Top Jobs Ue, intesa su von der Leyen e Costa. Fitto chiede un ruolo di primo piano per l’Italia

I rumors che arrivano da Bruxelles, da quei palazzi di mattoni e vetro, sono forti e chiari. Anche se sono ancora rumors. Perché, a quanto si apprende, i sei negoziatori dell’Ue che stanno trattando i posti di vertice dell’Ue hanno trovato un accordo per sostenere Ursula von der Leyen alla guida della Commissione europea, il portoghese Antonio Costa al Consiglio europeo e l’estone Kaja Kallas come Alto rappresentante per la Politica estera e di sicurezza dell’Ue. Domande: sarà così? Andrà davvero così? Lo scopriremo a breve.

I sei negoziatori sono il primo ministro greco Kyriakos Mitsotakis e il primo ministro polacco Donald Tusk (per il Partito popolare europeo), il primo ministro spagnolo Pedro Sanchez e il cancelliere tedesco Olaf Scholz (per i socialisti), il presidente francese Emmanuel Macron e il primo ministro olandese Mark Rutte. (per i liberali).

Il prossimo appuntamento è fissato per giovedì e venerdì a Bruxelles, al Consiglio europeo, dove i tre nomi saranno presentati ai Ventisette capi di Stato e di governo per la loro approvazione. In queste ore la situazione potrebbe cambiare ma non stravolgersi, anche se il ministro Raffaele Fitto ha ribadito qual è la posizione italiana. “Il prossimo vertice dei capi di Stato e di governo sarà un’occasione molto importante per discutere dei nuovi assetti istituzionali dell’Unione europea e l’Italia intende esercitare in questa discussione un ruolo di primo piano, adeguato al suo status di Paese fondatore”, ha detto il ministro per gli Affari europei, il Sud, le Politiche di coesione e il Pnrr, dopo aver partecipato, a Lussemburgo, al Consiglio Affari generali dell’Ue. “Abbiamo discusso soprattutto della preparazione del prossimo Consiglio europeo del 27 e 28 giugno”, ha spiegato. “Quello delle nomine non è l’unico tema rilevante dell’agenda del Consiglio europeo”, ha proseguito Fitto. “Per noi è molto importante che dal vertice esca un messaggio chiaro su temi cruciali come la competitività dell’economia europea, la difesa, la migrazione e l’Agenda strategica oltre, ovviamente, ai temi di politica estera come l’Ucraina ed il Medio Oriente sui quali si sono registrati molti progressi grazie al recente Vertice del G7 presieduto dal presidente Meloni”.

Più o meno è la stessa linea tenuta ieri da Antonio Tajani. Il vicepremier e ministro degli Esteri ha parlato “come minimo” per l’Italia della vicepresidenza della Commissione e un commissario “di peso”. Tajani ha infatti rivendicato un peso importante per il nostro Paese: “Credo che l’Italia non possa non avere un vice presidente della Commissione europea e non possa non avere un commissario con un portafoglio di peso. Credo che questo sia il minimo che possiamo chiedere e pretendere”. Anche perché, è il ragionamento, l’Italia “ha il diritto di avere un riconoscimento di alto livello”, visto che è “un Paese fondatore” e ha “una manifattura” al secondo posto in Europa. Una convinzione tale che ha portato Tajani a sbilanciarsi persino sul nome: Fitto. “Sarebbe un eccellente commissario, perché ha conoscenza, esperienza”, anche se “non c’è nessuna decisione. Sarà il presidente del Consiglio a dire l’ultima parola dopo aver ascoltato la maggioranza e dopo aver valutato con il governo il da farsi”.

Europa, il tema della leadership deciderà il nostro destino

Nel maggio del 1953 uno studente americano in visita in Inghilterra chiese a Churchill quale fosse il modo migliore per arrivare ad essere buoni leader. “Studi la storia, studi la storia” gli raccomandò lo statista “nella storia sono racchiusi tutti i segreti dell’arte di governo”.

Ma giustamente Henry Kissinger nel suo magnifico libro ‘Leadership’, edito nel 2021 quando aveva 98 anni (!), afferma che la conoscenza della storia, ancorché essenziale, non basta. Alcune questioni restano sempre “velate nella nebbia” e risultano impervie e difficili anche per gli esperti.

La storia infatti ci consente di confrontare per analogia situazioni tra loro simili. Ma l’analogia deve essere usata con cautela perché nessuno può rivivere il passato: il passato si può soltanto rievocare. Ogni situazione è in qualche modo unica nelle sue caratteristiche, per la semplice ragione che contiene elementi specifici che nessuna generalizzazione può afferrare.

La leadership è esattamente la capacità di dominare queste irriducibili novità della storia e le loro complessità. È possedere “l’impulso e l’istinto, la capacità di capire uomini e situazioni”, come scriveva all’inizio del secolo scorso il grande filosofo della storia Oswald Spengler.

La situazione che oggi vive l’Europa è del tutto inedita nella sua complessità, nel suo declino demografico, economico e industriale, nelle minacce alla sua sicurezza, nelle incertezze sul futuro.

Dopo la seconda guerra mondiale che aveva devastato il continente e dopo la liberazione dal nazifascismo, grazie soprattutto al sacrificio di giovani americani morti a migliaia di chilometri da casa per salvare l’Europa (solo nello sbarco in Normandia ne morirono 26.000), il nostro continente, grazie all’aiuto e alla protezione militare degli Usa, ha vissuto una stagione straordinaria di pace e di prosperità. Non era più al culmine della propria influenza globale come all’inizio del ’900, ma l’economia e la popolazione nel secondo dopo guerra sono tornate a crescere a un ritmo mai visto prima, l’industrializzazione, e un sempre più fiorente libero scambio, poi esploso negli anni della globalizzazione, hanno portato un benessere senza precedenti sorretto da un welfare sociale mai conosciuto nella storia del mondo.

Dopo secoli di guerre fratricide, le istituzioni democratiche dalla Gran Bretagna e dalla Francia si sono a poco a poco estese alle altre nazioni del continente, e finalmente si è dato vita al sogno della cooperazione europea, prima con la Ceca (Comunità del Carbone e dell’Acciaio) e l’Euratom (l’ente per l’energia nucleare) poi con il Mec (Mercato Comune Europeo) e infine con il trattato di Maastricht del 1992 che ha sancito la nascita dell’Unione Europea, suggellata qualche anno dopo dal traguardo della moneta comune.

Poi, all’inizio del nuovo millennio, si affaccia un cambiamento epocale che non è stato compreso dai più.

Il mondo si allarga e vi è una velocità di crescita di nuovi attori (innanzitutto, ma non solo, la Cina) che l’ideologia globalista e mercatista, imperante in occidente in quegli anni ed in auge anche presso le classi dirigenti europee, vede solo come grande opportunità di nuovi grandi mercati da scalare per le nostre merci e per le nostre industrie, senza intravvederne il rovescio della medaglia: una potenziale grande minaccia proprio per le nostre merci e per le nostre industrie.

All’origine dell’incapacità di comprendere il cambiamento c’è anche un’illusione culturale, e cioè che la crescita, il benessere e la pace che gli europei sono riusciti a costruire (anche, lo si vuole ripetere, grazie alla protezione militare statunitense) dovessero durare all’infinito.

La caduta dell’impero sovietico e la corsa verso l’Europa dei Paesi dell’Est europeo oppressi per decenni dalle diverse dittature comuniste agli ordini di Mosca convinsero tutti della superiorità del nostro modello.

In questo modo ci si è dimenticati della fatica della storia: solo diritti e non più doveri, la scomparsa del bisogno come prima molla dello sviluppo, un sentimento sempre più antindustriale guidato da un’ideologia estremista ambientalista dietro la quale si sono celate spesso spinte e tendenze anticapitaliste e anti-impresa, la grave sottovalutazione delle sofferenze e delle paure generate, soprattutto nelle classi meno abbienti e più indifese, dagli eccessi di una globalizzazione non governata e dai flussi migratori imponenti dal sud del mondo.

E ci si è pure dimenticati che la libertà non è garantita per sempre e che bisogna prepararsi a difenderla anche con la forza delle armi se necessario.

L’invasione russa dell’Ucraina, una guerra di trincea alle porte dell’Europa che si protrae da più di due anni con centinaia di migliaia di morti, che ha colpito un Paese libero che si deve disperatamente difendere, ha stracciato le nostre certezze e ha visto lo sbandamento delle opinioni pubbliche europee, dividendole tra quelle più vicine e spaventate dal neoimperialismo russo e le altre, che forse si credono più lontane e meno a rischio e che non sono sempre capaci di distinguere l’aggredito dall’aggressore.

Oggi noi europei paghiamo l’incapacità di comprendere la realtà e i suoi radicali cambiamenti; paghiamo la nostra presunzione e la sottovalutazione delle nostre debolezze; e paghiamo l’atteggiamento di chi per troppo tempo si è considerato il primo della classe.

Si dice che il castigo per l’ambizione e la presunzione eccessive, quelle che i greci chiamavano hybris, sia lo sfinimento, mentre il prezzo da pagare per aver riposato sugli allori sia la progressiva perdita di importanza e, infine, il declino.

Nicolò Machiavelli nei suoi ‘Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio’ sostiene che l’indebolimento della leadership è spesso legato all’apatia sociale provocata da lunghe fasi di tranquillità. Quando le società hanno la fortuna di vivere lunghi periodi di pace indulgono a una lenta ma progressiva corruzione dei costumi e ciò provoca la disattenzione e la presunzione di cui si è detto.

Al contrario la capacità di comprendere la situazione e di inquadrare una strategia per gestire il presente e plasmare il futuro, l’abilità di condurre la società verso obiettivi elevati costituiscono l’essenza stessa della leadership politica.

C’è qualcuno che ha il coraggio di fare un’analisi della realtà e di dichiarare in che condizioni siamo messi? C’è qualcuno che ha il coraggio di dire che l’Europa ha di fronte a sé una battaglia esistenziale?

Emmanuel Macron nel suo discorso alla Sorbona ha ricordato che l’Europa “è mortale”. Qualche giorno dopo il cancelliere Scholz ha detto cose simili. Non sembra che il ragionamento sia piaciuto né ai cittadini francesi né a quelli tedeschi, almeno a giudicare dall’esito delle urne. Eppure.

E sempre sul tema della leadership, esistono ancora leader capaci di una vera visione politica di lungo termine? È ancora possibile oggi in Occidente un’autentica leadership con il carattere, l’intelletto e l’audacia necessari per affrontare le sfide che attendono l’ordine mondiale?

Kissinger conclude il suo saggio affermando: “La fiducia nel futuro è indispensabile. Nessuna società può rimanere grande se perde la fiducia o se sistematicamente mette in dubbio la percezione che ha di sé. Ciò richiede ai governanti la disponibilità ad ampliare la propria sfera di interesse alla società in generale e a evocare la generosità del senso civico, che ispira servizio e sacrifici.”

Prezioso insegnamento per un’Europa che deve ritrovare la sua via.

Green Deal tra (belle) promesse elettorali e (brusca) realtà

Ce l’hanno tutti con ‘questo’ green deal, pur ammettendo che la decarbonizzazione è un passaggio ineludibile per il futuro. E per il presente. Ce l’hanno tutti con le politiche verdi “ideologiche e antindustriali” portate avanti dall’Europa negli ultimi anni – alcune però votate dagli europarlamentari italiani in scadenza di mandato: conviene ricordarlo, non sia mai… – dagli inquilini di Bruxelles e Strasburgo. Ce l’hanno così tutti che tutti, ma proprio tutti, pubblicizzano (sotto elezioni) la necessità di un cambiamento nel segno del buonsenso e della fattibilità. Ecco, i candidati alle elezioni dell’8e 9 giugno in questo sembrano davvero compatti, allineati e abbastanza coperti. A destra e a sinistra, come al centro. Bisogna fare qualcosa per il clima, giusto, però non come è stato fatto fino adesso.

E allora la domanda che sorge spontanea è questa: come, allora? Perché se è facile e anche giusto mettere in evidenza cosa non ha funzionato nel Green Deal pensato da Ursula von der Leyen e da Frans Timmermans (ei fu), è più difficile ma indispensabile indicare quali sono le altre vie per raggiungere quei target considerati obbligatori dagli esperti. E qui, però, la situazione si fa più complicata, dal momento che alle intenzioni vanno poi applicate le azioni. E, insomma, la messa a terra di cosa viene promesso appare abbastanza nebulosa. Ad esempio, il claim di trasformare il Green Deal in un Good Deal è a presa rapida come la colla, ma in concreto cosa significa? Spesso ci siamo sentiti raccontare che non è questione di norme ma di tempi nell’applicazione delle stesse. Sintetizzando, l’idea è buona o quasi però la fretta rende tutto irrealizzabile. Lo stop ai motori endotermici? Non dal 2035 ma più avanti. Le case green? Non a emissioni zero dal 2030 o dal 2033 (a seconda delle classi di appartenenza) ma con più calma. E gli imballaggi? E la nuova Pac? E il Nutriscore?

Riflessioni che si accompagnano, anzi si dilatano con il megafono degli industriali, preoccupati che la Nuova Europa non attui politiche adeguate di sostegno per le imprese e che in tema di Green Deal non venga creato un fondo per la transizione, anche digitale. Il riferimento è sempre a due colossi, gli Stati Uniti e la Cina, che dispongono di risorse enormi, sicuramente superiori a quelle della Ue e che poco alla volta stanno esercitando una pressione che nel medio termine rischia di diventare insostenibile. Anche perché certe sensibilità né Usa né Cina le hanno, in considerazione che l’Europa produce l’8 per cento del gas serra mondiale.

Quindi, è semplicissimo: più soldi, tanti più soldi, più tempo, molto più tempo. Questo almeno in campagna elettorale…

Rigassificatore

INFOGRAFICA INTERATTIVA Stoccaggio gas, Italia sale a 72,84% e media Ue a 68,46%

Nell’infografica interattiva di GEA viene mostrato l’aggiornamento degli stoccaggi di gas nei Paesi dell’Ue. Secondo la piattaforma Gie Agsi-Aggregated Gas Storage Inventory (aggiornata al 25 maggio), l’Italia cresce ancora e si attesta a 72,84%, mentre la media Ue sale a 68,46%. Agli ultimi posti Lettonia e Croazia, mentre in testa rimane il Portogallo, in aumento a 96,26%.

L’Europa, Gentiloni e quell’algoritmo che moltiplica lo stupore

Racconta Paolo Gentiloni, commissario all’Economia, in una intervista pubblicata nel libro di Paolo Valentino ‘Nelle vene di Bruxelles. Storie e segreti della capitale d’Europa’, che il Pnrr è stato deciso da un algoritmo. Dice, Gentiloni, che “emettere debito comune per 800 miliardi senza dedicare un euro a progetti comuni è stata un’occasione persa. Tutti questi soldi sono stati dati in base a un algoritmo ai vari Paesi, mentre è chiaro che i finanziamenti comuni europei dovrebbero innanzitutto andare a progetti comuni”.

Quindi, liofilizzando il concetto, mentre tutti si immaginavano discussioni fiume, brainstorming, politici ad arrovellarsi con la calcolatrice alla mano, financo liti per accaparrarsi qualche euro in più nel nobile proposito di rimettere in bolla economie squassate dalla pandemia, il cittadino comune, il signor Brambilla o la casalinga di Voghera, scoprono che a determinare la portata dei sussidi europei, cioè la spartizione del Next generation Eu, è stata un macchina pilotata da un algoritmo. Gli stessi algoritmi che, ad esempio, determinano l’oscillazione folle dei prezzi dei biglietti aerei: l’algoritmo fiuta le vacanze di Pasqua, i ponti, il Ferragosto e, zac!, raddoppia o triplica il prezzo di un passaggio aereo.

Con il Pnrr è andata pressappoco così e, onestamente, scoprirlo da un’intervista del commissario all’Economia pubblicata in un libro dedicato all’Europa non è una grande spinta per andare a votare l’8 e 9 giugno, insomma una fiammata per riscaldare un’elezione che stimola la fantasia degli italiani quanto la visione della corazzata Potemkin del regista Sergej Michajlovič Ėjzenštejn. Eppure Giuseppe Conte, persino Mario Draghi e da un anno e mezzo la premier Giorgia Meloni sono passati da quella via stretta che è l’euroalgoritmo. Ora: siccome Gentiloni, sempre nella stessa intervista, sostiene che non esista altra strada rispetto al “debito comune per finanziare i beni comuni europei” e che non significa “prolungare l’attuale Next Generation Eu, ma usare lo stesso metodo”, è lecito immaginarsi che la prossima procedura di assegnazione dei fondi Ue avvenga sempre interrogando l’algoritmo di cui sopra.

Il messaggio da inviare in bottiglia a chi tra qualche settimane dovrà/dovrebbe recarsi alle urne invece è assai diverso. E’ importante votare per l’Europa perché l’Europa determinerà la politica e quindi le strategie italiane fino al 2029. Nessuno può fare a meno dell’Europa, anche se ‘questa’ Europa probabilmente andrà rimodellata alla luce di nuovi scenari geopolitici ed economici. Magari senza algoritmi…

L’Europa che sarà: sempre più verde, sempre meno ideologizzata

Nell’approssimarsi delle elezioni europee – è iniziato il count down dell’ultimo mese – con i nostri GeaTalk stiamo sondando programmi e intenzioni dei candidati dei vari partiti per coglierne gli aspetti meno esposti e più nascosti. Ora: da destra e da sinistra (e ovviamente dal centro) sta emergendo la necessità di ridisegnare l’Europa. Non che ‘questa’ sia stata completamente un flop, tenuto conto della pandemia e di due guerre, ma ‘quella che verrà’ dovrà essere innestata su presupposti diversi, in linea con gli avvenimenti e con i cambiamenti degli ultimi anni. In tutto e su tutto, è dirimente un approccio differente al Green Deal, che Forza Italia – e per estensione del concetto il Ppe – intende riformulare in Good Deal.

La ricetta? Pressoché la stessa. Partendo dalla premessa che il processo di decarbonizzazione non può arrestarsi e che il futuro deve essere necessariamente più green, la grande sfida che tutti si pongono è quella di una transizione per gradi, non a tappe forzate, ovvero di una politica verde che sappia mettere insieme la cura del Pianeta e la cura dei conti. La sostenibilità, in fondo, deve avere tre accezioni: ambientale, economica e sociale. Trovare il mondo di armonizzare queste tre esigenze è quanto mai complicato, rifuggere dalle ideologie e dagli estremismi un esercizio di tale buonsenso da risultare quasi banale. Eppure è ciò che emerge dai nostri confronti, il punto di caduta di ragionamenti che si basano sulle esperienze passate (da non ripetere) e target futuri da raggiungere.

Avanti con le rinnovabili, stop alle fonti fossili, si alla riduzioni delle plastiche, si ad un’agricoltura più sana, stop all’uso indiscriminato di fitofarmaci, poi il nucleare che torna a fare capolino, poi l’esigenza di avere il supporto dei capitali privati per finanziare la transizione… Da destra e da sinistra, e ovviamente dal centro, la linea è tracciata. La sfida delle sfide e capire se, a elezioni concluse, a Parlamento nominato, a Commissioni composte, tutto quanto è stato detto e promesso verrà messo a terra.

Xi Jinping incontra Blinken a Pechino: “Usa e Cina dovrebbero essere partner, non rivali”

Photo credit: Afp

 

Un confronto “approfondito e costruttivo“. Il segretario di Stato Usa, Antony Blinken, definisce così il faccia a faccia avuto a Pechino con il presidente cinese, Xi Jinping. Il capo della diplomazia di Washington vede il suo omologo, Wang Yi, col quale si trattiene per circa cinque ore e mezza.

Secondo quanto riferiscono i media statali Xi ha detto a Blinken che di sperare che “anche gli Stati Uniti possano avere una visione positiva dello sviluppo della Cina”, aggiungendo che “quando questo problema fondamentale sarà risolto le relazioni potranno veramente stabilizzarsi, migliorare e progredire”. Ma è anche un altro il punto focale del colloquio, che dovrebbe suonare quasi come un campanello d’allarme per l’Europa. Perché il presidente cinese ha detto all’esponente dell’Amministrazione Usa che Pechino e Washingtondovrebbero essere partner, non rivali“. Precisando, però, che “molti problemi devono ancora essere risolti e ulteriori sforzi sono ancora possibili“.

Se così fosse, soprattutto sul mercato delle materie prime critiche e dei semiconduttori, le aziende del Vecchio continente potrebbero avere notevoli problemi di competitività, in una fase storica in cui la rivalità Usa-Cina sta già creando diversi problemi.

Ho proposto tre principi fondamentali: il rispetto reciproco, la coesistenza pacifica e la cooperazione win-win”, ha aggiunto Xi Jinping. Ribadendo che “la Terra è abbastanza grande perché sia la Cina che gli Stati Uniti possano svilupparsi e prosperare“.

Da parte sua, il segretario di Stato americano ha dichiarato di aver espresso le sue preoccupazioni alla Cina per il suo sostegno alla Russia, affermando che l’invasione dell’Ucraina sarebbe stata “più difficile” senza l’appoggio di Pechino. Blinken ha inoltre messo in guardia la Cina dalle sue “azioni pericolose” nel Mar Cinese Meridionale: “Ho chiarito che i nostri impegni per la difesa delle Filippine rimangono incrollabili”.

Per quanto riguarda il Medio Oriente, invece, “le relazioni della Cina possono essere positive nel cercare di allentare le tensioni, prevenire l’escalation ed evitare la diffusione del conflitto”, ha detto il capo della diplomazia Usa, riferendosi all’influenza di Pechino sull’Iran. L’incontro è stato anche l’occasione per programmare “discussioni bilaterali iniziali nelle prossime settimane” sul tema dell’intelligenza artificiale e per chiedere ancora una volta a Pechino “misure aggiuntive” per contenere il traffico di fentanyl, una droga che sta creando scompiglio negli Stati Uniti.

Durante l’incontro con il suo omologo, poi, il ministro degli Esteri cinese Wang Yi ha avvertito Blinken che le molteplici pressioni americane sulla Cina potrebbero portare a un “deterioramento” dei legami tra i due Paesi. Sottolineando, inoltre, che la questione di Taiwan, isola di 23 milioni di abitanti rivendicata da Pechino e sostenuta militarmente da Washington, è la “prima linea rossa da non oltrepassare nelle relazioni sino-americane.

La Cina critica gli Stati Uniti anche per le molteplici pressioni sul Mar Cinese Meridionale, su Taiwan, sul commercio e sulle relazioni con la Russia, intensificatesi dopo l’invasione dell’Ucraina nel febbraio 2022. Pechino è in collera pure per le restrizioni statunitensi alle esportazioni in Cina di tecnologie avanzate, tra cui i semiconduttori. Un’altra fonte di attrito – più recente, però – è legata al social network TikTok, che rischia di essere bandito negli Stati Uniti se non taglia i suoi legami con la società madre cinese ByteDance. Washington sospetta che l’applicazione venga utilizzata per spiare gli americani, raccogliere informazioni personali e servire la propaganda cinese, mentre TikTok nega categoricamente e respinge le accuse.

Nonostante le tensioni, le relazioni tra le due potenze hanno comunque “iniziato a stabilizzarsi” dopo il vertice Xi-Biden di novembre, ha spiegato Wang Yi, mettendo in guardia sulla persistenza di “elementi negativi”. Perché “i legittimi diritti di sviluppo della Cina sono stati indebitamente oppressi e i nostri interessi fondamentali sono stati messi in discussione”, ha sottolineato riferendosi alle restrizioni statunitensi nel settore tecnologico. Da parte sua, Blinken, come riferisce il portavoce del Dipartimento di Stato americano, Matthew Miller, ha comunicato al ministro cinese le sue preoccupazioni per il presunto sostegno della Cina “alla base industriale russa della difesa”. Sebbene le aziende cinesi non forniscano armi direttamente alla Russia, Washington le accusa di fornire alla Russia attrezzature e tecnologie a doppio uso che facilitano i suoi sforzi di riarmo.

Gli Stati Uniti e la Cina devono essere il più possibile “chiari nelle aree in cui abbiamo delle differenze, almeno per evitare malintesi e errori di calcolo”, ha dichiarato il segretario di Stato Usa. Il viaggio di Blinken in Cina è, però, il segno di una relativa diminuzione degli attriti tra Pechino e Washington, che si erano acuiti durante gli anni dell’Amministrazione Trump. Biden promette ancora una volta di adottare una linea dura nei confronti della Cina se vincerà le elezioni presidenziali di novembre. Pur cercando una maggiore stabilità tra le due maggiori economie del mondo, il presidente degli Stati Uniti vuole comunque mantenere alta la pressione sul gigante asiatico.

Il miracolo dell’industria manifatturiera italiana

Molti di noi pensano che l’industria e la sua capacità competitiva non siano state, negli ultimi anni, al centro dell’agenda europea.

L’attenzione è stata rivolta in maniera retorica e astratta alle due transizioni, quella energetica e quella digitale. Molta ideologia (soprattutto sul lato della riduzione delle emissioni di CO2) e poca pratica, ipertrofia regolatoria, indicazioni di obiettivi spesso irraggiungibili. Finalmente ci si è accorti che per ottenere i target fissati per la transizione energetica occorre un’enorme quantità di denaro che nessuno sa dove prendere. Finalmente ci si è accorti che l’industria europea ha un grave gap di competitività rispetto a quelle delle altre importanti aree economiche mondiali e Von der Leyen ha chiamato Draghi per affrontare il problema.

L’Europa è dinanzi al suo declino, demografico, economico, di innovazione e competitivo, in una situazione geopolitica estremamente difficile in cui ingenti risorse in futuro dovranno essere spese per la sicurezza e sottratte ad altri scopi.

La sfida è epocale e vedremo se gli europei sapranno fronteggiarla o se la traiettoria regressiva sarà ineluttabile.

Bisogna in questo contesto convincere l’Europa che l’industria e le imprese sono il principale strumento a disposizione per vincere questa deriva declinante perché sono il principale attore della crescita economica, dell’innovazione, dell’inclusione sociale e sono le uniche che possono trasformare gli slogan della decarbonizzazione in fatti concreti.

L’esempio dell’industria manifatturiera italiana è sotto gli occhi di tutti. La sua eccellenza e la sua performance sono il più grande contributo che l’Italia può dare ad un’Europa più forte e più competitiva.

La manifattura italiana nel 2023, già anno di rallentamento economico rispetto a quelli precedenti, ha fatto segnare risultati da record: 1.200 miliardi di euro di fatturato e 600 di export, la metà esatta del fatturato. Secondo le prime stime del Wto saremmo nel 2023 addirittura a 677 miliardi di esportazioni: una dimensione straordinaria, frutto di vantaggio competitivo puro, perché le svalutazioni della lira che aiutavano di tanto le nostre esportazioni non esistono più. Abbiamo superato per export la Corea del Sud e ci avviciniamo al Giappone e siamo ormai il quinto Paese esportatore del mondo.

Questa performance è il frutto di uno straordinario sistema industriale che non ha eguali al mondo e che in molti, dall’estero, ci ammirano e studiano. La specificità di questo sistema consiste nella sua estrema diversificazione, nell’articolazione dimensionale in cui, in filiere integrate, convivono piccole, medie e grandi aziende, in un capitalismo familiare esteso e leale nei confronti delle aziende, in un inestricabile intreccio tra imprese e territorio che fa di molti distretti industriali creature collettive volte alla ricerca, all’innovazione e allo sviluppo.

Farmaceutico, moda, meccanica, legno arredo, food e packaging sono i settori trainanti di questa performance. Nel 2022 il nostro export farmaceutico ha superato i 50 miliardi di dollari ed è quello cresciuto di più tra i grandi paesi produttori del mondo (+39%). Sempre nel 2022 il comparto moda ha esportato per 70 miliardi di euro, quello del legno-arredo per 20 miliardi di euro, quello dell’alimentare e del food per 60 miliardi di euro. Nel 2023 tutti questi settori sono ulteriormente cresciuti.

Numeri, si diceva, frutto di vantaggio competitivo puro e della creatività e dell’intensità produttiva delle nostre imprese; ma anche del grande successo del Piano Industria 4.0, grazie al quale le fabbriche italiane hanno investito massicciamente in macchinari, in  nuove tecnologie, nell’innovazione di processo e di prodotto. Ciò che colpisce è che l’innovazione non si è limitata al perimetro delle fabbriche ma si è allargata a clienti e fornitori, attraverso piattaforme digitali e logistiche sempre più efficienti. Tale efficienza nelle supply chain ha consentito al nostro sistema industriale di reagire meglio di altri alla pandemia, dimostrando che l’eccellenza del sistema industriale è anche un ingrediente fondamentale della sicurezza nazionale.

L’industria manifatturiera italiana è un gigante economico, l’asset più importante che l’Italia può mettere sul tavolo del confronto internazionale, ma non ha il peso “politico” che meriterebbe nella determinazione delle scelte a livello europeo e nazionale.

Il compito di Confindustria dovrebbe essere quello di dare voce, narrazione e visione coordinata a questa realtà. Il tema è comprendere che la partita è soprattutto, ma non solo, europea.

Tutti i settori manifatturieri italiani soffrono di politiche europee che sembrano dettate da un’ossessione mercatista volta a favorire i Paesi importatori e senza industria, concentrata solo sui diritti dei consumatori e non su quelli delle industrie e dei produttori, dimenticando che senza imprese e senza produttori anche i consumatori spariscono e vengono travolti dalla miseria.

Innumerevoli sono gli esempi che si possono fare su norme e regolamenti europei che ostacolano lo sviluppo e la crescita dell’industria manifatturiera: dai tempi estremamente più lunghi in Europa rispetto agli USA per le procedure antidumping, ai tempi al contrario più brevi in Europa rispetto agli USA sui brevetti farmaceutici (patent) con la conseguente più difficile finanziabilità della ricerca e sviluppo; dall’eccesso di normative ambientaliste sull’uso di materiali che danneggiano il comparto tessile e dell’abbigliamento e il legno arredo all’ossessione salutista e di imposizione su ciò che si può mangiare e bere e su cosa no, che paradossalmente mette nell’angolo vino e olio italiani ma consente cibi molto meno genuini; dalle norme, fortunatamente mitigate da una battaglia campale italiana, che  rischiano di distruggere la nostra industria del riciclo e del packaging, per finire con l’indifferenza  totale rispetto ai difficilissimi processi di transizione degli Hard to Abate.

C’è una comunanza di questioni di fondo che vanno affrontate in maniera coordinata, c’è la necessità di mettere a fattor comune informazioni e dati, di irrobustire la capacità di fronteggiare a Bruxelles il percorso legislativo, accompagnandolo con intensità e competenza fin dalla sua formazione; quando la norma è in bozza è già tardi, i giochi sono fatti.

C’è una necessità assoluta di dare una leadership manifatturiera all’industria italiana.

C’è in generale bisogno di cambiare la narrazione. Le imprese sono la soluzione del problema, non il problema. L’industria deve tornare al centro dell’agenda della Commissione Europea e delle politiche del Governo italiano perché senza industria l’Europa è finita, non solo economicamente, ma anche nelle sue istituzioni democratiche e sociali.

Clima, l’Europa deve fare di più per evitare conseguenze catastrofiche

L’Europa deve fare di più per il clima per evitare conseguenze catastrofiche. E’ l’avvertimento lanciato dall’Agenzia Europea dell’Ambiente (Aea), secondo la quale l’Europa potrebbe trovarsi di fronte a situazioni “catastrofiche” se non prenderà le misure dei rischi climatici che deve affrontare, molti dei quali hanno già raggiunto un livello critico. “Il caldo estremo, la siccità, gli incendi boschivi e le inondazioni che abbiamo sperimentato negli ultimi anni in Europa peggioreranno, anche in scenari ottimistici di riscaldamento globale, e influenzeranno le condizioni di vita in tutto il continente“, ha scritto l’agenzia in un comunicato di presentazione del suo primo rapporto sulla valutazione dei rischi climatici in Europa. “Questi eventi rappresentano la nuova normalità“, ha insistito il direttore dell’Aea Leena Ylä-Mononen durante un incontro con la stampa. “Dovrebbero anche essere un campanello d’allarme“.

Lo studio elenca 36 grandi rischi climatici per l’Europa. Di questi, 21 richiedono un’azione più immediata e otto una risposta di emergenza. Tra questi, i principali sono i rischi per gli ecosistemi, soprattutto marini e costieri. Ad esempio, gli effetti combinati delle ondate di calore marine, dell’acidificazione e dell’esaurimento dell’ossigeno nei mari e di altri fattori antropici (inquinamento, pesca, ecc.) stanno minacciando il funzionamento degli ecosistemi marini, si legge nel rapporto. “Il risultato può essere una perdita sostanziale di biodiversità, compresi eventi di mortalità di massa“, aggiunge il rapporto.

Per l’Aea, la priorità è che i governi e le popolazioni europee riconoscano unanimemente i rischi e decidano di fare di più e più rapidamente. “Dobbiamo fare di più e avere politiche più forti“, ha insistito Ylä-Mononen. Tuttavia, l’agenzia ha riconosciuto i “notevoli progressi” compiuti “nella comprensione dei rischi climatici (…) e nella preparazione ad essi“. Per l’Aea, le aree più a rischio sono l’Europa meridionale (incendi, scarsità d’acqua e relativi effetti sulla produzione agricola, impatto del caldo sul lavoro all’aperto e sulla salute) e le regioni costiere a bassa quota (inondazioni, erosione, intrusione di acqua salata). L’Europa settentrionale non è comunque risparmiata, come dimostrano le recenti inondazioni in Germania e gli incendi boschivi in Svezia.

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Confindustria, quattro candidati uniti sull’Europa e divisi sull’energia

Ora che sono stati svelati i programmi dei quattro candidati alla presidenza di Confindustria, a prescindere dall’esito delle elezioni del 4 aprile, affiorano alcune considerazioni. La prima, e tracimante, è che tutti – cioè Garrone, Gozzi, Orsini e Marenghi – vedono ‘ questa’ Europa inadatta a coniugare le esigenze della transizione ecologica con le necessità concrete dell’industria. Un fronte compatto, insomma. Per chiarirci, è l’Europa di Ursula von der Leyen (che però si ripropone per la presidenza della Commissione) e dell’ex vicepresidente Frans Timmermans, l’Europa delle auto elettriche e delle case green, degli imballaggi e dei pesticidi. Insomma, quell’Europa intransigente e irrealistica che ha rischiato di implodere e che non se la passa benissimo. Tutto giusto, ma come fare? Perché sarebbe illegittimo trascurare un dettaglio non proprio marginale legato a chi vincerà le elezioni, a quale maggioranza avrà il Parlamento, a che tipo di deriva prenderà la Commissione. Incidere a livello decisionale può diventare un esercizio facile o complicato, dipende dagli interlocutori…

Antonio Gozzi – gran capo di Duferco e presidente di Federacciai – ha frequentato Bruxelles per molti anni, conosce vantaggi, svantaggi e dinamiche spesso non lineari; ma anche gli altri hanno ‘saggiato’ cosa significhi confrontarsi con realtà profondamente diverse da quella italiana, in cui ogni Paese tira l’acqua al proprio mulino. E di mulini ce ne sono 27… Non si può fare a meno della Ue, ci mancherebbe, ma si devono gettare basi diverse per la gestione all’interno e all’esterno della stessa. Le strade per riuscirci, secondo i confindustriali, sono quelle del dialogo sotto traccia non dello scontro. Con una postilla: Cina, Usa, Russia e India non stanno a guardare come le stelle di Cronin. E l’Europa è già in ritardo.

La seconda considerazione riguarda l’industria – nello specifico il fattore energetico – e fa emergere una scomposizione ideologica frutto di una visione strategica differente e di tornaconti spiccioli, anche se va detto che l’obiettivo della decarbonizzazione è il fil rouge capace di legare ragionamenti opposti. Il gas fino a un anno fa metteva paura, adesso il prezzo è sotto controllo anche grazie alle temperature miti e agli stoccaggi. C’è chi ne vorrebbe congelare il prezzo per allinearsi al trend di alcuni Stati membri (la Germania), in maniera da consolidare la competitività industriale, c’è chi invita a battere strade alternative. Garrone, che ha dato vita alla trasformazione di Erg da raffineria a società dedita alla produzione di energia elettrica da fonti pulite, spinge per le rinnovabili, altri per il nucleare. Di sole e vento non si può campare, il nucleare rimane una soluzione non immediata, resta sempre il gas…