Difesa, Nato in pressing per 5% Pil. Tajani cauto: 3% a spese militari e 2% a sicurezza

La Nato punta a un aumento delle spese militari e per la sicurezza ambizioso. Un impegno chiesto con insistenza dal presidente degli Stati Uniti Donald Trump, sostenuto da Parigi e Berlino, al quale alla fine si apre anche l’Italia.

Adesso inizia una nuova fase, per arrivare al 5%” del Pil, conferma ai cronisti il ministro degli Esteri Antonio Tajani. Non si tratta di essere guerrafondai, la sicurezza è qualche cosa di molto più ampio e si deve spiegare ai cittadini”, dice a margine della riunione informale dei ministri esteri Nato ad Antalya, in Turchia. “Vedremo quali saranno le richieste, si parla del 5% da raggiungere nel giro di alcuni anni. Vedremo quanti, vedremo quali saranno i criteri, come saranno divisi, parteciperemo alla discussione e vedremo“, ripete. Il vicepremier preferisce parlare di sicurezza piuttosto che di difesa, perché è un “concetto più ampio” e “più rispondente alla verità”, chiosa. In generale, propone, “l’Italia giudica “più equilibrato dedicare il 3% in spesa militare classica e il 2% alla sicurezza“.

Venerdì a Roma il ministro della Difesa, Guido Crosetto, ospiterà il vertice E5 al quale parteciperanno anche i suoi omologhi di Francia, Germania, Polonia e Regno Unito per discutere delle principali questioni strategiche, delle sfide in materia di sicurezza, del rafforzamento della difesa europea e del sostegno coordinato all’Ucraina.

C’è una sostanziale unità all’interno della Nato”, assicura Tajani, parlando anche di una “forte unità” all’interno del Quint, il gruppo decisionale informale composto dagli Stati Uniti e dal G4 (Francia, Germania, Italia e Regno Unito). In questo incontro ristretto, si è parlato soprattutto di Ucraina: “Tutti sosteniamo gli sforzi degli Usa per il cessate il fuoco, siamo orientati ad imporre sanzioni per costringere Putin ad affrontare il tema economico”, fa sapere, sostenendo che se il presidente russo “non avrà strumenti per pagare stipendi ricchi ai militari, dovrà per forza ridurne il numero e non potrà continuare ad avere una posizione così dura, cercheremo di accelerare i tempi per un cessate il fuoco”. “Sono convinto che all’Aia ci impegneremo a raggiungere un obiettivo ambizioso in materia di spesa”, riferisce il segretario generale della Nato Mark Rutte, al termine di un incontro dei ministri degli Esteri dell’Alleanza.

I 32 paesi della Nato si riuniranno alla fine di giugno all’Aia per decidere l’aumento, sotto la pressione degli Stati Uniti di Donald Trump. La Germania, prima potenza europea, si è dichiarata pronta a “seguire” il presidente americano. Lo sforzo è significativo. “L’1% del Pil rappresenta attualmente circa 45 miliardi di euro per la Repubblica federale di Germania”, ha ricordato venerdì scorso a Bruxelles il cancelliere Friedrich Merz. Secondo alcuni diplomatici, il capo della Nato vorrebbe che i paesi membri destinassero almeno il 3,5% del loro Pil alle spese militari in senso stretto entro il 2032, ma anche l’1,5% a spese di sicurezza più ampie, come le infrastrutture. Quest’ultimo obiettivo è più facilmente raggiungibile, in particolare per i paesi più in ritardo. “Potrebbe trattarsi di un obiettivo relativo alla spesa di base per la difesa, ma anche di un chiaro impegno sugli investimenti legati alla difesa”, come le infrastrutture, la mobilità militare, la sicurezza informatica, afferma Rutte.

Il ministro francese Jean-Noël Barrot lascia intendere che anche Parigi potrebbe allinearsi al 5%, a causa della minaccia russa ma anche delle richieste americane di una migliore ripartizione degli oneri di spesa. “L’obiettivo del 3,5% è l’importo giusto per le spese di base in materia di difesa”, sostiene. “Ma questo va accompagnato da spese che contribuiranno ad aumentare la nostra capacità di difesa, che non sono spese dirette per la difesa, ma che devono essere realizzate”, come la sicurezza informatica o la mobilità militare, osserva. Per altri paesi, invece, la strada da percorrere è ancora lunga. Alla fine del 2024, solo 22 paesi della Nato su 32 avevano raggiunto l’obiettivo del 2% di spesa militare fissato nel 2014 in occasione di un precedente vertice dell’Alleanza. Diversi Paesi, tra cui Spagna, Slovenia e Belgio, sono ancora molto al di sotto, ma hanno comunque promesso di raggiungerlo quest’anno. La Francia e la Germania hanno raggiunto l’obiettivo del 2% lo scorso anno. Solo la Polonia si avvicina al 5%, con una spesa militare del 4,7%.

Più import e meno spesa pubblica: Pil Usa in negativo. Petrolio ko, Trump accusa Biden

Secondo la stima preliminare pubblicata dal Bureau of Economic Analysis degli Stati Uniti, il prodotto interno lordo reale è diminuito a un tasso annuo dello 0,3% nel primo trimestre del 2025, mentre il mercato puntava su un +0,2% Nel quarto trimestre del 2024, il Pil reale era invece aumentato del 2,4%. Il calo del Pil reale nel primo trimestre ha riflesso principalmente un aumento delle importazioni, “che rappresentano una sottrazione nel calcolo del Pil “, sottolinea il Bureau of Economic Analysis, e una calo della spesa pubblica.

Movimenti che “sono stati in parte compensati dall’aumento degli investimenti, della spesa dei consumatori e delle esportazioni“. Si tratta del primo dato negativo dal secondo trimestre del 2022. Solo 4 mesi fa, si prevedeva che il Pil sarebbe cresciuto di oltre il 3% nel primo trimestre del 2025. E’ l’inizio dell’effetto dazi? Più nel dettaglio – si legge nel comunicato del Tesoro Usa – “rispetto al quarto trimestre, la flessione del Pil reale nel primo trimestre riflette una ripresa delle utilizzate, una decelerazione della spesa dei consumatori e una flessione della spesa pubblica, in parte compensati dalla ripresa degli investimenti e delle esportazioni“. E inoltre “le vendite finali reali agli acquirenti privati ​​nazionali, ovvero la somma della spesa dei consumatori e degli investimenti fissi privati, sono aumentate del 3% nel primo trimestre, rispetto a un aumento del 2,9% nel trimestre quarto“.

Fuori dai tecnicismi, il presidente Donald Trump ha dato subito la colpa al suo predecessore e ha difeso i dazi dopo un dato del Pil negativo dello 0,3%. nel primo trimestre negli Usa , ben al di sotto delle attese. “Questo è il mercato di Joe Biden, non di Trump. Ho preso il potere solo il 20 gennaio“, ha dichiarato il Tycoon in un post su Truth Social. “I dazi entreranno presto in vigore e le aziende stanno iniziando a trasferirsi negli Stati Uniti in numeri record. Il nostro Paese prospererà, ma dobbiamo liberarci del ‘sovrappeso’ di Biden“, ha affermato. “Ci vorrà un po’, non ha nulla a che vedere con i dazi, solo che ci ha lasciato con numeri negativi, ma quando inizierà il boom, sarà come nessun altro. Siate pazienti!!!“, ha scritto Trump.

Il problema non è solo il Pil però… perché il peggior incubo della Fed rischia di peggiorare: oltre alla crescita negativa, oggi è uscito il dato dell’indice dei prezzi al consumo che balzato al +3,7%, il livello più alto da agosto 2023. Cosa fa adesso Jerome Powell? Per questo i rendimenti dei bond Usa sono in forte aumento, con il rendimento delle obbligazioni a 10 anni in rialzo di quasi 10 punti base rispetto al minimo precedente alla pubblicazione dei dati. Perché i tassi aumentano in un’economia in contrazione? Il mercato teme che stia arrivando la stagflazione? Oggi, pochi minuti prima dei dati sul PIL, sono stati pubblicati i dati Adp sull’occupazione. Ebbene, l’economia statunitense ha creato solo 62.000 posti di lavoro ad aprile, il livello più basso da luglio 2024, come mostrato di seguito da ZeroHedge.

Ecco perché – mentre Wall Street ha provato a recuperare arrivando fino a perdere meno dell’1% dopo un tonfo iniziale – invece i prezzi del petrolio sono crollati di oltre il 3%, attestandosi al di sotto dei 60 dollari, scontando una recessione e un calo della domanda. Per Richard Clarida quello del Pil però è un dato fuorviante, distorto dall’aumento delle importazioni in vista dell’entrata in vigore dei dazi. Per questo la Fed lo ignorerà, secondo l’ex vicepresidente della Federal Reserve. Intanto un nuovo studio del Kiel Institute, che considera l’impatto dell’attuale regime tariffario statunitense del 145% su tutte le importazioni cinesi, sulle contro-tariffe imposte dalla Cina del 125% e su una tariffa generale aggiuntiva del 10% su quasi tutte le importazioni degli Usa, segnala che “l’attuale guerra commerciale tra Stati Uniti e la Cina peserà soprattutto sull’economia americana. L’aumento aumenterà probabilmente del 5,5% e le esportazioni crolleranno di quasi il 17% e il Pil diminuirà fino al -1,6%. Le conseguenze per la Cina stessa sono considerevoli, ma molto meno gravi in ​​Germania e non subiranno praticamente alcun impatto negativo sui vicini asiatici della Cina che dovranno invece affrontare una concorrenza aggiuntiva e sostanziale sul mercato globale“.

Dazi e clima di incertezza frenano il Pil. Giorgetti: “Spese difesa al 2% già dal 2025”

I conti pubblici dell’Italia tengono, il problema è capire per quanto ancora. Dalle audizioni sul Documento di finanza pubblica 2025 emergono tre rischi sostanziali per la crescita: i dazi voluti e imposti da Donald Trump, le tensioni geopolitiche ancora lontane da una soluzione e l’aumento delle spese per la difesa. Partendo dall’ultimo punto, è il ministro dell’Economia, Giancarlo Giorgetti, a dare la notizia: “Già da quest’anno saremo in grado di raggiungere l’obiettivo del 2% del Pil”.

Il sentiero resta comunque prudente, del resto il troppo rigore nel Psb e nel Dfp è una delle principali critiche che arrivano dalle opposizioni, ma anche da alcune realtà economiche all’indirizzo del Mef. “Faccio una metafora calcistica: se una squadra parte da un passivo di 2-0 e prende gol è finita – dice Giorgetti -. Io ho un debito da gestire che, ahimè, grava per circa 90 miliardi di interessi che mi divorano spese anche nobili come sanità o scuola. Dunque, prima regola: non prenderle”.

Questo significa che “la soluzione non è uno scostamento di bilancio” né una manovra correttiva, lo dice chiaro e tondo il ministro. Del resto, il “frangente internazionale caratterizzato da cambiamenti sempre più repentini, rendono particolarmente complesso elaborare stime non solo nel lungo termine, ma anche nel breve”. Questo, però, non significa vedere tutto a tinte fosche, anzi. Giorgetti conferma le stime di crescita dimezzate allo 0,6% quest’anno e allo 0,8 il prossimo, ma avverte: “Sembra prospettarsi uno scenario meno avverso di quello messo in conto nelle previsioni ufficiali, più favorevole in termini sia di possibile esito finale della struttura dei dazi a livello internazionale, sia di variabili esogene (quali i prezzi dell’energia e i tassi d’interesse) che condizionano la crescita. Il quadro macroeconomico è pertanto soggetto anche a rischi positivi”. Tutto ciò a patto che il negoziato tra Ue e Usa porti buoni risultati e che l’Europa non faccia scherzi con i possibili ‘bazooka‘, lascia intendere.

Fin qui c’è la visione del governo, ma il Parlamento ascolta anche la voce delle parti sociali. Con i dazi Usa “al 20% la crescita del Prodotto interno lordo sarebbe più contenuta: 0,3% nel 2025 e 0,6% nel 2026”, calcola Confindustria. Che boccia il piano Transizione 5.0 spiegando che “non funziona” e sottolinea il crollo degli investimenti. Sul punto Giorgetti mette in luce che il governo sta lavorando a un “riorientamento” del programma nato dai fondi del RePowerEu per renderlo più fruibile alle aziende e, ovviamente, efficace.

Intanto, non fa sorridere nemmeno la previsione dell’Istat, che ha svolto simulazioni con risultati preoccupanti: una guerra commerciale con gli Usa farebbe contrarre il Pil italiano dello 2 decimi di punto quest’anno e tre decimi il prossimo.

In questo scenario, dunque, è fondamentale – è il coro quasi unanime – portare a piena attuazione il Pnrr, accelerando opere e spesa. Anche Banca d’Italia lo suggerisce, come ‘antidoto’ a “instabilità delle politiche commerciali, la possibilità di prolungate turbolenze sui mercati finanziari e l’adozione di eventuali misure ritorsive da parte dei partner commerciali degli Stati Uniti” che “possono compromettere l’andamento delle esportazioni e incidere negativamente sulla spesa per investimenti e consumi”.

Via Nazionale, però, avverte anche di altri rischi. Innanzitutto che in questo contesto economico contesto economico il rallentamento della crescita potrebbe essere “ancor più marcato di quanto atteso”, ma soprattutto che sull’inflazione (ora contenuta) “un contraccolpo sarà inevitabile se vi sarà un forte rallentamento del commercio mondiale”.

Giorgetti prende nota, poi indirettamente risponde. Sul Piano nazionale di ripresa e resilienza manda un messaggio a Bruxelles quando dice di ritenere “fisiologico che, indipendentemente dal conseguimento degli obiettivi e dei traguardi entro la fine del 2026, parte della spesa dovrà essere contabilizzata anche negli esercizi successivi”. E assicura: “Stiamo lavorando per il raggiungimento degli obiettivi previsti nelle ultime tre tranche e ad un monitoraggio rafforzato dello stato di attuazione del Piano”.

Sono, però, i dazi il tema principale. Il ministro dell’Economia non nega che i toni di Trump siano “eccessivi”, ma a suo modo di vedere non devono nascondere la necessità di rivedere l’intero sistema del commercio internazionale, passando dal “il far west della globalizzazione senza regole”, ovvero il free trade, a un più utile fare trade. Dunque, lascia intendere che il presidente americano può essere lo shock necessario ad aprire il dibattito.

Lo stesso termine, shock, lo usa anche la Corte dei Conti, per definire i dazi che colpiscono l’economia italiana “in una fase di rallentamento dei ritmi produttivi che sono tornati ad assumere intensità inferiori a quelli dell’area euro”. Nel Dfp, spiegano i magistrati contabili, “manca lo sviluppo programmatico” e sono “limitate” le indicazioni sulla composizione di spesa, ragion per cui è “difficile valutare la tenuta del quadro complessivo”.

Altri dati di cui tenere conto sono quelli dell’Ufficio parlamentare di bilancio, che stima una contrazione del Pil italiano dello 0,2 percento nel 2026 se Trump andasse avanti creando un bug nel commercio internazionale. Tra i settori più colpiti, ovviamente, c’è l’automotive.

Non se la passa bene nemmeno il comparto agroalimentare. Da Coldiretti a Confagricoltura, Cia-Agricoltori italiani e Copagri tutti chiedono a governo e Parlamento di confermare le misure di sostegno al comparto, oltre a favorire il credito e intervenire sulle infrastrutture, in particolare quelle idriche. In particolare, i coltivatori diretti propongono di creare “una sinergia tra vari attori istituzionali, ad esempio Ice, Sace, Simest, Cdp, per supportare anche a costo zero le imprese dell’agroalimentare che esportano negli Stati Uniti, creando una vera e propria infrastruttura a supporto delle aziende”. Martedì 22 aprile l’ultimo giro di audizioni per le commissioni Bilancio di Camera e Senato, con consulenti del lavoro, commercialisti, cooperative e pmi, sperando che nel frattempo, da Washington e Bruxelles, arrivino buone notizie.

Con la minaccia dei dazi Usa, Confindustria abbassa stime Pil 2025 a +0,6%

L’Italia rallenta nel 2025 ma riprende slancio nel 2026 (+1%). A dirlo è il Centro Studi di Confindustria nel suo tradizionale Rapporto di previsione che fornisce una stima dell’impatto che la nuova politica tariffaria potrebbe avere sull’Europa. Nel documento vengono riviste al ribasso le stime della crescita del Pil 2025 a +0,6% da +0,9% previsto a ottobre 2024 a causa della spada di Damocle rappresentata dai dazi minacciati dall’amministrazione Trump.

Non possiamo pensare che non siano un problema per un Paese come il nostro – ha detto il presidente di Confindustria, Emanuele Orsini – se stasera verranno applicati i dazi all’Europa sarà un ennesimo stop alle nostre imprese e alle nostre industrie“. Per questo, il numero uno di Confindustria invita l’Europa “a cambiare rotta” e ad aprire un tavolo di trattativa: “Serve negoziare tutti insieme, l’Europa deve essere unita per poter costruire un punto di negoziato, credo ci possa essere la possibilità di farlo”.

Perdere il mercato a stelle e strisce sarebbe esiziale, secondo Orsini: “Come Italia spediamo verso gli Stati Uniti 65 miliardi di prodotti italiani, con un saldo positivo di 42 miliardi. Quindi per noi è un grande problema perdere un mercato così importante”. Per questo motivo, Orsini ripete due espressioni “che ho utilizzato spesso negli ultimi mesi: una è ‘sveglia’, l’altra è ‘il tempo è finito’”. Il presidente si rivolge pertanto al governo italiano: “Abbia coraggio, serve fiducia. Abbiamo bisogno che ci siano politiche serie dell’Europa e un piano strutturale per l’Italia e per l’Europa”.

Da qui la proposta di un’apertura verso mercati alternativi, “come Mercosur e India che possono apprezzare i nostri prodotti”. Per l’Italia nel 2024 l’export di beni negli Stati Uniti è stato di 65 miliardi di euro, oltre il 10% del totale. Secondo il Rapporto, i settori più esposti ai dazi sono bevande, farmaceutica, autoveicoli e altri mezzi di trasporto. Le nuove tariffe su acciaio e alluminio al 25%, inoltre, porteranno a un calo medio di circa -5% dell’export di queste materie verso gli Usa, con un impatto macroeconomico minimo (circa -0,02% dell’export italiano di beni). Lo scenario peggiore “di un’eventuale escalation protezionistica, che comporti un persistente, invece che temporaneo, innalzamento dell’incertezza (+80% sul 2024), l’imposizione di dazi del 25% su tutte le importazioni Usa, comprese quelle dall’Europa, e del 60% dalla Cina e l’applicazione di ritorsioni tariffarie sui beni di consumo esportati avrebbe dunque un impatto cumulato negativo sul Pil“.

Ci sono poi alcuni fattori che agiranno in positivo, come il taglio dei tassi, la risalita del reddito disponibile reale totale delle famiglie grazie al progressivo recupero delle retribuzioni pro-capite, il buon contributo dei redditi non da lavoro, l’aumento dell’occupazione totale e il calo dell’inflazione, “sebbene gli ultimi due fenomeni si attenueranno nel 2025 e 2026”. Sul fronte dell’occupazione “nel 2025 e 2026 il ritmo di crescita dell’input di lavoro, misurato in termini di unità equivalenti a tempo pieno, è atteso riallinearsi con quello dell’attività economica (+0,5% e +0,7%, ritmo appena inferiore a quello dell’occupazione in termini di teste), contrariamente a quanto accaduto negli ultimi due anni. Ciò permetterà un miglioramento della produttività del lavoro, dopo i forti cali negli anni precedenti”. Sui conti pubblici, invece, il deficit pubblico “si attesterà al -3,2% del Pil nel 2025 e al -2,8% nel 2026, creando così le condizioni per l’uscita dalla procedura per disavanzo eccessivo nel 2027”. 

Istat, nel 2024 Pil +0,7% e deficit 3,6%. Per Giorgetti “finanze meglio del previsto”

Nel 2024 l’economia italiana è cresciuta dello 0,7%, un dato inferiore rispetto alla stima del +1% indicata dal governo nel Piano strutturale di bilancio. A scattare la fotografia è il report su Pil e indebitamento Amministrazioni pubbliche diffuso oggi dall’Istat. Bene il rapporto deficit-Pil, in miglioramento sul 2023, ma rispetto alle previsioni politiche aumenta di oltre un punto percentuale la pressione fiscale, che passa dal 41,4 al 42,6%. È cresciuta inoltre la spesa per interessi del 9,5%. Tuttavia la crescita comporta un miglioramento del debito PA rispetto al 2023, stimolata da un contributo positivo della domanda nazionale al netto delle scorte (+0,5%) ed estera (+0,4%). Su beni e servizi, il valore aggiunto ha segnato crescite in agricoltura (+2%) e nei servizi (+0,6%), meno nell’industria (+0,2%), con un trend che per questo settore resta negativo anche nei primi mesi 2025. Positivi i numeri sul rapporto deficit-Pil, meglio di quanto stimato: dal 7,2% del 2023 al 3,4% del 2024, col governo che puntava a farlo scendere al 3,8%. Per valore assoluto, l’indebitamento per il 2024 è stato dunque di -75.547 milioni di euro, in diminuzione di circa 78,7 miliardi rispetto a quello dell’anno precedente.

Le entrate correnti hanno registrato poi un aumento del 5,7%, attestandosi al 46,8 % del Pil. In particolare, le imposte dirette sono cresciute del 6,6%, principalmente per l’aumento dell’Irpef e dell’Ires. In aumento sono risultate anche le sostitutive sugli interessi e sui redditi da capitale e le ritenute sugli utili distribuiti dalle società. Le imposte indirette hanno registrato una crescita anch’essa marcata (+6,1%), con aumenti significativi dell’Iva, dell’Irap e delle imposte sull’energia e oneri generali del sistema elettrico e gas, queste ultime tornate sui livelli pre-crisi energetica per il ripristino completo degli oneri generali del sistema energetico. Nel 2024, infine, anche il debito pubblico italiano è salito al 135,3% del Pil, dal 134,6% del 2023, un dato inferiore rispetto a quello indicato dal governo nelle stime del Piano strutturale di bilancio (135,8%).

Numeri che soddisfano complessivamente il ministro dell’Economia, Giancarlo Giorgetti, secondo cui i dati “confermano che la finanza pubblica è in una condizione migliore del previsto”. Per il ministro, l’avanzo primario certificato dall’Istat “è una soddisfazione morale”, la crescita “corrisponde a quella che avevamo aggiornato a dicembre. Naturalmente tutto questo è confortante ed è ragione di soddisfazione ma non possiamo fermarci. Ora la sfida è la crescita in un contesto assai problematico, non solo italiano, che coinvolge tutta Europa“.

D’altra opinione i consumatori. Secondo il Codaconsi dati Istat attestano ancora una volta la mancata ripartenza dei consumi in Italia, con la spese delle famiglie che registra una marcata flessione in alcuni comparti chiave”. Gli utenti segnalano in particolare una flessione nei consumi di vestiti, scarpe, salute, svago, ricreazione, sport e cultura. Per questo il Codacons chiede “misure efficaci per far ripartire i consumi”. Il ministro dell’Agricoltura, della Sovranità Alimentare e delle Foreste, Francesco Lollobrigida, sottolinea invece i risultati ottenuti nel proprio settore, con l’Istat che “certifica il ruolo centrale dell’agricoltura: il settore primario traina la crescita economica dell’Italia, registrando un incremento del valore aggiunto del 2%. Agricoltura, silvicoltura e pesca sono tra i settori con la crescita più significativa. Un segnale chiaro della vitalità e della forza ritrovata di un comparto strategico”. Per questo Lollobrigida un plaude l’esecutivo Meloni “che ha sempre creduto nella centralità del settore agricolo e lo ha dimostrato con fatti concreti, stanziando oltre 11 miliardi di euro a sostegno del comparto, investendo in innovazione, competitività e difesa delle nostre eccellenze”.

Le opposizioni però non ci stanno e attaccano. “Con Meloni e Salvini aumentano le tasse e sale il debito pubblico”, denuncia il presidente dei senatori dem, Francesco Boccia. “Il governo di sovranisti aumenta le tasse e fa male all’Italia”, aggiunge Matteo Renzi, mentre il M5S bolla l’esecutivo Meloni come “il governo delle tasse e dell’austerity”. Secondo il leader dei Verdi, Angelo Bonelli, l’Istat “sbugiarda Meloni, con lei le tasse sono in aumento”.

Pil, allarme di Confindustria: +0,8% nel 2024, 0,9% nel 2025. Pesa crollo automotive

Photo credit: profilo Twitter Confindustria

Anche Confindustria rivede al ribasso le stime sul Prodotto interno lordo italiano. Il Rapporto di previsione ‘I nodi della competitività. La crescita dell’Italia fra tensioni globali, tassi e Pnrr’ elaborato dal Centro studi degli industriali evidenzia, infatti, che “la crescita del Pil, a seguito della revisione Istat, si attesta a +0,8% quest’anno e 0,9% il prossimo“. Numeri meno positivi per il governo, che intanto festeggia i primi due anni di attività con “l’inflazione più bassa d’Europa“: 0,7% annuo a settembre, mentre nell’Eurozona è ancora all’1,7, sebbene “nel 2025 è attesa risalire in parte nel nostro Paese, tendendo ad avvicinarsi ai valori della misura core, cioè poco sotto il +2%“. Anche per questo il documento sottolinea l’aumento del reddito disponibile che cozza con “i consumi frenati dall’elevato tasso di risparmio“.

I fattori che determinano questo risultato sono diversi, ma Confindustria ne individua due in particolare, il calo della Germania (che rende “debole” l’economia del Vecchio continente proprio mentre quella mondiale, invece, riprende quota) e il “crollo del settore dell’auto, che quest’anno è tornato al livello di produzione di inizio 2013” come “conseguenza dei costi elevati delle auto elettriche“. Altro peso sulla crescita è il costo di gas ed elettricità: “Sono ancora più alti in Italia, sia rispetto agli altri grandi Paesi europei come Francia e Germania, sia rispetto agli Stati Uniti, penalizzando la competitività delle imprese rispetto ai principali partner occidentali“, avvisa il Csc.

Per fortuna che c’è l’export a fare da “principale traino di crescita quest’anno“. Perché “nonostante la debole domanda europea (che rappresenta il 52% dell’export italiano) e in particolare tedesca (principale partner commerciale), continua ad andare meglio della domanda potenziale (media ponderata dell’import totale dei Paesi di destinazione)“.

Per capire a che punto è l’Italia, comunque, allargato il campo all’intera Europa, che sconta l’aumento delle tensioni geopolitiche, elemento che “accresce la possibilità di ripercussioni negative su commercio mondiale e prezzi delle materie prime“. Inoltre, “rimane alto il costo dei noli” e “aumentano le barriere protezionistiche” mentre “le elezioni presidenziali in Usa acuiscono l’incertezza“.

Riportando lo zoom sul nostro Paese, ci sono altri punti da elencare nel report. Perché “gli investimenti si fermano nel 2024, tornando ai livelli del 2008” e “solo parzialmente sono compensati da quelli previsti dal Pnrr“, che resta “cruciale per la crescita” sebbene le performance risultino in chiaroscuro. “L’Italia è più avanti degli altri nell’attuazione del Piano nazionale di ripresa e resilienza, ma dobbiamo correre“, infatti “quest’anno abbiamo speso poco: 9,5 miliardi su 44“. In questo senso si legge l’invito al governo a “semplificare” la misura Transizione 5.0perché sia efficace“.

Andando ancora avanti nella lettura, emerge che “la produzione industriale nel 2023 è diminuita del 2,4% e nei primi otto mesi del 2024 di un’ulteriore 3,2%, rispetto ai mesi corrispondenti dell’anno precedente“. Inoltre, nel terzo trimestre la percentuale rimane negativa, con una riduzione dello 0,5% acquisita ad agosto. Entrando nel dettaglio, a livello settoriale le performance sono molto differenti: “Crescono altri mezzi di trasporto, riparazioni e installazioni (+8,0% e +5,3% nei primi otto mesi dell’anno rispetto ai primi otto mesi del 2023), alimentari e carta (+2,7% e +1,9%), mentre pesa la contrazione dell’automotive (-17,9%), degli articoli in pelle (-15%) e dell’abbigliamento“. II valore aggiunto dell’industria, però, è previsto in recupero il prossimo anno (-0,8% nel 2024, in linea con l’acquisito, +1% nel 2025), grazie alla ripresa della domanda, interna ed estera, comunque modesta, tra fine anno e inizio 2025.

Infine, altra criticità è rappresentata dal “sistema Ets sempre più stringente e il Cbam operativo“, perché “le imprese europee continuano a perdere competitività“. Anzi, “crescono i rischi – avvisa Confindustria – che alcune di queste (sono il 9% del valore aggiunto manifatturiero in Italia come in Ue) chiudano o vengano trasferite fuori dall’Europa“.

Utilitalia-Svimez: “Filiere di acqua, energia e ambiente valgono il 4,7% del Pil del Sud”

La dimensione economica delle utility meridionali è quantificabile in 11,5 miliardi di euro (2023), circa il 24% del valore aggiunto realizzato dall’intero comparto italiano. Considerando il contributo offerto dalle imprese che operano sull’intera filiera delle utility, si sale a circa 16,1 miliardi: pari al 4,7% del Pil del Mezzogiorno. Rispetto alle altre filiere, quella delle utility si contraddistingue al Sud per una marcata vocazione industriale: le imprese estrattive e manifatturiere realizzano infatti oltre il 52% del valore aggiunto complessivo. Lo rivela il ‘Rapport Sud’, di Utilitalia e Svimez, presentato a Palermo, che che valuta gli impatti economici e occupazionali del settore delle utility (ambientale, idrico ed energetico) nelle regioni del Mezzogiorno. Questa quarta edizione, inoltre, contiene una valutazione sulle principali sfide che il comparto dovrà affrontare nei prossimi anni.

“Il sistema delle imprese dei servizi di pubblica utilità, in sostanza, riveste una posizione centrale rispetto ai temi della crescita economica, dell’accessibilità ai diritti essenziali, del cambiamento climatico e dell’autonomia strategica sulle forniture energetiche. Per superare dunque le criticità residue, promuovendo lo sviluppo industriale, un esempio positivo è dato dalle reti d’impresa”, si legge in una nota.

Lo scorso luglio è stato firmato da 9 utilities del Mezzogiorno il Contratto di Rete che ha costituito la Rete Sud, l’iniziativa attraverso la quale le imprese associate a Utilitalia hanno deciso di fare squadra per migliorare i servizi offerti ai cittadini ed affrontare congiuntamente le principali sfide operative, finanziarie e regolatorie del momento”.

“Con questa iniziativa – spiega il presidente di Utilitalia, Filippo Brandolini – la Federazione ha voluto fornire un contributo concreto per un maggiore sviluppo dei servizi pubblici al Sud, che soffrono una eccessiva frammentazione e una ancora troppo diffusa presenza di gestioni in economia. Fare rete tra i gestori è un passo importante per rafforzare il sistema delle imprese dei servizi pubblici secondo una logica industriale, un percorso obbligato per migliorare i servizi forniti ai cittadini e per generare impatti positivi sull’occupazione e sull’indotto locale”.

Transizione energetica, economia circolare e adattamento ai cambiamenti climatici: sono questi i pilastri su cui si fondano le sfide e le azioni per rilanciare l’economia delle utility nel Mezzogiorno. “Le utility – evidenzia Luca Bianchi, direttore generale della Svimez – assumono un ruolo decisivo nel supportare i segnali di ripresa dell’economia meridionale, favorendo la trasformazione strutturale che i sistemi economici territoriali dovranno avviare per contrastare e vincere le sfide legate al cambiamento climatico e ai nuovi equilibri economici globali. Il rapporto fa emergere il ruolo effettivo e potenziale del settore delle utility nell’attivare e qualificare le connessioni economiche locali, attirare investimenti e migliorare i servizi per cittadini e imprese, in un’ottica evolutiva per cui è necessario partire dalle vocazioni produttive territoriali per sostenere i processi di sviluppo, ammodernamento e diversificazione”.

Il Sud Italia, del resto, ha il maggiore potenziale su scala nazionale di produzione da fonti rinnovabili (eolico e solare). Oggi il Mezzogiorno gioca un ruolo decisivo nel settore fotovoltaico, contribuendo per circa il 35% della capacità totale installata, che è in crescita in tutte le regioni del Sud: per raggiungere i target del Fit for 55, la capacità fotovoltaica addizionale (53,6 GW) prevista entro il 2030 si concentrerà per il 61% nel Mezzogiorno. Tra le misure suggerite dalla Federazione per implementare il settore figurano l’integrazione verticale della filiera, lo sviluppo di soluzioni integrate per offrire servizi innovativi, l’incoraggiamento dell’autoproduzione e il ricorso a investimenti in digital e tecnologie innovative.

In tema di rifiuti il Sud Italia sconta ancora un importante gap dal punto di vista impiantistico, per cui è difficile chiudere il ciclo ed evitare l’export verso altre regioni o l’estero nonché il conferimento in discarica. Per quanto riguarda i rifiuti indifferenziati, per centrare i target europei al 2035 sull’economia circolare, il fabbisogno impiantistico a livello nazionale e principalmente concentrato nelle regioni centro-meridionali è stimato da Utilitalia in 2,5 milioni di tonnellate; migliore è la situazione per quanto concerne i rifiuti organici, grazie ai numerosi impianti recentemente attivati o in costruzione, grazie anche ai finanziamenti del Pnrr.

La siccità del 2023-2024 che ha colpito il Sud Italia e sta interessando ancora duramente la Sicilia, mette in risalto le vulnerabilità del sistema infrastrutturale idrico. Per uscire dalle logiche emergenziali e rendere il settore più resiliente agli effetti dei cambiamenti climatici in corso, è necessario superare alcune criticità dal punto di vista della governance e delle infrastrutture. “Sono ancora troppe le gestioni in capo agli enti locali nelle regioni del Sud Italia che, con una bassissima capacità di investimento (appena 11 euro per abitante nel 2022, contro una media nazionale di 70 euro), non consentono una rapida attuazione degli interventi necessari. Bisogna dunque incentivare la crescita orizzontale e verticale dei gestori, per migliorare la capacità gestionale anche attraverso il controllo degli enti di governo d’ambito”, prosegue il comunicato.

La crescita del Pil nell’area Ocse

Nell’infografica INTERATTIVA di GEA, la crescita del Pil nelle economie dell’area Ocse. Nel secondo trimestre 2024 è aumentato dello 0,5% in area Ocse, allo stesso ritmo del trimestre precedente, secondo le stime provvisorie. Mentre il tasso di crescita complessivo del Pil è rimasto invariato nel secondo trimestre 2024, nel G7 il è aumentato più rapidamente nel secondo trimestre, dello 0,5% rispetto allo 0,2% del primo trimestre. In Giappone la crescita è aumentata dello 0,8% dopo una contrazione dello 0,6% nel primo trimestre. Negli Stati Uniti la crescita è accelerata dallo 0,4% del primo trimestre allo 0,7% del secondo, grazie soprattutto all’aumento dei consumi privati (0,6% rispetto allo 0,4% del 1° trimestre). È aumentato leggermente anche in Canada (dallo 0,4% allo 0,5%) ed è rimasto invariato in Francia (allo 0,3%). Anche in Italia e nel Regno Unito la crescita è leggermente rallentata nel secondo trimestre, rispettivamente allo 0,2% e allo 0,6%, rispetto allo 0,3% e allo 0,7% del primo trimestre. Su base annua è stata dell’1,8% nel secondo trimestre 2024, in leggero aumento rispetto all’1,7% del primo trimestre. Tra le economie del G7, gli Stati Uniti hanno registrato la crescita più elevata negli ultimi quattro trimestri (3,1%), mentre il Giappone ha registrato il calo maggiore (-0,8%). L’Italia ha registrato un +0,9% su base annuale, superiore alla media dell’eurozona (+0,6%) e dell’Ue (+0,8%).

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INFOGRAFICA INTERATTIVA Ue, Eurostat: Pil eurozona +0,3% in primo trimestre 2024

Nel primo trimestre del 2024, il Pil è aumentato dello 0,3% sia nell’area dell’euro sia nell’Ue, rispetto al trimestre precedente. Ad attestarlo è una stima pubblicata da Eurostat, l’ufficio di statistica dell’Unione europea. Nel quarto trimestre del 2023, il Pil era diminuito dello 0,1% nell’area dell’euro ed era rimasto stabile nell’Ue. Rispetto allo stesso trimestre dell’anno precedente, nel primo trimestre del 2024 il Pil è cresciuto dello 0,4% nell’area dell’euro e dello 0,5% nell’Ue, dopo il +0,2% dell’area dell’euro e il +0,3% dell’Ue del trimestre precedente. Nell’infografica INTERATTIVA di GEA è illustrata la crescita del Pil in Ue ed Eurozona dal 2017 ad oggi per trimestre.

INFOGRAFICA INTERATTIVA Pil, +0,3% in eurozona e in Italia nel primo trimestre

Nell’infografica INTERATTIVA di GEA, l’andamento trimestrale del Pil dell’eurozona e in Italia. Secondo le stime preliminari di Eurostat, nel primo trimestre del 2024 il Pil destagionalizzato è aumentato dello 0,3% rispetto al quarto trimestre 2023 nell’area euro, come in Italia.

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