Dazi, Ue pronta a rispondere al ‘fuoco amico’ Usa sulle auto. Ma negoziato va avanti

Ferma, proporzionata, solida, ben calibrata e tempestiva. Così il portavoce della Commissione europea per il Commercio, Olof Gill, descive la risposta che l’Unione europea darà ai dazi del 25% annunciati dal presidente Usa, Donald Trump, sulle importazioni oltre Oceano di automobili. Una reazione dai tempi di dispiegamento ancora incerti – “non posso parlare di tempistiche perché non sappiamo quali saranno queste misure future”  – ma a cui l’Ue si sta preparando: “Posso assicurare che sarà ferma, proporzionata, tempestiva, solida, ben calibrata e che otterrà l’impatto previsto”, scandisce Gill nella conferenza stampa quotidiana dell’esecutivo Ue.

La presidente Ursula von der Leyen si è detta “rammaricata” della decisione Usa, ricordando che l’industria automobilistica “è un motore di innovazione, competitività e posti di lavoro di alta qualità, attraverso catene di fornitura profondamente integrate su entrambe le sponde dell’Atlantico”. Le tariffe, ha ricordato, “sono dannose per le imprese e per i consumatori, sia negli Stati Uniti che nell’Unione Europea“. La strategia, ha spiegato von der Leyen, è quella di “continuare a cercare soluzioni negoziate, salvaguardando al contempo i propri interessi economici” e, allo stesso tempo, “proteggere i nostri lavoratori, le nostre imprese e i nostri consumatori in tutta l’Unione europea”.

La postura che Bruxelles vuole tenere è sulla preparazione al peggio, da un lato, e sulla ricerca di una soluzione negoziata dall’altro. “Il punto non è se siamo sorpresi o meno“, ma “se siamo preparati o meno, e qui la risposta è sempre sì: siamo preparati a salvaguardare i nostri interessi economici” contro “qualsiasi misura ingiusta e controproducente da parte degli Stati Uniti”. In tale contesto, però, la “priorità è trovare una soluzione negoziata, che funzioni per entrambe le parti”, nonostante il fatto che Bruxelles debba certificare che la spedizione di questa settimana a Washington del commissario al Commercio, Maros Sefcovic, “non ha prodotto alcun risultato negoziato che volevamo”, ma “ha offerto un’opportunità molto importante per noi di rafforzare i rapporti con la nuova Amministrazione statunitense”. Quindi, “i contatti tra l’Unione europea e l’amministrazione statunitense continuano e speriamo certamente che portino al tipo di risultati di cui stiamo parlando piuttosto che il contrario”, spiega Gill.

E, nel frattempo, l’Unione si guarda attorno: “Ovviamente stiamo parlando con alleati e partner globali in tutto il mondo di queste tariffe radicali e dannose annunciate dagli Stati Uniti perché danneggiano tutti, non solo Ue e Usa”. Oltre a non sbilanciarsi sui tempi, per ora Palazzo Berlaymont è riservato anche sulla lista dei prodotti su cui imporre contromisure da proporre agli Stati membri. “Prima di tutto posso dire che non vogliamo dover imporre contromisure sulle importazioni statunitensi nell’Ue” perché “crediamo sia un atto di autolesionismo economico da parte degli Stati Uniti”. Ma “ci prepariamo” e “l’elenco finale dei prodotti su cui proporre ai nostri Stati membri di imporre contromisure sarà ben selezionato per creare il massimo impatto nei confronti degli Stati Uniti e per ridurre al minimo l’impatto qui sulla nostra economia europea”.

Di fatto, la priorità dell’Ue resta, ancora, il dialogo. “Il primo aprile non accadrà nulla, perché la Commissione ha preso la decisione di allineare i tempi delle nostre due serie di contromisure”, ricorda Gill. Dal primo aprile avrebbero dovuto tornare in funzione le contromisure Ue del 2018 e del 2020 che erano state sospese. Ma “abbiamo sostanzialmente esteso quella sospensione affinché sia allineata con il nostro secondo elenco di contromisure su cui ci siamo consultati con le principali parti interessate” e che “presto useremo come base per l’elenco da proporre ai nostri Paesi”, illustra. “Abbiamo allineato le tempistiche per trovare in modo più efficiente il giusto equilibrio di prodotti” e per avere “più tempo per negoziare con gli americani”, perché “questa è la nostra massima priorità“, ricorda Gill. E in più, se il negoziato dovesse andare a vuoto, “questo approccio ricalibrato massimizza la nostra capacità di fornire la risposta più ferma e proporzionata possibile ai dazi americani”.

Dazi, Federvini: “Mercato Usa insostituibile, Ue eviti ritorsioni. Impatto sarebbe devastante”

“Abbiamo chiesto alle istituzioni italiane ed europee di intervenire senza indugio per rimuovere i vini e i whiskey statunitensi dalla lista tariffaria europea. Un ulteriore passo fondamentale per disinnescare pericolose ritorsioni sul nostro settore”. Lo spiega a GEA il direttore generale di Federvini, Marco Montanaro, in merito agli annunciati dazi Usa sulle importazioni di vini, distillati e liquori dai Paesi dell’Ue. Dal prossimo 2 aprile potrebbe infatti entrare in vigore il dazio del 200% su questi prodotti come annunciato dal presidente Donald Trump. Numeri da far tremare i polsi considerando che in gioco ci sono quasi 2 miliardi di euro solo per il vino Made in Italy.

Montanaro conferma il momento di attesa e incertezza delle aziende, in vista della prossima settimana: l’export verso gli Usa è bloccato dopo la raccomandazione della Wine Trade Alliance, l’associazione che riunisce grossisti, produttori e rivenditori americani. “Negli Stati Uniti al momento non si importano più vini, liquori e spiriti. I trader americani hanno segnalato che non possono ordinare prodotti su cui incombe il rischio di un dazio. I prodotti impiegano diverse settimane per arrivare. Per questo le aziende italiane stanno cercando di gestire i flussi commerciali, anche destinando i prodotti su altri mercati”.

Le aziende tengono il fiato sospeso, ma si devono preparare al peggio. Tra le conseguenze c’è ovviamente la perdita di grosse fette di mercato in Usa, a vantaggio di competitor internazionali esenti da dazi così pesanti (Argentina, Nuova Zelanda, Cile, Australia, solo per citarne alcuni). “Se le tensioni Usa-Ue dovessero continuare – conferma il direttore generale di Federvini – bisognerà individuare eventuali mercati di sbocco per tutte le giacenze e per i prodotti che non potrebbero più essere esportati negli Stati Uniti o potrebbero venire esportati a prezzi decisamente superiori”.

Per ora, tuttavia, si spera nella svolta diplomatica. Su questo Montanaro è netto: “Federvini ribadisce il proprio no ai dazi su vini e spiriti e al contempo esprime il proprio sì alla tutela delle relazioni transatlantiche. il mercato americano è il primo mercato di destinazione e non è sostituibile. L’impatto dei dazi e delle eventuali ritorsioni commerciali sarebbe devastante su un comparto che conta 40mila imprese, un fatturato di oltre 20 miliardi di euro, un totale di 10 miliardi di export a livello globale, 460mila dipendenti e milioni di consumatori”. Il caso italiano è peculiare, perchè a differenza di altri Paesi le tre categorie merceologiche di cui si occupa Federvini (vino, distillati e aceti), sono profondamente integrate. Un colpo difficile da assorbire.

Difficile, anche secondo Federvini, stimare la reale portata delle misure statunitensi. “Dobbiamo capire quali filiere saranno interessate per poi chiedere all’Ue, tramite iniziativa diplomatica, di rimuovere dazi su whisky e bourbon e disinnescare così eventuali misure ritorsive da parte degli Stati Uniti. La diplomazia in questo momento è al lavoro in maniera intensa per ridurre gli annunciati dazi o comunque trovare soluzioni condivise che possano evitare di colpire settori come l’agroalimentare” spiega Montanaro. Che in ultima battuta tiene a sottolineare “l’importanza di tenere vini e spiriti fuori da controverse commerciali che non riguardano il settore del vino, dei distillati. Controversie che originano da tensioni che riguardano alluminio, acciaio, veicoli elettrici. Si parla di asimmetria dei dazi perchè colpiscono prodotti che non c’entrano nulla con le rivendicazioni americane. Colpire il vino non ha proprio senso”.

Mattarella scuote l’Ue: Si aggiorni, servono decisioni veloci. Dazi inaccettabili

Difesa, debito, dazi. Le questioni su cui decidere in Europa sono tante e tutte scottanti. L’esperienza dell’Unione è stata “straordinariamente di successo“, ma non mancano lacune da colmare, come quella dei processi decisionali ancora troppo macchinosi. Dal palco di ‘Agricoltura è‘, Sergio Mattarella risponde ad alcuni studenti e l’ancia l’appello a Bruxelles: “Servono risposte veloci e tempestive. L’Europa ha bisogno di aggiornarsi”.

La preoccupazione del Capo dello Stato è soprattutto per i dazi, perché per un Paese come l’Italia la cooperazione di mercati aperti “corrisponde a due esigenze vitali“: pace e interessi concreti di un Paese esportatore. Su questo non ha dubbi: “I dazi creano ostacoli ai mercati, ostacoli alla libertà di commercio, alterano i mercati, penalizzano prodotti di qualità“. Questa è una cosa “inaccettabile” per il nostro Paese, denuncia, ma “dovrebbe esserlo per tutti i paesi del mondo”. Quando si parla di guerre commerciali, osserva Mattarella, spesso si mette l’accento sull’aggettivo commerciale, ma si dovrebbe metterlo sulla parola ‘guerre’: “Anche queste sono guerre di contrapposizione, che inducono poi a contrapposizioni sempre più dure e pericolose”, mette in guardia. Il presidente confida però che l’Unione europea abbia la forza per interloquire “con calma, ma anche determinazione, per contrastare una scelta così immotivata come i dazi. L’Europa è un soggetto forte”, scandisce, suggerendo di restare “sereni, senza alimentare un accesso di preoccupazione”.

“Ogni mossa per la de-escalation è davvero tanto necessaria“, chiosa il commissario europeo all’Agricoltura, Christophe Hansen, che domani sarà a Roma invitato al villaggio del Masaf. Chiede di tornare al tavolo delle trattative, piuttosto che annunciare semplicemente nuove misure.

Distendere i toni è anche la posizione del ministro dell’Agricoltura, Francesco Lollobrigida: “Non vogliamo che la situazione si aggravi”, spiega, leggendo nelle parole di Mattarella “la necessità di un atteggiamento fermo e ragionevole nel tentativo di garantire entrambe le economie”.

Dal Business forum Italia-Svezia, il ministro delle Imprese e del Made in Italy, Adolfo Urso, chiede di non imitarsi a reagire alle mosse di Donald Trump, ma di “agire per realizzare una nostra politica energetica, una nostra politica industriale, una nostra politica commerciale”. Il commissario europeo al Commercio, Maros Sefcovic, è in viaggio verso Washington, dove incontrerà le controparti americane, il segretario al Commercio Howard Lutnick e il rappresentante degli Usa per il commercio Jamieson Greer. Una buona notizia per il vicepresidente della Commissione europea Raffaele Fitto, che confida nel negoziato: “La strada mi sembra quella della composizione e del dialogo”.

Tajani lancia Piano di contrasto ai dazi: nuovi mercati senza abbandonare dialogo con Usa

Una strategia per l’export italiano che compensi gli eventuali contraccolpi generati dai dazi annunciati a partire dal 2 aprile da Donald Trump, ma senza abbandonare il dialogo con gli Stati Uniti.  Il governo italiano punta ai mercati extra-UE ad alto potenziale, con un Piano d’azione presentato oggi a Villa Madama dal ministro degli Esteri Antonio Tajani.

L’obiettivo è arrivare a 700 miliardi di export entro fine legislatura, partendo dai 623,5 miliardi attuali, puntando su mercati emergenti come Arabia Saudita, Turchia, Emirati Arabi Uniti, Mercosur (specialmente Messico e Brasile), Balcani occidentali, Africa e Paesi Asean (su tutti Thailandia, Indonesia e Vietnam).

Il Piano, che prevede missioni economiche e business forum costruiti su dossier-paese che individuano settori e opportunità concrete, è frutto del lavoro congiunto del Maeci con le agenzie del Sistema Italia (ICE, SACE, Simest, Cassa Depositi e Prestiti). I mercati emergenti, in fondo, già oggi coprono il 49% del nostro export globale, ma si può fare ancora di più nonostante l’Italia sia considerata già oggi una potenza mondiale dell’export e vanti numeri record: sesto esportatore mondiale e Paese con la maggiore varietà merceologica, seconda economia al mondo e prima in Europa per diversificazione di beni esportati, un settore che da solo vale il 40% del nostro Pil.

Questo però non vuol dire che si debba abbandonare il dialogo con gli Stati Uniti, su cui Tajani è chiaro: “Il Piano prevede la presenza dell’Italia nei mercati in crescita, è una grande opportunità a tutela delle imprese italiane e delle loro esportazioni che rappresentano il 40% del nostro Pil”. Tuttavia “sarebbe un errore non parlare con gli Stati Uniti”, su cui rimane il grosso punto interrogativo dei dazi, minacciati ma non ancora ufficializzati. Gli Usa in fondo valgono il 10% del nostro commercio estero, il ministro vuole quindi evitare una escalation commerciale: “La guerra dei dazi non conviene a nessuno, né a noi né agli Stati Uniti”. E ancora: “L’Europa deve fare tutto ciò che è in suo potere per facilitare il colloquio con gli Usa, dividersi sarebbe esiziale per l’Occidente”. Per questo si congratula col commissario UE al Commercio, Marcos Sefcovic, per la linea della prudenza assunta negli ultimi giorni nei confronti di Washington: “Ieri ho avuto un lungo colloquio con lui, saggiamente ha deciso di rinviare di due settimane eventuali contromisure. Questo ci consente di proseguire un dialogo con gli Usa. A livello diplomatico faremo tutto ciò che è possibile”. Di contro, la Farnesina vede Oltreoceano anche la possibilità di rafforzare il nostro export: “Investire di più e importare di più dagli Usa – sostiene Tajani – può rappresentare uno scudo efficace per continuare a esportare verso un mercato che oggi vede l’Italia in posizione vantaggiosa nella bilancia commerciale”. Al tempo stesso Tajani ha annunciato anche una riforma del proprio dicastero che presenterà prossimamente nel Consiglio dei ministri: “Una struttura a due teste, una politica e una economica, dedicate alla crescita”. E dunque alle esportazioni.

Meloni: “Per difesa no chiusura su prestiti ma valutiamo. Ventotene? Sconvolta dalla sinistra”

Dopo il primo giorno di Consiglio europeo, Giorgia Meloni rivendica già due vittorie dell’Italia: la neutralità tecnologica inserita nelle capitolo industria delle conclusioni (“una lunga battaglia italiana”) e, nella competitività, il riferimento alla proposta italiana legata ad InvestEU per il piano della difesa, per aggiungere un’iniziativa che possa mettere garanzie europee sugli investimenti privati. Non è una “chiusura totale” sui prestiti, assicura la premier, ma una scelta da valutare.

Meloni ricorda che l’Unione europea non ha una competenza esclusiva sulla difesa, quindi la materia è in capo agli Stati nazionali. Quello che l’Ue può fare è mettere a disposizione un ventaglio di strumenti, poi saranno i Paesi membri a valutare se e quali di questi strumenti utilizzare: “Alcuni dettagli sono ancora in discussione e finché non abbiamo chiarezza non capiamo neanche l’impatto che hanno”, spiega. Di sicuro, la difesa è una materia da rafforzare, in Italia come in Europa, per la presidente del Consiglio, per “contare di più”: “Il punto è che se chiedi a qualcun altro di difenderti poi rischi anche che sia qualcun altro a decidere per te e io credo che l’Italia debba decidere per se stessa e credo che anche l’Europa, quando ritiene, debba decidere e questo passa anche dalla sicurezza”, insiste.

“Lucida” per Meloni la scelta dell’Unione di rinviare di qualche giorno la reazione sui dazi di Trump. Se ne occuperà personalmente, tornando alla Casa Bianca, fa sapere, anche se non comunica una data. La premier richiama ancora una volta alla “prudenza” nella risposta, e cita le preoccupazioni di Christine Lagarde: i dazi producono una spinta inflattiva che può portare all’aumento dei tassi della Banca centrale europea, se aumentano i tassi la crescita si comprime. “Lagarde ha dato un dato che secondo me è molto interessante – ricorda -. Parlava di una stima di possibile contrazione della crescita in Europa con i dazi dello 0,3%, che arriverebbero 0,5% se noi rispondessimo. E quindi si conferma che dobbiamo fare attenzione al tipo di risposta da dare”.

“Sconvolta” si dice invece dalla bagarre in Aula alla Camera sul manifesto di Ventotene. La prima ministra considera quella delle opposizioni una reazione “totalmente spropositata”. Continua a dissociarsi dai passaggi del documento di Spinelli e Rossi, quando “sostengono che il popolo non è in grado di autodeterminarsi e che quindi va educato e non ascoltato”. Un’analisi “purtroppo abbastanza strutturata nella sinistra anche di oggi e ne abbiamo avuti moltissimi esempi”, chiosa, citando alcuni editoriali di Eugenio Scalfari, dove “spiegava che l’unica forma di democrazia è l’oligarchia”. E’ un concetto che non condivide, ribadisce. Ma accusa: “Sono arrivati sotto i banchi del governo con insulti e ingiurie”. La sinistra “sta perdendo il senso della misura, penso che stia uscendo fuori un’anima illiberale e nostalgica”, l’affondo. Poi rivendica: “Io non ho difficoltà a confrontarmi con le idee degli altri, ma sono molto convinta delle mie e penso che questa sia la base della democrazia e quindi il problema ce l’hanno altri”.

Meloni: L’Europa di Ventotene non è la mia. E’ bufera alla Camera

Non so se questa è la vostra Europa ma certamente non è la mia”. Alla fine del suo intervento alla Camera, in una mattinata piuttosto tesa, Giorgia Meloni legge alcuni passaggi del manifesto di Ventotene, ne prende le distanze e nell’Aula si scatena l’inferno. Le opposizioni fischiano, urlano “vergogna”, i banchi diventano ring, a destra si applaude, a sinistra si grida. La seduta viene sospesa due volte.

Le frasi del testo scritto nel 1941 da Altiero Spinelli e Ernesto Rossi richiamano a una rivoluzione europea “socialista“, in cui “la proprietà privata deve essere abolita, limitata, corretta, estesa caso per caso”. Ogni frase scandita tra sguardi e pause. “Nelle epoche rivoluzionarie, in cui le istituzioni non debbono già essere amministrate, ma create, la prassi democratica fallisce clamorosamente – prosegue la premier leggendo il testo -. Nel momento in cui occorre la massima decisione e audacia, i democratici si sentono smarriti, non avendo dietro di sé uno spontaneo consenso popolare, ma solo un torbido tumultuare di passioni”. Tra gli scranni risuona l’ira delle opposizioni, Meloni si interrompe, il presidente della Camera Lorenzo Fontana richiama all’ordine, tutto viene spostato di qualche ora, al primo pomeriggio, per rimettere in ordine le idee e il bon ton istituzionale.

E comunque, prima della bufera, in sede di replica, la premier accarezza già l’argomento dell’Europa, che deve occuparsi di “meno cose” e “meglio”. Meloni si prepara al Consiglio europeo di domani bollando come un errore la “pretesa” di affidare a Bruxelles “qualsiasi materia di riferimento”, comprese quelle sulle quali gli stati nazionali sarebbero un valore aggiunto. La prima ministra cerca una via d’uscita per rispondere ai dazi di Donald Trump senza apparire debole o suddita di certe dinamiche.

Ma se, a cascata, l’ombrello della difesa degli Stati Uniti dovesse chiudersi definitivamente per il Vecchio Continente, non ci troverebbe ancora pronti. Per questo, l’invito è quello di riflettere su una risposta che non danneggi noi, prima che gli americani. “Non c’è dubbio che per noi siano un problema”, ribadisce. L’Italia è una nazione esportatrice, la quarta al mondo. Al momento, c’è un surplus commerciale nei confronti degli Stati Uniti nei beni e gli Stati Uniti hanno nei nostri confronti un surplus commerciale nei servizi. Potrebbe essere una carta da giocare per cercare una soluzione che eviti una guerra commerciale.

Sulla difesa, il punto è capire come pagare gli 800 miliardi per il Piano proposto da Ursula von der Leyen. L’Italia ha chiesto e ottenuto lo scorporo delle spese della difesa dal calcolo del patto di stabilità. Ma Meloni va oltre e domanda l’intervento dei privati. “Non possiamo non porre il problema che l’intero piano si basa quasi completamente sul debito nazionale degli Stati”, chiosa in Aula. E’ la ragione per la quale con il ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti sta elaborando una proposta che ricalca quello che accade attualmente con InvestEU: “garanzie europee per gli investimenti privati”.

I fondi di Coesione, in Italia, non saranno toccati, garantisce. Resta da chiarire cosa si intenda per spese di difesa. Per questo il governo ha posto la questione: “Io penso che Rearm Europe confonda i cittadini”, sottolinea. La maggioranza sull’investimento nelle armi è spaccata. Oggi da Bruxelles lo stesso Matteo Salvini lancia un avvertimento chiaro alla premier: “Giorgia Meloni ha mandato per difendere l’interesse nazionale italiano, punto. Non penso che quello di cui sta parlando qualcuno a Bruxelles corrisponda all’interesse nazionale italiano, e neanche all’interesse dei cittadini europei”, mette in chiaro. Ma la presidente del Consiglio allarga il perimetro del dominio della sicurezza, “molto più ampio del banale acquisto di armi”, spiega. “Nel tempo in cui viviamo – ripete – riguarda le materie prime critiche, riguarda le infrastrutture strategiche, riguarda la cyber sicurezza, riguarda la difesa dei confini, riguarda la lotta ai trafficanti, riguarda la lotta al terrorismo, sono spesso materie che non si fanno, che non si affrontano comprando armi. Quando mi occupo di cyber sicurezza non lo faccio con le armi, lo faccio per esempio con l’intelligenza artificiale”.

Boom acquisti sull’oro in Cina e Usa: prezzo supera 3.000 dlr/oncia, nuovo record

Il 15 agosto 1971, una domenica, l’allora presidente americano Richard Nixon decise di rompere il regime aureo che legava in maniera fissa il cambio tra dollaro e oro a 35 biglietti verdi per oncia. Questo perché la guerra in Vietnam aveva aumentato la necessità di spesa pubblica, ma il famoso gold standard frenava la possibilità di fare debito su debito. Nixon spezzò le ‘catene’ che bloccavano gli Usa, e in seguito tutti gli Stati mondiali, dallo spendere denaro pubblico. Ebbene, quasi 54 anni dopo la materia prima più preziosa al mondo è salita, nei confronti della divisa statunitense, dell’8.470%. O, per dirla al contrario, il biglietto verde si è deprezzato di quasi il 100%. L’oro ha infatti superato per la prima volta la mitica soglia dei 3mila dollari l’oncia, 98 euro al grammo: nuovo record assoluto.

Alla base dell’ennesimo rialzo, circa +14% da inizio anno, le ormai tradizionali tensioni commerciali e l’aria di guerra sui dazi che stiamo iniziando a toccare con mano. Ieri, il presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha minacciato di imporre una tariffa del 200% su vino, champagne e altre bevande alcoliche provenienti dalla Francia e Italia in primis. Ciò è seguito alle immediate ritorsioni da parte dell’Ue e del Canada dopo che la Casa Bianca ha implementato tariffe del 25% sulle importazioni di acciaio e alluminio all’inizio di questa settimana.

L’incertezza spinge dunque verso una ricerca della sicurezza. Una necessità non certo nuova. La domanda totale di oro è aumentata dell’1% annuo nel quarto trimestre 2024, raggiungendo un nuovo massimo trimestrale e contribuendo a un totale annuo record di 4.974 tonnellate, rileva il Wordl Gold Council. E dietro gli acquisti non ci sono gli speculatori ma le banche centrali che hanno continuato ad accumulare oro a un ritmo impressionante: gli acquisti hanno superato le 1.000 tonnellate per il terzo anno consecutivo, con una forte accelerazione nel quarto trimestre, fino a raggiungere le 333 tonnellate. Gli investimenti annuali hanno raggiunto il massimo quadriennale di 1.180 tonnellate (+25%).

Non comprano però solo le banche centrali: la domanda di lingotti e monete per l’intero anno è stata in linea con quella del 2023, attestandosi a 1.186 t. La composizione è cambiata con l’aumento degli investimenti in lingotti e la riduzione degli acquisti di monete. Anche la domanda annuale di tecnologia ha contribuito al totale globale: è cresciuta di 21 tonnellate (+7%) nel 2024, trainata in gran parte dalla continua crescita nell’adozione dell’intelligenza artificiale. I gioielli in oro sono stati invece un’eccezione: il consumo annuale è sceso dell’11% a 1.877 t, poiché i consumatori potevano permettersi di acquistare solo quantità inferiori. Tuttavia, la spesa per i gioielli in oro è balzata del 9% a 144 miliardi di dollari.

Nel 2025 hanno ripreso a comprare forte anche gli operatori finanziari privati. “Gli Etf cinesi sull’oro hanno assistito al loro afflusso mensile più forte mai registrato, aggiungendo 14 miliardi di Rmb (1,9 miliardi di dollari) a febbraio e portando il totale delle attività in gestione (Aum) a 89 miliardi di Rmb (12 miliardi di dollari). Le partecipazioni sono aumentate di 21 tonnellate a 131 tonnellata e sia le masse di oro che le partecipazioni hanno raggiunto picchi di fine mese“. Inoltre “la People’s Bank of China (PBoC) ha continuato ad annunciare acquisti di oro nel mese, aggiungendo 5 tonnellate alle sue riserve auree. Quattro acquisti mensili consecutivi hanno spinto le riserve auree della Cina a 2.290t, il 5,9% del totale”, si legge in un commento pubblicato dal World Gold Council. Febbre dell’oro anche negli Usa. Secondo il Gold Return Attribution Model, “la debolezza del dollaro durante il mese è stata uno dei principali fattori trainanti della performance dell’oro, insieme a un aumento del rischio geopolitico e a un calo dei tassi di interesse. E mentre la forte performance dei prezzi dell’oro a gennaio ha creato un piccolo freno, è stata controbilanciata dal supporto positivo dei flussi di flight-to-quality. Ciò è stato meglio illustrato dall’attività degli ETF sull’oro, che ha visto massicci afflussi netti di 9,4 miliardi di dollari (100 t), il mese più forte da marzo 2022, guidati da fondi quotati negli Stati Uniti e in Asia”, sottolinea un’altra analisi del World Gold Council.

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Trump minaccia l’Europa: “Dazi del 200% su alcolici e vino”. Ue: “Al via negoziati”

“Siamo stati derubati per anni e ora smetteremo di esserlo. No, non mi piegherò affatto, né sull’alluminio, né sull’acciaio, né sulle auto”. E, forse, nemmeno sul vino e sui superalcolici europei. Il presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, annuncia che sui dazi non farà marcia indietro e torna a minacciare il Vecchio Continente, all’indomani dell’entrata in vigore delle imposte del 25% su acciaio e alluminio, a cui l’Ue ha risposto con ulteriori tasse su alcuni prodotti statunitensi. Insomma, giorno dopo giorno l’asticella è sempre più alta.

L’ultima minaccia, in ordine di tempo, è relativa a una tariffa del 200% “su tutti i vini, champagne, e prodotti alcolici in produzione in Francia e in altri Paesi dell’Ue”, ha annunciato Trump. La ‘colpa’ dell’Europa – “una delle autorità fiscali e tariffarie più ostili e abusive al mondo” – è quella di aver introdotto una tassa “sgradevole” del 50% sul whisky Usa. Un’imposta che, “se non verrà rimossa immediatamente” farà scattare la rappresaglia statunitense.

“Non cederemo alle minacce e proteggeremo sempre le nostre industrie”, ha affermato il ministro del Commercio estero francese, Laurent Saint-Martin, deplorando la “prepotenza” di Trump nella “guerra commerciale che ha scelto di scatenare”.

E da Città del Capo, in Sudafrica, dove si trova in visita istituzionale, è arrivata la replica della presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen. “Non ci piacciono i dazi – ha detto – perché pensiamo che siano tasse e che siano un male per gli affari e per i consumatori. Abbiamo sempre detto che allo stesso tempo difenderemo i nostri interessi, lo abbiamo stabilito e dimostrato. Ma allo stesso tempo voglio anche sottolineare che siamo aperti ai negoziati”. Venerdì, infatti, il commissario per il Commercio, Maroš Šefčovič, “avrà una telefonata” con la sua controparte negli Stati Uniti “esattamente su questo tema”.

Intanto, lato italiano, una delegazione tecnica, in stretto collegamento con la Commissione europea, è al lavoro a Washington sul tema dei dazi. Il 21 marzo, ha ricordato il vicepremier Antonio Tajani “presenteremo a Roma le idee del governo per sostenere le imprese sul piano del commercio internazionale, visto che siamo la quarta potenza commerciale mondiale”. Per tutte le associazioni di categoria, i dazi al 200% su vino e alcolici metterebbero a rischio un export del settore pari a quasi 2 miliardi – circa 4,9 miliardi in Europa – ma l’invito è alla prudenza. Confagricoltura auspica che la mossa di Trump sia “una provocazione”, mentre per Cia-Agricoltori Italiani si rischia “un salto nel buio”.

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Dazi, allarme agricoltori italiani: A rischio l’export di pecorino, vino e sidro mele

Allarme rosso per alcuni dei prodotti made in Italy più esportati negli Stati Uniti. Vino, pecorino e persino il sidro di mele sono a rischio dal 2 aprile nella guerra commerciale che potrebbe aprirsi in concomitanza coi dazi annunciati dal presidente statunitense, Donald Trump. Lo stesso vale per le regioni, con Sardegna e Toscana particolarmente esposte a perdite milionarie con le nuove tariffe a stelle e strisce. Ad analizzare la situazione è uno studio presentato oggi da Cia-Agricoltori Italiani in occasione della decima Conferenza economica della confederazione a Roma.

Il rischio, avvertono gli agricoltori, potrebbe essere enorme. L’export agroalimentare negli Usa è cresciuto infatti del 158% in dieci anni e oggi gli Stati Uniti rappresentano il secondo mercato di riferimento mondiale per cibo e vino Made in Italy, con 7,8 miliardi di euro messi a segno nel 2024. “Serve un’azione diplomatica forte per trovare una soluzione e non compromettere i traguardi raggiunti finora”, chiede il presidente nazionale Cia, Cristiano Fini, che auspica un ruolo dell’Italia da capofila in Europa per aprire un negoziato con Trump.

Secondo Fini, infatti, l’Italia “ha più da perdere di altri”. Gli Usa in effetti valgono quasi il 12% di tutto il nostro export agroalimentare globale, su cui siamo primi in Europa con un divario molto ampio su Germania (2,5%), Spagna (4,7%) e Francia (6,7%). Tra i prodotti tricolore che trovano negli Usa il principale sbocco, in termini di incidenza percentuale sulle vendite oltrefrontiera, al primo posto si colloca il sidro, una nicchia di eccellenza che destina il 72% del suo export al mercato americano (per un valore di circa 109 milioni di euro nel 2024), seguito dal Pecorino Romano (prodotto al 90% in Sardegna), il cui export negli Usa vale il 57% di quello complessivo (quasi 151 milioni di euro).

Discorso a parte sul vino italiano, per il quale gli Usa sono la prima piazza mondiale con circa 1,9 miliardi di euro fatturati nel 2024, ma con ‘esposizioni’ più forti di altre a seconda delle bottiglie. A dipendere maggiormente dagli Usa per il proprio export sono infatti i vini bianchi Dop del Trentino-Alto Adige e Friuli-Venezia Giulia, con una quota del 48% e un valore esportato di 138 milioni di euro nel 2024; i vini rossi toscani Dop (40%, 290 milioni), i vini rossi piemontesi Dop (31%, 121 milioni) e il Prosecco Dop (27%, 491 milioni). Grandi numeri che i dazi possono scombinare, lasciando strada libera ai competitor di aggredire una fetta di mercato molto appetibile: dal Malbec argentino, allo Shiraz australiano, fino al Merlot cileno.

Dai dati Cia emerge infine che la regione più esposta sarà la Sardegna (dove si produce oltre il 90% del Pecorino Romano Dop) il cui export agroalimentare finisce per il 49% negli Stati Uniti (e, giocoforza, ci finisce anche il 74% dell’export dei prodotti lattiero-caseari isolani). Al secondo posto per maggior “esposizione” negli Usa figura la Toscana (28% del proprio export agroalimentare, con l’olio in pole position con il 42% e i vini con il 33% delle relative esportazioni). Ma negli Stati Uniti finisce anche il 58% dell’export di olio del Lazio, così come il 28% delle esportazioni di pasta e prodotti da forno abruzzesi e il 26% di quelle di vini campani.

La battaglia passa dunque per l’Europa. Il ministro dell’Agricoltura, della sovranità alimentare e delle foreste, Francesco Lollobrigida, invitato alla Conferenza, ammette la necessità di riportare l’agricoltura al centro del dibattito. “A Bruxelles col tempo – dice – si sono persi i contenuti dei Trattati di Roma. Un articolo era dedicato all’agricoltura come settore strategico europeo. Era al centro delle dinamiche che hanno portato a comporre l’Unione”. Il discorso viene amplificato dal fatto che qui si parla di agricoltura italiana, su cui il ministro ricorda i recenti dati Istat: “Numeri positivi che trainano il Pil italiano, +2% rispetto alla media dello 0,7%”. Secondo Lollobrigida, “il valore aggiunto dell’agricoltura italiana è tornata al primo posto in Europa, superando Francia e Germania”. Quindi si può sperare di influire sulle scelte future. La politica agricola, assicura il vicepresidente esecutivo della Commissione Europea, Raffaele Fitto, “è una priorità della nostra Commissione ed è al centro delle nostre scelte strategiche. Col commissario Cristophe Hansen abbiamo presentato la nostra visione per il futuro, ora c’è una road map chiara e strutturata” che investirà su competitività e sviluppo delle aree rurali. Punta sull’agricoltura anche il ministro del Lavoro e delle politiche sociali, Marina Elvira Calderone: “Si confermi come pilastro per difendere occupazione e coesione sociale”. “Nel mondo c’è una forte voglia di prodotti made in Italy – assicura infine Matteo Zoppas, presidente ICE – ve lo posso confermare anche dalla mia due giorni di incontri in Giappone per FoodEx, la principale fiera dell’agroalimentare nell’area Asia-Pacifico, dove l’Italia è il paese più rappresentato”.

L’Ue risponde agli Usa: dazi sui prodotti per 26 miliardi. Trump: “Vinceremo noi”

Bruxelles risponde di primo mattino a Washington. Nel giorno di entrata in vigore dei dazi Usa del 25% su acciaio e alluminio, la presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, annuncia “misure pesanti ma proporzionate”. Da oggi rientrano non solo in vigore le tariffe imposte dalla prima amministrazione Trump nel 2018, su diversi tipi di prodotti semilavorati e finiti, come tubi in acciaio, filo metallico e fogli di stagno, ma anche su altri prodotti derivati come articoli per la casa, pentole o infissi e diversi macchinari, alcuni elettrodomestici o mobili. Interesseranno un totale di 26 miliardi di euro delle esportazioni europee, circa il 5% del totale dell’export Ue negli Usa.

La Commissione Ue, intanto, calcola che gli importatori americani pagheranno fino a 6 miliardi di euro la mossa di Trump. E per fonti Ue, i dazi Usa “non sono intelligenti” perché “danneggeranno davvero la loro economia”.

Due gli elementi di risposta, duque: la reimposizione delle misure di riequilibrio del 2018 e del 2020 – che erano state sospese fino al 31 marzo prossimo e che ora rientreranno automaticamente in vigore dal primo aprile – e un nuovo pacchetto di misure aggiuntive che colpiranno circa 18 miliardi di euro di beni e che saranno poi applicate con le misure reimposte dal 2018. Per il ministro delle Imprese e del Made in Italy, Adolfo Urso, però, “non basta difendersi sul piano commerciale, occorre una nuova politica industriale che restituisca competitività alle nostre imprese. Occorre agire, non solo reagire”. Per definire i prodotti del nuovo pacchetto, la Commissione ha avviato oggi le consultazioni di due settimane con le parti interessate dell’Ue.

Si mira a beni industriali e agricoli: da quelli in acciaio e alluminio ai tessili, dalla pelletteria agli elettrodomestici, dagli utensili per la casa alle materie plastiche e i prodotti in legno; dal pollame al manzo, da alcuni frutti di mare alle noci, dalle uova ai latticini, dallo zucchero alle verdure. Come spiegato da fonti Ue, la Commissione sta “cercando di colpire gli Stati Uniti in settori importanti per loro – ma che non costeranno tanto all’Ue” – e in particolare i beni rilevanti per gli Stati a maggioranza repubblicana. I Paesi Ue saranno invitati, poi, ad approvare le misure proposte prima della loro adozione e partenza previste per metà aprile. Ma se Bruxelles, da un lato, restituisce il favore all’alleato d’oltreoceano, allo stesso tempo prova a tenere aperto il dialogo. Precisa che “le misure possono essere revocate in ogni momento qualora si trovi una soluzione” e von der Leyen conferma al commissario europeo per il Commercio, Maros Sefcovic, l’incarico di “riprendere i colloqui” e aggiunge: “Rimarremo sempre aperti al negoziato”. Stesso messaggio del presidente del Consiglio europeo, Antonio Costa, secondo cui si deve “evitare un’escalation” e la situazione richiede “dialogo e negoziazione“. Non la pensa allo stesso modo Washington, secondo cui l’Ue è “fuori contatto con la realtà” e le sue “azioni punitive non tengono conto degli imperativi di sicurezza nazionale degli Stati Uniti e internazionale”. Non solo. In un incontro con il premier irlandese, Micheal Martin, Donald Trump dichiara: “Vinceremo noi questa battaglia finanziaria”. Lo scorso 10 febbraio, Washington aveva annunciato l’aumento dei dazi sulle importazioni di acciaio, alluminio e prodotti derivati dall’Ue. Da quel giorno, è partito il dialogo tra le due parti che ha visto anche Sefcovic volare negli Usa per provare a “evitare il dolore inutile” della guerra commerciale. Ma, proprio lunedì scorso, Sefcovic aveva annunciato che l’amministrazione Usa “non sembra impegnata a trovare un accordo” con l’Ue.