Gozzi, appello a Schlein: Pse lotti per sopravvivenza industria contro estremismi green

C’è in questi giorni un fatto nuovo e emblematico. È in gestazione un documento di politica economica comune tra i premier tedesco Merz, francese Macron e italiano Meloni sulla competitività europea e sul futuro della nostra industria.

I leader dei tre paesi più industrializzati d’Europa, consapevoli che il tempo stringe, ritengono necessario richiamare la Commissione all’azione per cercare di salvare l’industria del continente con misure rapide ed incisive che, nonostante i proclami, ancora non si vedono.

Sono loro quindi che dettano l’agenda alla Commissione, e questo mi appare più che logico visto che l’Europa non è uno stato federale, e probabilmente non lo sarà mai. Alla luce di ciò è normale e ragionevole che, per superare l’immobilismo attuale delle istituzioni europee in cui la tecnocrazia comunitaria regna sovrana, i grandi stati nazionali e industriali prendano l’iniziativa, dettino la linea e cerchino di fare politica.

Al centro del documento c’è una riflessione sul perché l’Europa ha perso così tanto terreno nei confronti della altre grandi aree economiche del mondo, e c’è una riflessione coraggiosa sul green deal. Non si vuole negare la necessità di decarbonizzare le nostre economie ma vi si afferma la necessità di farlo con logiche, metodi e tempi diversi di quelli imposti finora da un’ideologia ambientalista estremista.

Il fatto che anche Macron, leader indiscusso di Renew Europe, la forza liberal democratica che insieme a popolari e socialisti costituisce la maggioranza politica di Ursula Von der Leyen, sottoscriva l’appello alla revisione di scelte sbagliate, mi sembra estremamente significativo e meritevole di attenzione anche da parte dei riformisti nostrani che stanno guardando a sinistra.

E da qui parte la mia riflessione e il mio appello a Elly Schlein, che conosco e che è leader del più importante partito aderente al gruppo dei socialisti al Parlamento europeo.

L’appello è che anche i socialisti si impegnino a salvare le fabbriche, e non lascino solo ai popolari e ai conservatori, o peggio alle destre estreme, il merito della necessaria revisione del green deal, revisione che salverà milioni di posti di lavoro.

Tony Blair qualche settimana fa dalle pagine del ‘Corriere della Sera’ ha lanciato un messaggio chiaro e pragmatico che ha scandalizzato i sostenitori del mainstream e del pensiero unico in tema di decarbonizzazione. L’ex premier laburista britannico ha affermato: “Tutti sanno che l’obiettivo della neutralità carbonica al 2050 è irraggiungibile, ma nessun politico ha il coraggio di dirlo perché teme di passare per negazionista. Bisogna trovare il modo di dare coraggio ai politici europei affinché, senza negare l’obiettivo di dare un contributo alla decarbonizzazione che è un obiettivo mondiale, riescano a farlo senza far diventare l’Europa la principale nemica di famiglie e imprese”.

Il nodo è tutto qui. La velocità dei cambiamenti globali e la progressiva marginalizzazione dell’Europa e della sua economia impongono scelte rapide e radicali, come ha scritto Draghi nel suo rapporto. Occorre un cambiamento di paradigma e di visione.

Ma per attuare i cambiamenti invocati da più parti, quali più innovazione tecnologica, più investimenti in IA e spazio, riduzione del costo dell’energia, potenziamento del mercato del lavoro ecc. occorrono enormi risorse economiche e finanziarie, che oggi in Europa non esistono; modificare le regole attuali che stanno ammazzando l’industria a partire da quella dell’auto, come la tassa carbonica, gli adempimenti burocratici assurdi, la non protezione dal commercio sleale di molti paesi extra-europei, sarebbero invece riforme  a costo zero.

Non c’è settore industriale di base: acciaio, chimica, farmaceutica, carta, cemento, vetro, fonderie ecc., tutti indispensabili per l’autonomia strategica europea e per la sopravvivenza delle filiere manifatturiere a valle, che non sia a rischio di delocalizzazione o di chiusura per le norme europee sull’ambiente, che non hanno eguali in nessuna altra parte del mondo.

La Von der Leyen ha promesso revisioni e semplificazioni che per ora non si vedono, anche perché i socialisti europei, avendo fatto del green deal il sacro graal della loro azione politica, vi si oppongono con gran forza.

Ci sono decine di milioni di posti di lavoro a rischio. Tra i casi emblematici c’è quello dell’acciaio e dei suoi legami con l’industria dell’automobile e con quella della difesa. Una norma europea detta CBAM, nata per cercare di bilanciare gli effetti perversi della tassa carbonica sulla competitività, elimina le quote gratuite di CO2 accordate fino ad oggi alle industrie di base hard to abate, cioè quelle per le quali la natura intrinseca dei processi industriali rende molto difficile o impossibile l’abbattimento delle CO2.

Ora, il 60% dell’acciaio europeo è ancora fatto con gli altiforni, che se perdono le quote gratuite di CO2 dovranno chiudere, con gravi conseguenze sociali dirette e con un approfondimento ulteriore della crisi dell’industria dell’automobile del nostro continente; infatti l’acciaio per le carrozzerie, il cosiddetto profondo stampaggio, si fa solo con gli altiforni, e se questi si spengono l’automotive europeo dovrà andare a comprare lamiere per le carrozzerie in CinaCorea del Sud e Giappone, e cioè proprio dai suoi principali competitori sul mercato automobilistico.

La scommessa sull’auto elettrica, che l’Europa in maniera demenziale ha fatto un po’ di anni fa, è persa; perché la Cina ha un vantaggio tecnologico e di prezzo che appare ormai irrecuperabile. Si è intanto distrutta un’industria, quella delle automobili con motore endotermico, su cui c’era un primato europeo assoluto, e che con le innovazioni tecnologiche introdotte e i biocarburanti produceva ormai emissioni dirette prossime a quelle delle auto elettriche.

Sul green deal occorre davvero cambiare paradigma, e riconoscere onestamente gli errori fatti, perché non c’è più tempo e senza modifiche i processi di deindustrializzazione continueranno in maniera vorticosa e accelerata. Ma per cambiare rotta rapidamente ci vuole l’unità delle grandi famiglie politiche europee: popolari, socialisti, liberal-democratici e conservatori, capaci insieme di fare politica alta imponendosi sulla tecnocrazia.

Il tema del futuro e della sopravvivenza dell’industria europea, della sua competitività e della sua autonomia strategica è un tema esistenziale per l’Europa, perché è l’industria con la sua produzione di valore che consente il mantenimento del nostro modello sociale e di welfare di cui tutti, giustamente, meniamo vanto. È quindi un tema di tutti e non può diventare occasione di scontro politico e/o di campagna elettorale.

Alla revisione del green deal e delle sue storture si arriverà comunque, in un modo o nell’altro, e il documento dei tre premier è un primo importante segnale in questa direzione.

Si sta facendo strada, tra l’altro, la consapevolezza che l’Europa rischia di annientare la sua industria per nulla, perché le CO2 nel mondo continuano a crescere a causa delle paurose emissioni di Cina, USA, India e degli altri paesi emergenti, i quali si guardano bene dal seguire il modello europeo e rappresentano la stragrande maggioranza delle economie e delle popolazioni del mondo.

In questo contesto, perché i socialisti insistono ad attardarsi su posizioni astratte ed estremiste, anziché partecipare a pieno titolo alla salvezza di decine di milioni di posti di lavoro messi in pericolo dalle politiche europee degli ultimi anni, così come alla salvezza del modello sociale europeo con le sue tutele per i più deboli e il suo welfare di cui proprio loro sono stati costruttori protagonisti?

Quale è la ragione per la quale la socialdemocrazia, tradizionalmente votata alla difesa del lavoro, delle fabbriche e degli operai, dovrebbe anteporre a questi interessi sociali un estremismo ambientalista, una specie di religione neopagana a forte sfondo anticapitalista, dietro la quale spesso si nascondono grandi vecchi cultori di un’ideologia marxista-leninista sconfitta dalla storia?

Perché i socialisti europei accettano che gli operai della VW, o della Renault, o di Stellantis, o quelli della fabbriche siderurgiche si sentano abbandonati dai loro tradizionali rappresentanti e votino sempre di più partiti estremisti di destra e di sinistra come continua a succedere in Germania, Francia, Belgio, Olanda, Austria, ecc.?

Il ruolo dei socialisti dovrebbe essere quello di richiamare continuamente l’Europa a non trascurare i temi sociali e del lavoro, a perseguire oltre che la sostenibilità ambientale anche quella sociale ed economica, a non privilegiare sempre obiettivi e strumenti finanziari. Dovrebbe suggerire qualcosa il fatto che la settimana scorsa la maggior parte delle grandi banche di affari e dei fondi di investimento, che hanno trasformato anche il green deal in un gigantesco affare finanziario, sfruttando l’ondata di calore che ha colpito tutto il mondo, abbiano diffidato i governi a modificare le regole dell’ETS , mercato su cui speculano alla grande.

I socialisti dovrebbero vedere che la drammatica crisi europea è anche frutto dell’ideologia dominante nella tecnocrazia “guardiana” di Bruxelles che, totalmente priva di legittimazione democratica, ha determinato in questi anni il mostro dell’iper-regolamentazione.

Un’ideologia totalitaria contro la libertà dei cittadini e delle imprese, fatta dall’intreccio inestricabile di un fascio di forze eversive come l’estremismo ambientalista, l’estremismo mercatista e l’estremismo finanziario, che si sono impadronite a poco a poco delle politiche europee.

Salvare l’industria europea, ridarle competitività e vigore, riportarla ad essere strategicamente autonoma, proteggere i suoi lavoratori, deve essere un obiettivo comune e il PSE non può non partecipare a questa battaglia che oggi rappresenta la battaglia esistenziale dell’Europa. Se il PSE non la fa significa che ha perso l’anima e l’insegnamento dei padri riformisti del socialismo europeo, che del realismo e del pragmatismo hanno sempre fatto la loro stella polare.

Nato, Meloni: “Spese necessarie e sostenibili. Per 2026 non useremo escape clause”

L’aumento della spesa per la difesa è “necessario e sostenibile”. Giorgia Meloni lascia il vertice Nato all’Aja ribadendo l’adesione convinta alle richieste di Donald Trump e garantendo, ancora una volta, che “nemmeno un euro” sarà sottratto alle “priorità del governo e dei cittadini italiani”. La clausola di salvaguardia del Patto di Stabilità, la cosiddetta ‘Escape clause’, nel 2026 non sarà necessaria (“poi chiaramente per gli anni a venire si valuterà”). L’alleanza è “compatta” e il sostegno all’Ucraina è “pieno da parte di tutti”. Quanto alla Spagna, che ha chiesto una deroga all’aumento delle spese fino al 5% del Pil: “Ha firmato lo stesso documento che abbiamo firmato noi”, taglia corto la premier.

Il contesto, spiega più nel dettaglio la presidente del Consiglio, necessita un aumento delle spese, ma in una dimensione che “ci consente di assumere questi impegni”. Meloni osserva che l’incremento dell’1,5% in 10 anni non è così distante dall’impegno che l’Italia ha già assunto del 2014 quando era dell’1%. Impegno poi ribadito da tutti i governi prima del suo. A questo si aggiunge un 1,5% di spese sulla sicurezza, risorse che, insiste, comunque l’Italia avrebbe speso, perché riguardano materie molto più ampie della questione di difesa: i confini, la migrazione irregolare, le infrastrutture critiche, la mobilità militare, ma anche l’intelligenza artificiale, la ricerca, l’innovazione tecnologica. “Sono risorse che servono a mantenere questa nazione forte come è sempre stata”.

D’altra parte, sul target del 5% la flessibilità è “totale”, assicura: “Abbiamo chiesto che su molte di queste spese fosse a totale discrezione degli stati nazionali di decidere cose ritengono una minaccia, perché le minacce che affronta una nazione che si affaccia sul Mediterraneo sono distanti anni luce da quelle sul mar Baltico. E lo abbiamo ottenuto“. Insomma, tutto sta nel capire su cosa si investe, perché “il mondo sta cambiando e cambia anche la difesa”, ricorda, Meloni: “Si va verso un mondo nel quale un satellite può essere più strategico di un carro armato”.

L’obiettivo resta comunque irrealistico per la leader dem Elly Schlein, che lo giudica anche “dannoso, sbagliato e grave”: “Con leggerezza Meloni ha deciso di impegnarsi, mentre il premier spagnolo ha dimostrato che si può dire di no”, denuncia la segretaria del Pd che poi affonda: “La premier non è in grado di dire no all’amico Trump”.

Sul sostegno all’Ucraina, inserito anche nel documento finale, dopo il vertice Meloni partecipa a un incontro con Volodomyr Zelensky e i leader di Francia, Germania, Polonia e Regno Unito, con il Segretario Generale Rutte. “Sono stati approfonditi gli sforzi in corso e il sostegno all’azione degli Stati Uniti a favore del cessate il fuoco per un percorso negoziale che conduca ad una pace giusta e duratura in Ucraina“, sottolinea Palazzo Chigi, aggiungendo che ènecessario” che la Russia dimostri di volersi impegnare seriamente nei colloqui, “contrariamente a quanto fatto finora”. I leader ribadiscono il “continuo sostegno” a Kiev, alla sua autodifesa e alla sua industria della difesa, anche “a fronte dei brutali attacchi russi contro i civili, e il mantenimento della pressione sulla Russia attraverso nuove sanzioni”.

Archiviato, si spera, il capitolo Iran, ora l’attenzione del mondo torna su Gaza. Ma in questo scenario, assicura la premier, tutto è più semplice: “Penso che tutti capiscano che questo è il momento in cui bisogna riuscire ad ottenere il cessate il fuoco, quindi l’Italia è impegnatissima per ottenere questo risultato”.

Stellantis, pioggia di licenziamenti nell’indotto. Schlein a Pomigliano: “Tavolo passi a Chigi”

Arrivano come una scure i licenziamenti di Trasnova, azienda che fornisce la componentistica a Stellantis. Fuori dallo stabilimento di Pomigliano D’Arco, gli operai si mobilitano con un albero di Natale decorato con i nomi di chi resta a casa. Ma le lettere arrivano anche a Melfi, Cassino e Torino.

La situazione è grave, tanto che il tavolo al ministero delle Imprese su Trasnova, che doveva tenersi il 17 dicembre nello stesso giorno del tavolo generale su Stellantis, viene anticipato al 10 dicembre. Tra le due date, il 12 dicembre, i sindacati incontreranno il responsabile Europa di Stellantis, Jean-Philippe Imparato, che guiderà la delegazione aziendale al Mimit.

Diventa fondamentale non solo la presenza di Stellantis al Mimit il 10 dicembre, ma c’è bisogno di una concreta disponibilità a rivedere le scelte fatte e trovare soluzioni per dare continuità lavorativa al lavorativa di Trasnova“, spiegano Samuele Lodi e Ciro D’Alessio di Fiom-Cgil. Quella di Trasnova, ricordano, “è solo una delle tante aziende della filiera che rischiano di chiudere se il Governo non interviene in maniera decisa perché il gruppo riveda le proprie strategie per l’Italia“. I sindacati chiedono investimenti in ricerca e sviluppo, nuovi modelli per rilanciare gli stabilimenti e la tutela dell’occupazione per i lavoratori diretti e indiretti. “E’ per questo che ribadiamo la richiesta alla Presidente del Consiglio a convocare a Palazzo Chigi il presidente di Stellantis”, insistono.

La richiesta è la stessa che fanno le opposizioni. La segretaria del Pd, Elly Schlein, raggiunge i lavoratori in presidio a Pomigliano: “Siamo qui per bloccare questa procedura, abbiamo chiesto e ottenuto l’anticipazione del tavolo a martedì prossimo, abbiamo chiesto che ci fosse la presenza di Stellantis, che si deve assumere le proprie responsabilità davanti ai lavoratori e davanti al Paese, chiediamo che sia bloccata la procedura di licenziamento di questi operai e che sia assicurato loro un futuro“, perché si tratta di “400 famiglie che rischiano di essere lasciate per strada: non lo possiamo accettare“, tuona. Insiste perché il tavolo Stellantis si sposti a Palazzo Chigi, perché “quello al Mimit si è rivelato inutile“, denuncia.

Dove sta Giorgia Meloni? Perché l’incapacità di Urso l’abbiamo vista, ma c’è tutta Italia che sta chiedendo a Meloni di intervenire, lei ascolta o fa finta di niente anche qui e scappa?“, domanda la vicepresidente del Movimento 5 Stelle Chiara Appendino. Tre le mosse che suggerisce: “Convocare il tavolo automotive presso la Presidenza dei Consiglio, rimettere subito i 4,6 miliardi che hanno tolto al fondo automotive e aiutare i lavoratori. Siccome chi è in cassa integrazione risulta tra gli occupati di cui Meloni ama riempirsi la bocca, li aiuti: noi abbiamo fatto un emendamento alla legge di bilancio con le coperture per aiutare chi è in cassa integrazione a mettere insieme il pranzo con la cena“, rivendica l’ex sindaca di Torino.

In vista del 17 dicembre, il governatore del Piemonte, Alberto Cirio, vede il ministro delle Imprese, Adolfo Urso. Al centro dell’incontro le prospettive e le sfide dell’automotive italiano, con particolare attenzione a Mirafiori. Cirio si dice “molto soddisfatto dell’incontro“, che, sostiene, “conferma l’attenzione e in lavoro congiunto con il governo e in particolare con il ministro con il quale abbiamo condiviso il convincimento che questa situazione possa davvero aprire ad una fase nuova e possa essere l’occasione per il rilancio della produzione in Italia e in particolare in Piemonte, garantendo la centralità dei nostri stabilimenti e la salvaguardia dei posti di lavoro“.

Dal governo, il ministro dei Trasporti Matteo Salvini addossa la responsabilità della crisi di Stellantis all’Europa: “Il mercato dell’elettrico è fermo, ma non per colpa della politica, perché il cittadino non ha tutti quei soldi da spendere e non abbiamo, neanche facessimo miracoli, la possibilità di riempire in pochi anni di colonnine di ricarica elettrica tutta la strada italiana“, osserva. E’ una battaglia che il vicepremier porta avanti da anni a Bruxelles: “Fino a poco tempo fa ero da solo. Se voi andate a leggere i giornali, tre o quattro anni fa, quando la Lega diceva che convertirsi al solo elettrico è un suicidio, gridavano al negazionismo, mi davano del matto, dell’inquinatore, adesso sono in buona compagnia“, assicura, ripetendo che “mettere fuori legge dal 2035 l’auto a benzina e a diesel è una follia“. La linea è opposta a quella francese: “Mi spiace aver sentito ieri il collega che forse vive sulla luna e dice che va tutto bene, dice di andare avanti con il consumo elettrico. Probabilmente non si accorge che stanno licenziando migliaia di operai“.

Adesso anche il Pd torna a occuparsi di industria? Domande alla segretaria Schlein

In una recente intervista al ‘Corriere della Sera’ Romano Prodi afferma che “l’industria italiana è in grave crisi così come quella tedesca, ma a differenza che in Germania da noi non se ne discute. Non lo fa neppure Confindustria”, e a proposito del Pd di Elly Schlein l’ex presidente della Commissione Europea afferma “non vedo grandi discussioni, a partire dalla direzione e dalla segreteria sulla politica industriale”.

Per la prima parte non mi sento di condividere le affermazioni di Prodi.

Mettere sullo stesso piano la situazione dell’industria tedesca con quella dell’industria italiana non tiene conto delle specificità del nostro sistema industriale, più volte richiamate su queste pagine, e in particolare della sua maggiore diversificazione e resilienza rispetto a quello della Germania, molto più concentrato su automotive e chimica, due settori oggi in grave crisi.

Non può invece essere in grave crisi almeno per ora un’industria manifatturiera come quella italiana, prevalentemente costituita da pmi a conduzione familiare, che è diventata la quarta in termini di esportazioni mondiali superando Giappone e Corea del Sud e che, in un momento di caduta generale della competitività dell’industria europea, mostra tutta la sua forza e il suo vantaggio competitivo fatto di intensità di lavoro delle famiglie proprietarie e dei loro collaboratori, di qualità dei prodotti, di design, bellezza, innovazione ecc.

Inoltre è ingeneroso dire che Confindustria non si occupa della situazione dell’industria nazionale e che non parla delle difficoltà che pure ci sono. La presidenza di Emanuele Orsini, fin dalle prime battute, ha posto con coraggio temi centrali per il futuro dell’industria europea e italiana e per la loro competitività, quali quelli del prezzo dell’energia e della necessità del nucleare di quarta generazione; delle distorsioni ideologiche del “green deal” che, se gestito come si è fatto fino ad oggi, rischia di trasformare la decarbonizzazione in desertificazione industriale; della crisi dell’automotive e della necessità di applicare il principio della “neutralità tecnologica”, che significa non cancellare i motori endotermici ma sviluppare accanto all’elettrico anche i biocombustibili e i combustibili sintetici; e così via.

La chiarezza e la forza del messaggio di Confindustria sono emersi nel trilaterale di Parigi di due settimane fa di cui ho parlato nel mio editoriale della settimana scorsa.

Prodi ha invece ragione quando dice che il Pd non parla da tempo di industria e di politiche industriali. E ciò stupisce non poco perché nella tradizione della sinistra italiana i temi dell’industria e del lavoro sono sempre stati storicamente centrali.

Negli ultimi giorni Elly Schlein, forse anche a seguito della critica di Prodi, ha dichiarato di volersi occupare di industria. Molto bene, ben tornati.

Le grandi questioni dell’industria europea e italiana, nel contesto del rapido cambiamento globale e di una sempre più serrata competizione con Stati Uniti d’America e Cina, richiedono un impegno generale non solo del mondo delle imprese e delle loro rappresentanze ma di tutte le forze politiche e sociali, senza il sostegno delle quali sarà difficile vincere le dure sfide che stanno dinanzi all’industria nel nostro continente.

C’è un problema di consenso su alcune questioni fondamentali e sulle cose da fare subito, perché tale consenso ancora non c’è. Il rapporto Draghi, al quale Von der Leyen dice di volersi ispirare per definire un Clean Industrial Deal nei primi 100 giorni del suo mandato, può aiutare nella ricerca di una linea condivisa.

Occuparsi di industria in maniera non astratta e non retorica significa entrare nel merito dei problemi e misurarsi con le contraddizioni e gli errori che sono stati compiuti dall’Europa negli ultimi vent’anni e che sono ascrivibili, come ho detto più volte, a un problema culturale, la “sindrome dei primi della classe”, con tutto il suo portato iper-regolatorio, di estremismo ambientalista e di fastidio nei confronti dell’industria, specie quella di base.

Tali errori hanno portato ad una situazione di grave crisi economica europea e di sempre maggiore gap con gli Stati Uniti d’America, in termini di PIL, di reddito pro-capite, di primato perduto nel valore aggiunto prodotto dall’industria, di ritardo nella ReS e nell’innovazione, di scomparsa delle grandi aziende europee nel ranking delle grandi imprese mondiali.

Siccome la segretaria del Pd dice di volersi occupare di industria, mi permetto di sottoporle una serie di punti e di questioni rispetto alle quali non si conosce la posizione del suo partito. Tali questioni dovrebbero invece costituire oggetto di una seria riflessione interna per giungere a posizioni chiare non solo del Pd ma di tutti i socialisti europei. Si tratta di problemi vitali per l’industria europea. Ecco un piccolo elenco.

1 – L’Europa è responsabile per il 7% delle emissioni mondiali di CO2. L’industria europea per meno della metà di questo 7%. Per contro, le emissioni di CO2 a livello mondiale stanno crescendo di anno in anno, perché le altre grandi aree economiche del mondo, a partire dagli Usa e dalla Cina, non si allineano alle politiche europee contro il climate change, dando così alle loro industrie un vantaggio competitivo enorme rispetto alle nostre. Che fare? Il Pd ritiene che si debba proseguire con l’estremismo ambientalista che ha caratterizzato l’era Timmermans o, senza disconoscere l’obiettivo strategico della decarbonizzazione, ritiene lo si possa perseguire con modi e tempi che non desertifichino industrialmente il nostro continente? In questo caso quali sono, secondo il Pd, le modifiche da apportare all’approccio europeo?

2 – L’era digitale, con la crescita dei Data Center e delle applicazioni di IA, avrà caratteristiche fortissimamente energivore. Le sole energie rinnovabili, seppure importanti, non saranno sufficienti a soddisfare il fabbisogno crescente di energia specie elettrica. Il Pd è favorevole al concetto di neutralità tecnologica? E cioè, per dirla alla Deng Xiaoping, ‘non è importante che il gatto sia bianco o nero, l’importante è che prenda il topo (in questo caso la CO2)’? Ciò significa essere consapevoli che le energie rinnovabili da sole non bastano e che per rispondere alla domanda crescente di energia e nel contempo decarbonizzare occorreranno tutte le altre tecnologie disponibili, quali il nucleare di quarta generazione, le carbon capture, i biofuel ecc. Il Pd è d’accordo? E in particolare, quale è la posizione del Pd sul nucleare di quarta generazione, SMR e microreattori?

3 – La promessa che i posti di lavoro creati dal green deal sarebbero stati molto superiori a quelli distrutti nelle industrie europee tradizionali si è rivelata, fino ad oggi, vana. In realtà l’Europa con il green deal ha creato una gigantesca occasione di business per la Cina, che è dominante in tutte le aree legate alla decarbonizzazione: dai pannelli solari, agli inverter, dalle pale eoliche al litio, alle batterie, alle auto elettriche. Ciò ha creato e creerà una nuova dipendenza strategica. Come evitare questa dipendenza? Le prime esperienze di ricerca di autonomia, ad esempio nella fabbricazione di batterie e pannelli in Europa, sono state spesso fallimentari. Quale è la posizione del Pd rispetto a questo rischio? A proposito di eventuali dazi che dovrebbero proteggere le auto elettriche europee dalla concorrenza sleale di quelle cinesi sovvenzionate dallo stato, Draghi scrive nel suo rapporto che in una giungla di carnivori gli erbivori rischiano la pelle. L’avvento di Trump e i suoi propositi di incremento dei dazi rendono la situazione ancora più difficile. Il Pd condivide il concetto espresso da Draghi? I due governi europei a guida socialista (quello tedesco e quello spagnolo) si sono dichiarati contro l’applicazione di dazi rinforzati alle auto elettriche cinesi.

4 – Un motore endotermico ha un indotto dalle 10 alle 12 volte superiore di quello elettrico. Solo in Italia sono a rischio 70.000 posti di lavoro nelle nostre fabbriche di subfornitura automobilistica. È favorevole il Pd a spostare in avanti la scadenza del 2035 per la messa al bando delle auto con motore endotermico? In molte nazioni europee, come Svezia e Germania, si pensa di riconvertire parte dell’industria automobilistica messa in crisi (anche) dal green deal in industria della difesa. Cosa dice il Pd al riguardo?

5 – Il sistema ETS, che ha creato il mercato delle quote di CO2 per le imprese emittenti gas climateranti con i loro processi industriali, non è mai stato sottoposto a un’analisi di impatto. Dopo 20 anni di funzionamento sarebbe il caso di fare uno studio oggettivo di cosa questo sistema ha dato e cosa ha tolto. Il Pd è favorevole alla proposta fatta due anni fa dal premier spagnolo Sanchez, e rifiutata dalla Commissione Europea, relativa alla estromissione dal mercato delle CO2 degli intermediari finanziari, banche di affari e fondi, che speculano sulle quote che gli industriali devono acquistare, facendone sovente esplodere il prezzo?

6 – Il Pd è favorevole ad una revisione del CBAM (il meccanismo di dazio ambientale introdotto nel tentativo di proteggere l’industria europea dalle industrie di altre parti del mondo non sottoposte a tasse carboniche)? Tale sistema da un lato è insostenibile soprattutto per le pmi per la sua complessità e macchinosità; dall’altro a partire dal 2027-2030 eliminerà le quote gratuite di CO2 per le imprese hard to abate. Ciò significherà la chiusura della siderurgia da alto forno, di pezzi importantissimi di chimica, di tutta la ceramica, dell’industria del vetro, delle fonderie, della carta. Il Pd e il gruppo socialista al Parlamento europeo pensano di fare qualcosa per impedire questo disastro?

7 – A causa dell’iper-regolamentazione e delle politiche del green deal l’Europa, nonostante sia ancora il mercato più grande e ricco del mondo, ha perso progressivamente attrattività per gli investimenti esteri. Le imprese extra-europee sono sempre più restie ad investire in Europa. Non solo, assistiamo al fatto che sempre più industrie e industriali europei pensano di investire e crescere fuori dall’Europa, negli USA in particolare. Cosa si deve fare secondo il Pd per ridare attrattività agli investimenti esteri in Europa, che spesso significano innovazione e occupazione?

8 – Il Pd è favorevole ad un’industria europea della difesa, premessa indispensabile per politiche comuni della difesa in Europa? Il Pd è favorevole, a questo fine, a portare la spesa militare italiana al 2% del PIL come da impegni internazionali?

9 – L’occupazione è cresciuta molto in Italia negli ultimi anni specie nella forma di contratti a tempo indeterminato. Il tasso di disoccupazione in Italia, ci dice l’Istat, è il più basso da molto tempo. L’industria italiana ha un enorme problema quantitativo e qualitativo di mano d’opera. Si calcola che ci siano 400.000 posti di lavoro non coperti. Per questo le imprese cercano in ogni modo di fidelizzare il rapporto con i propri collaboratori. Non ritiene il Pd che porre il tema in termini di salario minimo e lotta alla precarietà non colga le vere questioni che attengono al mercato del lavoro per l’industria? Perché si è promosso un referendum contro il Jobs Act, misura adottata da un Governo a guida Pd, che attraverso meccanismi flessibili ha creato più di 1 milione di posti di lavoro ed è stato molto gradito dall’industria italiana? Perché non si è lavorato sulla parte centrale e più strategica del provvedimento, che è quella relativa alla formazione e riqualificazione dei lavoratori?

10 – Il meccanismo del 5.0, che ha a disposizione oltre sei miliardi per la transizione energetica e digitale dell’industria italiana, è praticamente bloccato per la complessità applicativa dovuta all’incrocio tra regole italiane e regole europee. Cosa dice il Pd al riguardo?

11 – Il Pd è favorevole alla proposta di Confindustria di un’IRES premiale per le imprese che trattengono gli utili in azienda e ne reinvestono una parte consistente in innovazione e formazione del capitale umano?

Si tratta di questioni cruciali per il futuro dell’industria italiana ed europea.

Sarebbe interessante avere la posizione ufficiale del Pd su ciascuna di esse, tanto per comprendere, al di là delle parole, la reale disposizione di quel partito nei confronti dell’industria.

Lite Meloni-Schlein su Fitto. La dem: “Stallo creato da Vdl e Ppe, allargano a destra”

Non si placa lo scontro a distanza tra Giorgia Meloni ed Elly Schlein. Questa volta, il terreno è quello europeo e la posta in gioco è alta per tutti. La vicepresidenza della commissione europea di Raffaele Fitto è in stallo e la premier non accetta che il Paese non sia compatto nel supporto alla causa.

Non posso che augurarmi il massimo sostegno da parte del Sistema Italia, forze politiche comprese, alla conferma della vicepresidenza esecutiva della prossima Commissione per il Commissario italiano Raffaele Fitto”, mette in chiaro Meloni. Il ruolo di vicepresidente, ricorda, consentirà al ministro italiano, già dotato di un portafoglio “significativo” alla coesione e alle riforme, di “supervisionare altre politiche settoriali come quella dei trasporti, affidata al commissario greco Tzitzikostas”. A lui spetterà, tra l’altro, la redazione di un nuovo piano europeo per il settore caldissimo dell’automotive, che sta facendo tremare le vene ai polsi dell’intero Continente. La premier ce l’ha in particolare, con la segretaria dei Dem. Dal palco della chiusura della campagna elettorale del centrodestra per le Regionali in Umbria, la presidente del Consiglio si dice “basita”: “Da giorni chiedo alla segretaria del Partito Democratico quale sia la posizione ufficiale del Pd” su Fitto “e non riesco ad avere una risposta”, denuncia. “Non deve rispondere a me ma ai cittadini italiani, le persone serie fanno così”, ribadisce, invitando Schlein ad assumersi la “responsabilità delle proprie scelte.

Sorrido”, risponde la democratica oggi proprio da Perugia, perché, sostiene “questa cosa chiarisce molto bene chi è la presidente del Consiglio”. Racconta di aver telefonato lei alla premier per chiederle “perché è da una settimana che mi attribuisce cose che non ho mai fatto e che non ho mai detto” e di non aver ricevuto risposta. “Mi attribuisce cortei a cui non ho partecipato, assessorati regionali che non ho mai avuto, e posizioni su Fitto che non ho mai assunto”, assicura. Poi chiarisce la posizione del Pd su Fitto: “Non abbiamo mai messo in discussione un portafoglio di peso per l’Italia in quanto Paese fondatore”, chiosa. Lo stallo politico, secondo Schlein l’hanno creato i Popolari che in Parlamento stanno cercando di allargare “strutturalmente” la maggioranza alla destra nazionalista. Fa nomi e cognomi: il problema l’hanno creato “Manfred Weber e Ursula von der Leyen“. Si rivolge proprio alla presidente della Commissione europea, esortandola a “sbloccare questa situazione”. Perché, spiega, “Il problema non è mai stato Fitto e le sue deleghe, questo non l’abbiamo mai detto. Il nodo politico è l’allargamento della maggioranza a destra diversamente da chi ha votato von der Leyen a luglio“.

Intanto, il commissario uscente all’Economia, Paolo Gentiloni, ricorda a tutti che “il mondo non aspetta la Commissione europea” e che difficoltà e problemi vanno superati il prima possibile. Si dice convinto che ci siano le condizioni perché il nuovo esecutivo entri in funzione “come necessario” il primo dicembre. Le sfide sono tante: “Tutti siamo convinti che nel contesto che si è creato anche dopo le elezioni americane avere una Europa unita e salda sia importante e per questo mi auguro che non ci siano ritardi”, sostiene.

Dalla missione di Monaco di Baviera, il vicepremier e vicepresidente del partito Popolare europeo, Antonio Tajani, tratta con il capogruppo del Ppe Manfred Weber e “gli amici della Csu”, l’Unione Cristiano Sociale. “Di fronte alle sfide da affrontare, da migrazioni a competitività, occorre lavorare per soluzioni”, commenta il ministro degli Esteri italiano, ribadendo che è “necessario approvare la nuova Commissione nei tempi previsti”. I leader Ue avranno modo di cercare una soluzione vis-à-vis nei prossimi giorni, ospiti del G20 di Rio de Janeiro, in Brasile, il 18 e 19 novembre.

Scintille governo-E-R. Musumeci: Come hanno speso mezzo miliardo? Priolo: Ministro specula

La polemica politica s’infila nelle crepe della disperazione e della paura. Si fa spazio, fino a prenderselo tutto, anche quello della cronaca nera. Succede così che con i campi, le case, le aziende dell’Emilia Romagna allagate ancora una volta, anche con due dispersi, aleggia lo spettro della campagna elettorale.

Non mi faccio trascinare dalle polemiche“, chiarisce il ministro della protezione civile, Nello Musumeci. Ma la butta lì: “Qualcuno vorrebbe alimentarle, magari sotto la spinta emotiva delle Regionali“. Organizza a Palazzo Chigi una conferenza stampa con il viceministro delle Infrastrutture e dei Trasporti, Galeazzo Bignami, per assicurare la collaborazione del governo, dirsi pronto a portare in consiglio dei ministri la richiesta di stato d’emergenza (quando e se verrà presentata dalla Regione) e puntualizzare che la prevenzione è di competenza regionale. L’Emilia Romagna, in 10 anni, ha ricevuto dai governi che si sono avvicendati oltre mezzo miliardo di euro: “Quello che accade è frutto di ciò che abbiamo o non abbiamo fatto e se non attrezzi il territorio, poi l’alluvione arriva. Con oltre mezzo miliardo, penso abbiano messo in sicurezza una parte del territorio, ci si dica quale, per poter programmare i nuovi interventi“, aggiunge.

Musumeci ricorda che secondo i dati dell’Ispra l’Emilia Romagna è tra le regioni che maggiormente hanno consumato suolo negli ultimi decenni e che cementificare significa “facilitare l’effetto ruscellamento quando piove abbondantemente, perché l’acqua non viene assorbita“. Il ministro non intende incolpare il commissario Francesco Paolo Figliuolo, che va avanti “con grande senso di responsabilità“. Non tutto il denaro a sua disposizione è stato speso e questo non perché non ci sia stata programmazione, ma perché “dall’altra parte non sono state definite le richieste di chi e come si deve intervenire, i piani speciali li redige il commissario, ma li realizza l’ente Regione“, insiste.

Parole agghiaccianti per la presidente ad interim, Irene Priolo, che chiede a Figliuolo di dissociarsi dalle dichiarazioni di Musumeci. Trova insolito che si faccia una conferenza stampa per evidenziare i problemi di una gestione quando l’emergenza è in corso e per individuare in modo “poco istituzionale” le responsabilità attribuendole a enti locali e Regioni, dimenticandosi che “noi stessi stiamo continuando a gestire cantieri e interventi e che il Governo ha fatto la scelta gestire per il tramite del commissario Figliuolo l’emergenza del 2023″, denuncia. Mentre si tenta di salvare vite umane, quella conferenza stampa “l’ho ritenuta speculazione politica“, tuona, dicendosi “molto stupita“.

Di “sciacallaggio politico” parla la segretaria del Pd Elly Schlein, mentre gli amministratori dell’Emilia-Romagna, sottolinea, “hanno passato la notte a gestire l’emergenza, organizzare soccorsi e sostenere la popolazione“. Ricorda la visita di Giorgia Meloni un anno fa nei territori alluvionati della Romagna come “una inutile passerella, con gli stivali nel fango a promettere 100% di ristori a famiglie e imprese che non sono mai arrivati”. Mancano le risorse, insiste la segretaria, i poteri sono stati concentrati su un commissario che ha la struttura a Roma, e “adesso scaricano responsabilità e problemi sugli amministratori locali. Prima ancora che ridicolo è indecente“, chiosa.

Per il deputato di Avs Angelo Bonelli la conferenza di Musumeci sancisce il fallimento del governo, perché chiarisce che il piano sul dissesto idrogeologico è “fermo da cinque mesi al Ministero dell’Ambiente e della sicurezza energetica in attesa di via libera“. Affermazione che se confermata “sarebbe gravissima“: “Il rimpallo di responsabilità con Pichetto Fratin, mentre l’Emilia Romagna è sott’acqua, è inaccettabile e imbarazzante“, scandisce, affermando che oggi Musumeci “si è posto all’opposizione del suo stesso governo“.

Nuova “estate militante” per Elly Schlein. E sfida Meloni su Green deal, Pnrr e autonomia

Prima le elezioni europee, poi le amministrative e ora il successo dei laburisti in Gran Bretagna. Dalle parti del Pd inizia a tirare aria nuova e positiva, così la segretaria, Elly Schlein, nonostante le fatiche della doppia campagna elettorale ravvicinata, chiede comunque uno sforzo alla sua squadra per continuare l’opera sui territori, una nuova “estate militante” per “battere il ferro finché è caldo“. Sperando di avere al suo fianco le altre opposizioni, da Avs al Movimento 5 Stelle, ma anche Azione e Iv. Partendo dalla raccolta firme per il referendum abrogativo dell’Autonomia differenziata, dopo aver depositato stamane in Cassazione, assieme ai partiti di minoranza e sindacati il quesito referendario. La riforma Calderoli “sancisce che ci sono cittadine e cittadini di serie A e di serie B, a seconda di dove nascono, limitando l’accesso a servizi fondamentali come la sanità pubblica, la scuola, il trasporto pubblico locale“, dice nella sulla sua relazione alla Direzione nazionale del Partito democratico. “Ma è una battaglia, insisto, che interessa tutto il Paese e non soltanto il Sud e le aree interne – aggiunge -. Anche il mondo produttivo, al Nord, capisce benissimo l’assurdità di rischiare 20 politiche energetiche diverse, quando dovremmo ridurre la frammentazione e lavorare per una politica comune europea sull’energia“.

Ne approfitta per togliersi un altro sassolino dalle scarpe: “Il governo schiaffeggia da un anno e mezzo le autonomie locali, tagliando sui Comuni: volevano togliere altri 250 milioni già prima delle elezioni, la nostra denuncia e protesta li ha fermati, ma solo temporaneamente“. Dunque occhi aperti, soprattutto sui fondi di Coesione: “Un atteggiamento vessatorio e punitivo verso le Regioni che loro non governano, come stiamo vedendo con il vergognoso sequestro dei fondi per Campania e Puglia“, denuncia.

C’è molta Europa nelle parole di Schlein, che fiuta le difficoltà del governo, della premier e la sua maggioranza nel negoziato per la composizione della nuova Commissione Ue. “L’Unione europea ha bisogno di un nuovo inizio e di rilanciare con grande coraggio e lungimiranza e il disegno di integrazione verso l’Europa federale, di andare avanti sui diritti sociali, sulla sostenibilità ambientale, sul rinnovato protagonismo per promuovere la pace e la cooperazione internazionale – sostiene -. Lavoreremo con il nostro gruppo parlamentare e i partiti nostri alleati e seguiremo con grande attenzione e preoccupazione anche le mosse della presidente del Consiglio, perché appare evidente che l’interesse dell’Italia e l’interesse della sua famiglia politica non coincidono affatto. Anzi, sono in palese contraddizione“.

Intanto a Bruxelles lancia messaggi chiari, come capo del partito che offre la delegazione più ampia di europarlamentari ai Socialisti, seconda forza d’Europa dietro il Ppe. “Vogliamo l’Europa degli investimenti comuni. Il Next Generations Eu non può essere una parentesi di solidarietà e innovazione che si chiude sotto la spinta dei suoi alleati nazionalisti, l’Italia ha bisogno di investimenti comuni europei, lo sa bene il nostro mondo produttivo e industriale, perché abbiamo una vocazione industriale, abbiamo il sapere e la creatività degli artigiani, delle maestranze e l’intelligenza delle mani e delle teste, ma da soli non abbiamo il margine fiscale che altri Paesi hanno già messo in campo per creare nuove filiere strategiche: penso alle rinnovabili e i sistemi di accumulano, le batterie“.

Avanti deve andare anche il Green deal: “Per un grande piano industriale europeo, in cui rilanciare la nostra manifattura, guidando una conversione ecologica giusta e la trasformazione digitale senza lasciare nessuno indietro e creando anche buone imprese e lavoro di qualità“. Perché, sottolinea Schlein, il Gd “non è meno industria, ma un tipo diverso di industria in cui l’Italia può fare da guida, come ha sempre fatto sull’economia circolare“.

Parole che poi rimbalzano sulle questioni interne, di casa Italia. “Non è negando l’emergenza climatica che aiuteremo imprese, lavoratori, agricoltori. Come quelli alluvionati che dopo più di un anno stanno ancora aspettando i ristori al 100% promessi da Giorgia Meloni, che non sono mai arrivati“, attacca. Promettendo: “Li aiuteremo ottenendo tutti gli investimenti comuni europei che servono a prenderli per mano e accompagnarli, passo dopo passo, in tutti i cambiamenti che sono necessari per rinnovare i propri processi e le competenze per ridurre gli impatti negativi sul pianeta“. La sfida del Pd è aperta e lanciata.

Ponte Stretto, aperta inchiesta. Salvini: Giudici e sinistra non mi fermeranno

Dopo un esposto presentato da Angelo Bonelli, Elly Schlein e Nicola Fratoianni lo scorso 1 febbraio, la procura di Roma apre un fascicolo sul Ponte sullo Stretto di Messina. I parlamentari chiedono di indagare sull’iter che ha portato a rimettere in piedi la società Stretto di Messina e a far rivivere i contratti della vecchia gara fatta nel 2008 dal governo Berlusconi e vinta dal gruppo Eurolink.

Nell’esposto, si parla di incontri precedenti al decreto Ponte approvato in Consiglio dei ministri: tra Salvini, Lunardi (autore della gara vinta da Eurolink) e Pietro Salini (a capo della cordata), per discutere il decreto; tra Lunardi e Prestininzi (responsabile del comitato scientifico del Ponte sullo Stretto).

Finché mi fate fare il ministro vado in ufficio per fare le opere pubbliche che servono al Paese. Non saranno la sinistra, qualche giudice o qualche giornalista di sinistra a fermarmi o mettermi paura“, tuona il ministro delle Infrastrutture e dei trasporti, Matteo Salvini, dalla chiusura della campagna elettorale in Sardegna. Il Ponte sullo Stretto, insiste poi in tv, “è un diritto di milioni di italiani a viaggiare più velocemente e inquinare di meno“. E, secondo le stime della società, scandisce, “creerà 120mila posti di lavoro in tutta Italia, compreso l’indotto”.
“Il Pd e la sinistra sono contro le opere pubbliche, il lavoro e lo sviluppo del Paese“, gli fanno eco fonti della Lega. “Si dimostrano nemici dell’Italia“, chiosano e promettono che non si faranno “fermare” dalle “loro minacce“: “Continuiamo a lavorare per sbloccare e completare tutte le opere ferme da troppo tempo“.

Il Ponte non è un diritto, ma solo una “esigenza politica” del vicepremier, per Bonelli. L’esponente di Alleanza Verdi Sinistra è convinto che l’opera sottragga agli italiani 12 miliardi di euro, che potrebbero servire, sottolinea, “per finanziare le vere infrastrutture socialmente utili“, per di più riattivando una gara, ricorda, “vecchia di 12 anni con un progetto che non aveva il via libera per la valutazione di impatto ambientale, cosa che non sarebbe stata consentita a nessun imprenditore italiano“.

I documenti per verificare e analizzare la relazione sul progetto Ponte e l’atto negoziale tra società Stretto di Messina e consorzio Eurolink sono stati negati ai parlamentari che ne hanno fatto richiesta: “Come può un ministro essere credibile quando dichiara che il Ponte creerà 140 mila posti di lavoro, per cambiare poi i numeri settimane dopo e sostenere che saranno 40 mila, mentre la società Stretto di Messina parla di soli 4.300 posti?“, chiede l’ambientalista.

Fratoianni registra “troppo nervosismo” nella reazione di Salvini all’apertura dell’inchiesta. “Abbiamo chiesto una cosa semplice e sacrosanta“, si difende, chiedendo piena trasparenza su una “grande, gigantesca opera“. Il segretario nazionale di Sinistra Italiana la ritiene “perfettamente inutile, un enorme spreco di risorse pubbliche“, ma, ribadisce, “pretendiamo che chi la vuole fare garantisca la piena trasparenza delle procedure“.

Agricoltura, Pd riunisce filiera. Schlein: “Crisi profonda, chi difende il settore da Meloni?”

Il Partito democratico apre il dibattito sul futuro dell’agricoltura con la Conferenza nazionale. Al Nazareno riunisce associazioni di categoria, sindacati, sigle ambientaliste, rappresentanze della filiera agroalimentari per cercare quelle che la segretaria, Elly Schlein, definisce “soluzioni a un malessere reale, di cui vanno cercate le cause senza facili capri espiatori e strumentalizzazioni per la campagna elettorale“. Secondo la leader dem, però, non c’è un motivo solo: “Il comparto vive una crisi profonda, per ragioni molteplici, ma il nutrimento è il fondamento della vita e la politica deve dare più attenzione al tema“.

La protesta dei trattori qualcosa ha smosso nel dibattito pubblico, ma ora che i mezzi sono tornati nei rispettivi capannoni, resta lo scontro tra maggioranza e opposizione, sia interno che a livello europeo. “Meloni si è rivolta agli agricoltori dicendo di averli difesi dalle scelte dell’Unione europea. Ma io mi domando: chi li difende dalle sue scelte? Perché il governo non ha fatto nulla in questo anno e mezzo, colpevolmente“, attacca Schlein. Che rincara la dose contro l’esecutivo anche sull’energia: “Dovremmo occuparcene tutti i giorni in Parlamento, invece abbiamo l’impressione di un governo nella migliore delle ipotesi distratto, nella peggiore nemico delle rinnovabili, che invece sono un grande potenziale“. Anche in agricoltura. Settore per il quale chiede di ripristinare il “contributo economico pubblico per le assicurazioni agricole contro gli eventi climatici, tagliato dal 65% a circa il 40, così non si assicurerà più nessuno“.

La segretaria dem non assolve nemmeno l’Europa. Ammette che sul consumo di suolo anche la sua parte politica, quando ha avuto responsabilità di governo, non ha fatto molto, lasciando che dell’argomento si occupassero solo le politiche Ue, mentre sulla reciprocità “serve un’attività di antitrust rafforzata per verificare la correttezza della formazione dei prezzi e immaginare, magari, anche una commissione d’inchiesta, vera, sulle pratiche sleali, perché abbiamo l’impressione che non siano realmente attuate in questo momento“. Argomento, questo, su cui sono tornati tanti dei relatori interventi alla Conferenza nazionale. “Bisogna concentrare l’attenzione nella definizione di nuova politica agricola“, dice il presidente di Confagricoltura, Massimiliano Giansanti, che indica nella fiscalità, il lavoro per la mano d’opera e la competitività tre punti importanti su cui intervenire.

Per Coldirettitema centrale è combattere le pratiche sleali. Non possiamo immaginare che ci siano restrizioni, penso ai fitosanitari, ma senza applicare il principio di reciprocità“, sottolinea il vicepresidente, David Granieri. Bisogna “frenare il consumo di suolo e occorre un piano di contenimento della fauna selvatica, è urgente“, spiega invece il presidente di Cia-agricoltori italiani, Cristiano Fini: “Le politiche agricole europee vanno fatte con gli agricoltori e non contro, come purtroppo è accaduto in questi anni“.

Chiare anche le posizioni dei sindacati. “L’attuale livello di produzione sta dimostrando che è insostenibile, dal punto di vista etico, ambientale ed economico, come dimostrano le proteste di questi giorni“, ricorda il segretario della Flai Cgil agricoltura, Davide Fiatti. Ritiene “fondamentale che le risorse europee vengano ricondotte, con la giusta assistenza fiscale, alle piccole e medie imprese, che sono una parte centrale della nostra agricoltura” la segretaria della Fai Cisl, Raffaella Bonaguro. Mentre Uila chiede alla presidente del Parlamento Ue, Roberta Metsola, di far saltare il trilogo in programma il prossimo 5 marzo sulla direttiva per il Packaging: “Se passasse la proposta della commissione Ambiente del Parlamento Ue tante persone rischierebbero di perdere il lavoro – spiega il segretario generale, Stefano Mantegazza –. Solo in Italia, in agricoltura, sarebbero circa 30mila“.

Altro argomento trattato è il rapporto tra ambiente e agricoltura. Sul punto le maggiori associazioni concordano in pieno: il futuro è l’agroecologia. “Il malessere non può essere attribuito alla transizione ecologica, che di fatto non è mai partita – dichiara Franco Ferroni del Wwf -. Il Green deal non è morto, ma ciò che è successo in queste settimane lo ha indotto in una ‘coma’ fisiologico“. Torna sulla reciprocità Greenpeace, sottolineando che “l’accordo con il Mercosur è anacronistico per il nostro mercato”, lamenta la responsabile Agricoltura, Federica Ferrario. Per il Pd si tratta di un primo passo, spiegano i vertici dem. Ora, però, gli attori della filiera si attendono di passare dalle parole alle proposte. Anche dall’opposizione.

Agricoltura, Cia chiede un Piano Nazionale: Da tutela filiera a gestione acque

Un Piano Nazionale per l’Agricoltura e l’Alimentazione. Lo Chiede Cia-Agricoltori italiani al governo, durante l’assemblea annuale a Roma. Accrescere peso economico e forza negoziale dell’agricoltura; incentivare ruolo e presidio ambientale del settore; mettere l’agricoltura al centro dei processi di sviluppo delle aree interne; salvaguardare servizi e attività sociali vitali per i territori rurali; consolidare la crescita dell’export agroalimentare Made in Italy. Queste le cinque mosse da cui partire.

Salvare l’agricoltura per salvare il futuro”, osserva il presidente, Cristiano Fini. Perché, precisa, “senza un’agricoltura in salute, viene compromesso il diritto a un’alimentazione sana, sostenibile e accessibile a tutti“.

Credo che quest’anno, a un anno di distanza dall’ultima assemblea, possiamo vantare un risultato, non io come ministro, ma tutti: la sinergia all’interno del governo ha permesso di rimettere al centro l’agricoltura“, rivendica dal palco il ministro Francesco Lollobrigida. Tuttavia, mette in chiaro Fini, “il settore ora vive una crisi generalizzata, tra tante emergenze che acutizzano il divario tra i prezzi pagati agli agricoltori e quelli sugli scaffali dei supermercati, con aumenti che superano anche il 400% dal campo alla tavola”. Cia si candida dunque come interlocutore delle istituzioni per definire il Piano agricolo nazionale “sempre annunciato, ma mai realizzato, in grado di invertire la rotta, collocando finalmente il settore primario tra i protagonisti della filiera agroalimentare, un colosso da circa 550 miliardi di fatturato in cui l’agricoltura prende però solo l’11%”, afferma il presidente. In questo percorso “l’Italia e, soprattutto, l’Europa devono essere dalla nostra parte, abbandonando posizioni e regolamenti ideologici anche in vista delle prossime elezioni Ue. D’altronde – chiosa Fini – se non c’è agricoltura, il Made in Italy non può esistere, scompare il presidio del territorio e le aree interne muoiono. Un rischio che il Paese non può correre”.

A Bruxelles “l’Italia gioca in difesa“, replica Lollobrigida: “Abbiamo criticato l’Europa perché i dati non ci tornavano, non riteniamo giusto pagare coltivatori per non coltivare e pescatori per non pescare. Sacrificare il mondo produttivo in nome di ideologie è stato un errore. Se smettiamo di produrre per non inquinare, i prodotti dobbiamo prenderli da filiere lunghe“, riflette. “In 30 anni abbiamo perso il 30% delle aziende agricole per scelte sbagliate – aggiunge -. All’inizio, su diversi temi, abbiamo preso posizioni isolate, ma alla fine non siamo rimasti isolati“.

Il Piano agricolo presentato da Cia è di respiro pluriennale, da sviluppare secondo cinque assi d’intervento organizzati per obiettivi chiari e relative misure.

Quanto alla gestione delle acque, per Cia è urgente un nuovo Piano di gestione di quelle a uso irriguo, secondo una logica che preveda il trattenimento quando l’acqua è disponibile e il suo utilizzo in periodi di siccità, con una programmazione oltre il 2026 e risorse dedicate all’agricoltura per la crescita del sistema dei grandi invasi (dighe) da considerarsi integrati, e non alternativi, a quello dei piccoli invasi (laghetti). Gli agricoltori trovano anche la sponda del vicepremier e ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti, Matteo Salvini. “Il mio obiettivo è arrivare a mezzo miliardo per intervenire sulla dispersione idrica“, da inserire in un emendamento nella legge di Bilancio, “così come nella rimodulazione del Pnrr abbiamo aggiunto un miliardo di euro. Sono convinto che riusciremo a spendere fino all’ultimo centesimo i fondi per il settore idrico”, garantisce.

L’appoggio arriva anche dall’opposizione. “L’agricoltura è sottoposta a uno stress profondo e gli agricoltori sono i primi a sapere che bisogna lottare contro il cambiamento climatico. Ma non possiamo permetterci di lasciarli soli. Occorre fare una conversione ecologica insieme agli agricoltori, che sono presidio dei territori. Un’agricoltura resiliente è più diversificata“, dice la segretaria del Pd, Elly Schlein. “Il cibo è vita e non c’è vita senza cibo di qualità”, scandisce la leader dem. Sul Piano di lavoro il Partito Democratico è pronto, assicura: “Siamo qui e siamo disponibili a lavorare con voi“.