoccupa la signora Saulo, mentre “la criosfera, la parte ghiacciata della superficie terrestre, si sta sciogliendo a un ritmo allarmante: i ghiacciai continuano a ritirarsi e la banchisa antartica ha raggiunto la sua seconda estensione più bassa mai registrata”. Durante la presentazione del rapporto, l’oceanografa Karina von Schuckmann ha riferito di “un’accelerazione” di due indicatori globali: il riscaldamento degli oceani, caratterizzato da un’accelerazione dal 1960, e l’innalzamento del livello del mare.

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Clima, Ipcc riunito in Cina: è battaglia politica sul calendario del prossimo rapporto

L’Ipcc (Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico), il gruppo di esperti climatici incaricati dall’ONU, si riunisce da oggi in Cina per far adottare dai rappresentanti dei Paesi del mondo il calendario e il contenuto dei suoi lavori scientifici, dietro ai quali si gioca una vera e propria lotta geopolitica.

Creato nel 1988 per informare i responsabili politici, l’Ipcc ha appena iniziato il settimo ciclo di lavoro. Entro il 2029, questo ciclo dovrebbe portare a un grande rapporto di riferimento, composto da voluminosi rapporti intermedi e tematici. A quale ritmo e per quale contenuto? È ciò che i paesi devono decidere durante questa riunione che si tiene fino al 28 febbraio a Hangzhou, in un contesto caratterizzato dai due anni più caldi mai registrati e dall’annunciato ritiro degli Stati Uniti dall’accordo di Parigi sul clima.

La questione è se i tre principali capitoli del rapporto finale – che riguardano la fisica, gli impatti climatici e le soluzioni per ridurre i livelli di gas serra – possano essere prodotti abbastanza rapidamente da fare da base scientifica per il “bilancio globale” dell’ONU sul clima nel 2028. Questo bilancio, redatto ogni cinque anni per analizzare gli sforzi dell’umanità per rispettare l’accordo di Parigi, è un documento chiave dei negoziati annuali sul clima.

Il primo bilancio, nel 2023, ha tracciato un quadro severo del ritardo accumulato dall’umanità nel ridurre le sue emissioni di gas serra, che avrebbero dovuto diminuire del 43% tra il 2019 e il 2030 ma non sono ancora in calo. In risposta, la COP28 di Dubai alla fine del 2023 si era conclusa con un impegno senza precedenti a una “transizione” verso l’uscita dai combustibili fossili, nonostante importanti concessioni all’industria e ai paesi produttori.

Molti paesi ricchi e le nazioni in via di sviluppo più esposte, in particolare i piccoli Stati insulari, sono favorevoli a un calendario accelerato, ma si scontrano con le obiezioni di alcuni produttori di petrolio o grandi inquinatori le cui emissioni sono in aumento, come India e Cina. Per la Coalizione per l’ambizione elevata, che riunisce paesi europei e paesi vulnerabili dal punto di vista climatico, basare il “bilancio globale” del 2028 su dati scientifici solidi e aggiornati è un elemento cruciale per il rispetto dell’accordo di Parigi del 2015. Secondo la dichiarazione pubblicata sabato, la rottura di questo legame “comprometterebbe la credibilità e l’integrità” di questo accordo, che mira a contenere il riscaldamento ben al di sotto dei 2°C e a proseguire gli sforzi per limitarlo a 1,5°C. Ma Cina, Arabia Saudita, Russia e India sono tra i paesi che hanno giudicato il calendario proposto troppo precipitoso, secondo il resoconto delle sessioni precedenti redatto dall’International Institute for Sustainable Development. Gli osservatori temono che la sessione in Cina sia l’ultima possibilità di trovare un accordo. “Penso che il motivo per cui le discussioni sono state così accese sia la situazione attuale: la pressione geopolitica, l’onere finanziario degli impatti del cambiamento climatico e la transizione verso l’abbandono delle energie fossili”, ha dichiarato una fonte vicina alle discussioni. Secondo l’ultima sintesi dell’IPCC, all’inizio del 2023, il mondo è sulla buona strada per superare la soglia di riscaldamento a lungo termine di 1,5°C all’inizio degli anni 2030. Ma recenti studi suggeriscono che questa fase potrebbe essere superata prima della fine di questo decennio. Il 7° ciclo del Giec prevede anche pubblicazioni tematiche.

Un rapporto, molto atteso, riguarderà “il cambiamento climatico e le città”, dove vive più della metà dell’umanità. È previsto per il 2027. L’Ipcc deve anche produrre un documento inedito sui metodi, balbettanti e criticati, di cattura e stoccaggio della CO2. E una metodologia per valutare meglio le emissioni e l’impatto degli inquinanti a breve durata (metano, ossido di azoto e particolato), meno controllati della CO2, ma che svolgono un ruolo importante nel riscaldamento globale.

Allarme Onu: 95% Paesi ritardano consegna piani su obiettivi climatici

Quasi 200 paesi in tutto il mondo hanno avuto tempo fino ad oggi per presentare all’Onu la loro nuova tabella di marcia sul clima. Ma quasi tutti hanno saltato l’appuntamento, alimentando il timore di un ‘attendismo’ delle principali economie nella loro lotta contro il cambiamento climatico dopo il ritorno di Donald Trump. Secondo un database delle Nazioni Unite, solo 10 firmatari dell’accordo di Parigi hanno presentato le loro strategie aggiornate per ridurre i gas serra entro il 2035 entro la scadenza del 10 febbraio.

Di fatto, mentre il Regno Unito, la Svizzera e il Brasile (che ospiterà la COP30 a novembre) hanno presentato i loro piani, altri mancano all’appello, e non ultimi: Cina, India e Unione Europea, ad esempio. Quanto al piano presentato dagli Stati Uniti sotto l’amministrazione Biden, è probabile che resti lettera morta, vista la rielezione di Donald Trump, che ha annunciato un nuovo ritiro del suo Paese dall’accordo di Parigi. Questo ritiro è “chiaramente una battuta d’arresto” per la diplomazia climatica e potrebbe spiegare l’atteggiamento attendista di altri paesi, afferma Ebony Holland del think tank International Institute for Environment and Development (IIED). “Sono chiaramente in corso importanti cambiamenti geopolitici che si stanno rivelando complicati per la cooperazione internazionale, soprattutto su grandi questioni come il cambiamento climatico“, ha osservato.

L’accordo di Parigi impone ai firmatari di rivedere regolarmente i propri impegni di decarbonizzazione, denominati “contributi determinati a livello nazionale” (NDC nel gergo delle Nazioni Unite). Questi testi spiegano nel dettaglio, ad esempio, come un paese intende procedere per sviluppare energie rinnovabili o abbandonare il carbone. Tali strategie mirano a riflettere la quota che ciascun Paese sta assumendo per contenere il riscaldamento globale ben al di sotto dei 2°C e a proseguire gli sforzi per limitarlo a 1,5°C rispetto all’era preindustriale. Per raggiungere questo obiettivo, le emissioni globali, che non sono ancora in calo, devono essere dimezzate entro il 2030.

Tuttavia, secondo l’Onu, le precedenti tabelle di marcia stanno portando il mondo, già più caldo di 1,3°C, verso un riscaldamento catastrofico compreso tra 2,6°C e 2,8°C. A questo livello, le ondate di calore, la siccità e le precipitazioni estreme, già in aumento, diventeranno estreme, accompagnate da un aumento delle estinzioni delle specie e da un innalzamento irreversibile dei livelli del mare. Il ritardo nella presentazione degli Ndc, i cui obiettivi non sono giuridicamente vincolanti, non comporta alcuna sanzione. Anche l’ONU sui cambiamenti climatici ha riconosciuto queste scadenze: il suo segretario esecutivo Simon Stiell, che descrive gli NDC come “i documenti di politica pubblica più importanti del secolo“, ha ritenuto “ragionevole prendersi un po’ più di tempo per garantire che questi piani siano della massima qualità“.

Secondo un funzionario delle Nazioni Unite, più di 170 paesi hanno dichiarato che intendono presentare i loro piani quest’anno, la maggior parte dei quali prima della COP30. “Al più tardi, il team della segreteria avrebbe dovuto riceverli entro settembre“, ha aggiunto il segretario esecutivo della Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (UNFCCC), durante un discorso pronunciato in Brasile. Alcuni paesi devono chiarire la loro visione, riconosce Linda Kalcher, direttrice esecutiva del think tank europeo Strategic Perspectives. Ma “ciò che preoccupa è che se troppi paesi restano indietro, si potrebbe dare l’impressione che non abbiano la volontà di agire“, teme.

Oltre al ritorno di Donald Trump, i leader di molti Paesi sono alle prese con l’inflazione, il debito o l’avvicinarsi di elezioni importanti, come in Germania. Anche l’Unione Europea si trova ad affrontare l’ascesa di partiti di estrema destra ostili alle politiche sul clima. Tuttavia, il blocco dei 27 paesi intende presentare la propria tabella di marcia “ben prima” della COP30 e intende continuare a essere “una voce preminente per l’azione internazionale sul clima“, ha assicurato un portavoce. Per quanto riguarda la Cina, il più grande inquinatore al mondo e il più grande investitore nelle energie rinnovabili, si prevede che quest’anno presenterà il suo attesissimo piano. Finora, secondo Climate Action Tracker, che critica gli ultimi aggiornamenti provenienti da Emirati Arabi Uniti, Stati Uniti, Nuova Zelanda e Svizzera, poche strategie si sono rivelate all’altezza. Secondo questo gruppo di ricerca, solo il Regno Unito se la cava bene.