Il 15 aprile Giornata nazionale del Made in Italy. Urso: “Celebriamo l’eccellenza Italiana”

Il 15 aprile di ogni anno sarà celebrata la Giornata Nazionale del Made in Italy. Scelta per l’anniversario della nascita di Leonardo da Vinci, sarà arricchita con circa “300 iniziative su tutto il territorio nazionale che mirano a ispirare e coinvolgere i nostri giovani, le imprese e i lavoratori ma soprattutto per accendere i fari su quello che è l’eccellenza italiana. Il Made in Italy non è un modello di produzione ma uno stile di vita“, spiega il ministro delle Imprese e del Made in Italy, Adolfo Urso, durante la presentazione che si è svolta in mattinata a Palazzo Piacentini, assieme alla direttrice Generale di Altagamma, Stefania Lazzaroni, al segretario generale del Comitato Leonardo, Massimo Mamberti, al presidente della Commissione per le attività di formazione della Federazione Cavalieri del Lavoro, Luigi Abete, e al presidente della Lega Serie A, Lorenzo Casini.

Istituita con la legge quadro del dicembre scorso, la Giornata ha un mood ben preciso. “Identità, innovazione, istruzione, internazionalizzazione. È l’Italia delle 4 I che sta dietro alla filosofia di questa Giornata nazionale – aggiunge il responsabile del Mimit -. Il provvedimento è stato introdotto per valorizzare, promuovere e tutelare le produzioni delle filiere nazionali, riconoscendone l’impatto sociale. Oltre a favorire lo sviluppo economico e culturale del Paese, il Made in Italy ne rappresenta il patrimonio identitario perché non è soltanto un marchio, ma il nostro biglietto da visita nel mondo. La Giornata Nazionale, che verrà celebrata annualmente nel giorno della nascita di Leonardo Da Vinci, considerato il più grande genio della storia, è il frutto del Sistema Italia: la somma di tante realtà che compongono la nostra penisola“. Anche il logo richiama il genio italiano, con la scelta dell’uomo vitruviano di Leonardo. Il marchio è stato realizzato in collaborazione con i grafici dell’Agenzia Commercio Estero, con l’autorizzazione del ministero della Cultura, e accompagnerà tutte le iniziative dedicate alle celebrazioni.

La Giornata nazionale del Made in Italy vedrà in campo i massimi esponenti della creatività italiana, in diversi campi: dall’industria alla moda, all’arredo, l’alimentazione, la nautica, l’accoglienza e in generale le varie filiere simbolo del nostro Paese nel mondo. Non mancherà il coinvolgimento di aziende, associazioni di categoria, Camere di commercio, Unioncamere, Cna, Confcommercio, Anci, Comuni, Regioni, fondazioni, musei, scuole, università, Fondazione Leonardo, Lega Calcio, Guardia di Finanza, Confindustria, Fondazione dei Cavalieri del Lavoro, Rcs Sport e numerosi privati. Anche il ministero degli Esteri, in collaborazione con l’agenzia Ice, ha curato il coordinamento degli eventi organizzati all’estero, che vedono coinvolte oltre 50 sedi in tutto il mondo.

Le iniziative si svolgeranno in un arco temporale ben preciso, con un calendario messo a punto dagli uffici del Mimit, che hanno valutato le candidature arrivate fino allo scorso 20 marzo tramite il portale istituzionale. Sono circa 200 le proposte approvate, per un totale di 400 iniziative di rilievo culturale, sociale, scientifico, artistico, storico e sportivo. Il filo conduttore degli eventi e degli appuntamenti è quello di tramandare valori, abilità e capacità a quelli che saranno i futuri imprenditori del domani, sensibilizzando ancora una volta l’opinione pubblica sul valore delle opere dell’ingegno e dei prodotti italiani. Sarà un’occasione importante, soprattutto perché imprenditori e maestri artigiani apriranno le porte delle aziende e dei laboratori ai cittadini, coinvolgendo in particolare gli studenti di ogni ordine e grado, allo scopo di stimolare il loro interesse per lo studio e le future opportunità professionali legate al Made in Italy, rappresentato dal settore alimentare, della moda, del tessile, del legno, del design, dell’arredo, dell’alta gioielleria, della nautica, termale, del turismo, automotive, industriale e tecnologico.

Gli eventi, che coinvolgeranno anche musei, fondazioni e nei luoghi di produzione saranno in presenza, anche con attività pratiche, e online, con una comunicazione indirizzata al racconto di come le filiere italiane siano un veicolo fondamentale e imprescindibile per proteggere e sostenere il Made in Italy nel mondo. Palazzo Piacentini, sede del ministero, dal 15 al 28 aprile ospiterà la mostra realizzata da Fondazione Altagamma ‘Lo Specchio dell’Eccellenza Italiana-Viaggio nella manifattura di Altagamma’, che sarà accessibile al pubblico dal lunedì al venerdì dalle 17 alle 20 e il sabato e domenica dalle 10 alle 20. La lega di Serie A, invece, dedicherà la 32esima Giornata della Serie A Tim alla promozione del brand.

La Giornata Nazionale del made in italy è di particolare importanza per Altagamma, che insieme a Camera della Moda ne ha proposto l’istituzione al Mimit, “proprio per evidenziare la centralità di questo comparto per la nostra economia ma anche per il suo soft power”, spiega la direttrice generale di Altagamma, Stefania Lazzaroni, che ricorda come l’alto di gamma italiano sia la punta di diamante del Made in Italy: un’industria da 144 miliardi di euro, che fornisce un contributo al PIL del 7,4%, con una quota export di circa il 50% e quasi due milioni di occupati, diretti e indiretti, pari all’8,2% dell’occupazione italiana.
”E’ un comparto fondato sulla nostra competenza manifatturiera – spiega  – e per questo il taglio con cui la Fondazione ha deciso di celebrare la Giornata è incentrato sul tema del Saper Fare.
’Lo Specchio dell’Eccellenza Italiana’ è un mostra che racconta moda, design, alimentare, motori, nautica, ospitalità e gioielleria attraverso un duplice registro: da un lato, prodotti iconici che raccontano la maestria dei nostri settori d’eccellenza, dall’altro video immersivi che esplorano i segreti della nostra manifattura. Un caleidoscopio di suggestioni che celebra la cultura del Bello, Buono e Ben Fatto: riflesso del nostro patrimonio creativo che incanta il mondo con il suo stile di vita inconfondibile”.

Photo credit: Mimit

Il miracolo dell’industria manifatturiera italiana

Molti di noi pensano che l’industria e la sua capacità competitiva non siano state, negli ultimi anni, al centro dell’agenda europea.

L’attenzione è stata rivolta in maniera retorica e astratta alle due transizioni, quella energetica e quella digitale. Molta ideologia (soprattutto sul lato della riduzione delle emissioni di CO2) e poca pratica, ipertrofia regolatoria, indicazioni di obiettivi spesso irraggiungibili. Finalmente ci si è accorti che per ottenere i target fissati per la transizione energetica occorre un’enorme quantità di denaro che nessuno sa dove prendere. Finalmente ci si è accorti che l’industria europea ha un grave gap di competitività rispetto a quelle delle altre importanti aree economiche mondiali e Von der Leyen ha chiamato Draghi per affrontare il problema.

L’Europa è dinanzi al suo declino, demografico, economico, di innovazione e competitivo, in una situazione geopolitica estremamente difficile in cui ingenti risorse in futuro dovranno essere spese per la sicurezza e sottratte ad altri scopi.

La sfida è epocale e vedremo se gli europei sapranno fronteggiarla o se la traiettoria regressiva sarà ineluttabile.

Bisogna in questo contesto convincere l’Europa che l’industria e le imprese sono il principale strumento a disposizione per vincere questa deriva declinante perché sono il principale attore della crescita economica, dell’innovazione, dell’inclusione sociale e sono le uniche che possono trasformare gli slogan della decarbonizzazione in fatti concreti.

L’esempio dell’industria manifatturiera italiana è sotto gli occhi di tutti. La sua eccellenza e la sua performance sono il più grande contributo che l’Italia può dare ad un’Europa più forte e più competitiva.

La manifattura italiana nel 2023, già anno di rallentamento economico rispetto a quelli precedenti, ha fatto segnare risultati da record: 1.200 miliardi di euro di fatturato e 600 di export, la metà esatta del fatturato. Secondo le prime stime del Wto saremmo nel 2023 addirittura a 677 miliardi di esportazioni: una dimensione straordinaria, frutto di vantaggio competitivo puro, perché le svalutazioni della lira che aiutavano di tanto le nostre esportazioni non esistono più. Abbiamo superato per export la Corea del Sud e ci avviciniamo al Giappone e siamo ormai il quinto Paese esportatore del mondo.

Questa performance è il frutto di uno straordinario sistema industriale che non ha eguali al mondo e che in molti, dall’estero, ci ammirano e studiano. La specificità di questo sistema consiste nella sua estrema diversificazione, nell’articolazione dimensionale in cui, in filiere integrate, convivono piccole, medie e grandi aziende, in un capitalismo familiare esteso e leale nei confronti delle aziende, in un inestricabile intreccio tra imprese e territorio che fa di molti distretti industriali creature collettive volte alla ricerca, all’innovazione e allo sviluppo.

Farmaceutico, moda, meccanica, legno arredo, food e packaging sono i settori trainanti di questa performance. Nel 2022 il nostro export farmaceutico ha superato i 50 miliardi di dollari ed è quello cresciuto di più tra i grandi paesi produttori del mondo (+39%). Sempre nel 2022 il comparto moda ha esportato per 70 miliardi di euro, quello del legno-arredo per 20 miliardi di euro, quello dell’alimentare e del food per 60 miliardi di euro. Nel 2023 tutti questi settori sono ulteriormente cresciuti.

Numeri, si diceva, frutto di vantaggio competitivo puro e della creatività e dell’intensità produttiva delle nostre imprese; ma anche del grande successo del Piano Industria 4.0, grazie al quale le fabbriche italiane hanno investito massicciamente in macchinari, in  nuove tecnologie, nell’innovazione di processo e di prodotto. Ciò che colpisce è che l’innovazione non si è limitata al perimetro delle fabbriche ma si è allargata a clienti e fornitori, attraverso piattaforme digitali e logistiche sempre più efficienti. Tale efficienza nelle supply chain ha consentito al nostro sistema industriale di reagire meglio di altri alla pandemia, dimostrando che l’eccellenza del sistema industriale è anche un ingrediente fondamentale della sicurezza nazionale.

L’industria manifatturiera italiana è un gigante economico, l’asset più importante che l’Italia può mettere sul tavolo del confronto internazionale, ma non ha il peso “politico” che meriterebbe nella determinazione delle scelte a livello europeo e nazionale.

Il compito di Confindustria dovrebbe essere quello di dare voce, narrazione e visione coordinata a questa realtà. Il tema è comprendere che la partita è soprattutto, ma non solo, europea.

Tutti i settori manifatturieri italiani soffrono di politiche europee che sembrano dettate da un’ossessione mercatista volta a favorire i Paesi importatori e senza industria, concentrata solo sui diritti dei consumatori e non su quelli delle industrie e dei produttori, dimenticando che senza imprese e senza produttori anche i consumatori spariscono e vengono travolti dalla miseria.

Innumerevoli sono gli esempi che si possono fare su norme e regolamenti europei che ostacolano lo sviluppo e la crescita dell’industria manifatturiera: dai tempi estremamente più lunghi in Europa rispetto agli USA per le procedure antidumping, ai tempi al contrario più brevi in Europa rispetto agli USA sui brevetti farmaceutici (patent) con la conseguente più difficile finanziabilità della ricerca e sviluppo; dall’eccesso di normative ambientaliste sull’uso di materiali che danneggiano il comparto tessile e dell’abbigliamento e il legno arredo all’ossessione salutista e di imposizione su ciò che si può mangiare e bere e su cosa no, che paradossalmente mette nell’angolo vino e olio italiani ma consente cibi molto meno genuini; dalle norme, fortunatamente mitigate da una battaglia campale italiana, che  rischiano di distruggere la nostra industria del riciclo e del packaging, per finire con l’indifferenza  totale rispetto ai difficilissimi processi di transizione degli Hard to Abate.

C’è una comunanza di questioni di fondo che vanno affrontate in maniera coordinata, c’è la necessità di mettere a fattor comune informazioni e dati, di irrobustire la capacità di fronteggiare a Bruxelles il percorso legislativo, accompagnandolo con intensità e competenza fin dalla sua formazione; quando la norma è in bozza è già tardi, i giochi sono fatti.

C’è una necessità assoluta di dare una leadership manifatturiera all’industria italiana.

C’è in generale bisogno di cambiare la narrazione. Le imprese sono la soluzione del problema, non il problema. L’industria deve tornare al centro dell’agenda della Commissione Europea e delle politiche del Governo italiano perché senza industria l’Europa è finita, non solo economicamente, ma anche nelle sue istituzioni democratiche e sociali.

L’anno del Drago parte bene in Cina che diventa sempre più pericolosa

L’anno del Drago parte bene in Cina per l’industria. I dati di gennaio e febbraio, a cavallo del capodanno lunare, hanno superato le previsioni in diversi settori chiave, indicando una crescita superiore alle attese. Ad esempio, le vendite al dettaglio hanno registrato un +5,5%, oltre le stime, mentre la produzione industriale ha segnato un solido incremento del 7%, evidenziando una robusta attività manifatturiera. Allo stesso modo, gli investimenti in immobilizzazioni hanno superato le aspettative degli analisti, segnalando una fiducia nel mercato e un impegno nel lungo termine da parte delle imprese. Tuttavia, non tutto è stato positivo, poiché il settore immobiliare ha subito una flessione del 9% rispetto all’anno precedente, evidenziando ancora una volta il punto debole di Pechino.

Per quanto riguarda le nuove costruzioni residenziali in base alla superficie, la contrazione si è ampliata addirittura al -30,6% su base annua da inizio anno. E il valore di vendita degli immobili residenziali nuovi è calato del 32,7% su base annua da inizio anno. La pesantezza del mattone frena le potenzialità di crescita. Il portavoce dell’Ufficio nazionale di statistica, Liu Aihua, ha avvertito che la domanda interna rimane insufficiente, indicando che potrebbero essere necessarie ulteriori misure per stimolare la spesa dei consumatori e sostenere la crescita economica. Riparte comunque anche il turismo interno, che sembra aver registrato una crescita rispetto all’anno precedente e ai livelli pre-pandemici del 2019. Tuttavia, il capo economista cinese di Nomura ha osservato che nonostante questa crescita, la spesa turistica media per viaggio è ancora inferiore ai livelli pre-pandemici, indicando che potrebbero essere necessari ulteriori sforzi per stimolare completamente il settore turistico.

E’ l’industria dunque che tiene alta la bandiera cinese. Per settore, le principali aree di forza sono state individuate nella categoria “computer, comunicazioni e altre apparecchiature elettroniche”, che è cresciuta del 14,6% anno su anno. Anche la produzione di attrezzature per i trasporti ha registrato ottimi risultati, con un aumento dell’11%. Numeri che migliorano il commercio estero. Le esportazioni cinesi hanno sorpreso positivamente, registrando un +7,1% nei primi due mesi dell’anno, mentre le importazioni sono aumentate del 3,5%, superando entrambe le previsioni degli esperti. Questo potrebbe indicare una domanda estera robusta per il Made in China, il che potrebbe contribuire a sostenere ulteriormente la crescita del Paese nel corso dell’anno. Secondo i dati doganali, la Cina, il più grande importatore mondiale di Gnl, ha aumentato le sue importazioni di gas liquefatto del 19,3% nel periodo gennaio-febbraio rispetto allo stesso periodo dell’anno

G7, dominano intelligenza artificiale e sicurezza su chip. Urso: “Stop nuove dipendenze”

Dopo sette anni torna a riunirsi il G7 Industria, Tecnologia e Digitale 2024. E il primo vertice si è tenuto a Verona, città “dove lavoro e industria sono in sintonia con arte e cultura”, perno dei “valori della nostra civiltà”, spiega Adolfo Urso, ministro delle Imprese e del Made in Italy, che ha presieduto la riunione. La prima ‘ministeriale’ legata proprio alla presidenza di turno italiana del G7.

Foto di rito dentro l’Arena alle 8.30 e poi via ai lavori. Tre le sessioni di lavoro, ma anche numerosi bilaterali. Urso ha incontrato, nell’ordine, il viceministro giapponese degli Affari Interni e Comunicazione, Junji Hasegawa, per parlare dell’approccio antropocentrico all’Intelligenza Artificiale. Il ministro ha poi visto Jean Koh, presidente della Commissione coreana sulle Piattaforme Digitali, per “potenziare la nostra cooperazione nei campi della microelettronica e del quantum computing, per sostenere l’innovazione e la trasformazione digitale delle nostre imprese“. Con la vice premier ucraina e ministro dell’industria, Yulia Svyrydenko, l’esponente del governo italiano ha approfondito i contenuti e i prossimi sviluppi del progetto della piattaforma logistica intermodale di Horonda che mira a sostenere gli scambi commerciali da e verso l’Ucraina, annunciando “la comune volontà di procedere alla sottoscrizione di un memorandum, il prossimo 9 aprile a Trieste, nell’ambito di una riunione dei ministri dei Paesi del quadrante est europeo“. Nel bilaterale con la vicepresidente della Commissione Europea e Commissario Europeo per la Concorrenza, Margrethe Vestager, il ministro ha invece evidenziato come “i recenti conflitti ci hanno dimostrato che, oggi più che mai, il nostro continente deve raggiungere l’indipendenza strategica e a questo fine in ambito G7 collaboreremo sui semiconduttori con la Commissione, per salvaguardare la nostra economia e le nostre industrie“.

Le tre sessioni di lavoro sono partite con una novità. “Abbiamo aperto a una forma inedita, ovvero un confronto pragmatico con i rappresentanti dei portatori di interesse, ovvero i rappresentanti delle imprese dei nostri Paesi. E’ la prima volta che accade. Questo ci ha permesso di entrare subito in quelle che sono le tematiche principali di questo G7 – ha spiegato Urso – anche con altri rappresentanti di governo che hanno contribuito in maniera significativa alle nostre elaborazioni”. Elaborazioni che continueranno fino a ottobre, alla prossima ‘ministeriale’ industria-digitale, ma che oggi hanno già preso forma.

Nella prima sessione è emersa una piena convergenza dei Paesi del G7 sull’idea di favorire sempre più e di allineare sempre più le regole fra i nostri Paesi per favorire lo sviluppo dell’intelligenza artificiale, valorizzando i principi del ‘processo di Hiroshima’ e coinvolgendo di più le piccole e medie imprese anche per l’alfabetizzazione di massa delle nuove tecnologie e la formazione professionale dei nostri lavoratori. Abbiamo inoltre sottolineato come l’Ai possa essere fonte di crescita e opportunità dei nostri Paesi purché essa sia percepita come affidabile da imprese e cittadini“, ha sintetizzato nella conferenza stampa finale Urso. “Nella seconda sessione abbiamo convenuto che bisogna evitare nuove dipendenze, dopo quella energetica, che mettano a rischio le nostre catene del valore. Abbiamo già introdotto meccanismi di protezione e ne abbiamo proposti di altri. Creeremo un punto di contatto che lavorerà in maniera continuativa in questi mesi – ha proseguito il ministro – per elaborare una condotta comune sulla protezione degli investimenti soprattutto nella catena del valore dei semiconduttori, fondamentali per la transizione ecologia e digitale”. In questo senso il “garantire l’autonomia strategica parte dalle materie prime critiche, molte delle quali sono presenti nel nostro Paese. Un tema molto sfidante per i processi autorizzatori. Ne ho parlato nell’incontro con il ministro canadese Champagne, il cui paese è leader nell’estrazione mineraria. Alcune aziende stanno procedendo nella fase di esplorazione nel nostro Paese, che potrebbe garantire la nostra indipendenza energetica. La mappatura delle miniere risale a oltre 30 anni fa, ma la tecnologia fa enormi passi in avanti. C’è ora consapevolezza che quei prodotti e minerali preziosi possano essere individuati in aree che non erano prima mappate“.

Infine “nella terza sessione abbiamo individuato nella realizzazione di un hub dell’intelligenza artificiale per lo sviluppo sostenibile lo strumento per aiutare i Paesi in via di sviluppo. Un messaggio importante per il Sud del mondo, che parte dall’Italia, ovvero il ponte tra Europa e Africa, continente del futuro. Speriamo – ha sottolineato Urso – che questo progetto diventi una realtà attivata durante la successiva presidenza canadese“. Si è parlato comunque anche “di space economy in riferimento allo sviluppo sostenibile. Siamo leader mondiale nell’osservazione della Terra dallo spazio, fattore necessario proprio ad esempio nel contrasto alla desertificazione o nel miglioramento della produzione agricola, tutte attività fondamentali per l’Africa. Quindi dallo spazio si può meglio intervenire o prevenire gli eventi catastrofali, come è accaduto in Giappone…“, ha aggiunto Urso.

La curiosità però si è concentrata sull’investimento da 3,2 miliardi in Italia annunciato ieri a Verona dal Ceo della società di Singapore, Silicon Box. Un investimento che non nasce per caso, ha voluto sottolineare il ministro. “Nei mesi scorsi abbiamo presentato un dossier per progetti sulla micro-elettronica a numerosi Paesi, nello specifico in Corea del Sud, Taiwan, Singapore e Stati Uniti. Da questo è nato l’interesse e l’investimento della società di Singapore, Silicon Box. Abbiamo assistito il gruppo già nell’estate dello scorso anno. Loro hanno concentrato la loro attenzione in alcune regioni del Nord. Non sarà comunque l’unico investimento sulla micro-elettronica quest’anno. Ne seguiranno altri nei prossimi anni, anche più consistenti”.
Altro tema caldo, ovviamente, l’intelligenza artificiale. “Privilegiamo la collaborazione con Paesi con cui condividiamo valori. Noi abbiamo una visione antropocentrica dell’intelligenza artificiale, in cui l’uomo è al centro del processo produttivo, seguendo i valori della nostra civiltà”, ha precisato Urso, il quale ha ricordato che “Giorgia Meloni vuole portare avanti nelle prossime settimane un disegno di legge sull’intelligenza artificiale, che sarà accompagnato anche da investimenti finanziari. Mi riferisco al miliardo che sarà investito da Cdp per sviluppare la nuova tecnologia e per dare vita a un campione nazionale nell’Ai”.

La sicurezza sopra e sotto il mare: un progetto strategico per l’industria italiana

In una bella intervista al ‘Foglio’ (7/3/2024) Pierroberto Folgiero, Amministratore Delegato di Fincantieri, rilancia il tema della sicurezza nel Mediterraneo e spiega come sia vitale, per il nostro Paese, disporre di un apparato industriale e di tecnologie capaci di far giocare all’Italia un ruolo da protagonista in questa partita. Abbiamo più volte sostenuto su queste pagine che il baricentro dell’Unione Europea, storicamente determinato dal rapporto franco-tedesco, sia destinato a spostarsi verso sud, verso il Mediterraneo, area nella quale si registreranno in futuro i maggiori tassi di crescita e le maggiori potenzialità di sviluppo. Il Mediterraneo e l’area balcanica anche per questo sono tornati ad essere luoghi strategici per il confronto tra occidente e altre potenze regionali, con la delicatezza rappresentata dalle turbolenze in medio oriente, da un probabile futuro minor impegno degli USA in quest’area, da una sempre maggiore iniziativa turca, da una sempre maggiore presenza della marina militare russa (11 navi da guerra presenti in questo momento rispetto alle poche unità di qualche anno fa).

In questo contesto il ruolo dell’Italia, della sua economia, del suo apparato industriale saranno sempre più importanti. Per collocazione geografica, storia, cultura possiamo svolgere un ruolo fondamentale di ambasciatori e traduttori dei valori dell’occidente in questa area del mondo, e probabilmente siamo i soli a poterlo fare grazie alla tradizionale capacità di dialogo della nostra diplomazia e grazie alla nostra naturale empatia con quei popoli. Ma le ambizioni e le possibilità concrete di giocare questa partita si misurano innanzi tutto con la capacità di tutelare l’interesse nazionale ed europeo attraverso una rinnovata politica della sicurezza.

Folgiero chiarisce bene che la sicurezza non riguarda soltanto i traffici marittimi di superficie così importanti per un’economia manifatturiera come la nostra, ma anche tutto ciò che sta sotto la superficie del mare e sui fondali, in primis infrastrutture energetiche e cavi per la trasmissione dei dati. Si pensi che la nostra Marina Militare in questo momento ha molte unità impegnate nella sorveglianza e protezione di queste infrastrutture. Vi immaginate cosa succederebbe se un attentato come quello che ha gravemente danneggiato il gasdotto North Stream 2 colpisse il tubo del Trans Med (gasdotto Enrico Mattei) che porta in Italia il gas algerino oggi vitale per l’approvvigionamento energetico del Paese? O ancora se vi fossero danneggiamenti alle grandi dorsali dei cavi che portano dati, come è recentemente successo nel mar Rosso dove l’affondamento di una nave portacontainers inglese, causato da missili Houti, ha provocato una riduzione di oltre il 25% del traffico internet tra Asia e Europa? Il danneggiamento di cavi sottomarini, dai quali passa ormai la stragrande maggioranza dei dati globali, deriva da molte cause; le prevalenti, per ora, non sono quelle dovute al terrorismo ma quelle legate alla posa delle ancore delle navi e alla pesca a strascico.

L’underwater sarà in futuro il campo di sviluppo e innovazione tecnologica per le imprese italiane, all’interno delle quali Fincantieri è destinata a svolgere il ruolo di pivot candidandosi ad essere il campione nazionale della subacquea. Il colosso di Trieste ha la straordinaria opportunità e possibilità di estendere agli usi civili le soluzioni e le tecnologie sperimentate in ambito militare. Da questa ambizione e prospettiva nasce anche l’iniziativa del Ministero della Difesa di istituire a La Spezia il Polo Nazionale della subacquea. Si tratta di un’iniziativa strategica per l’Italia che vede la Liguria al centro, e che vede il rilancio delle attività di blue economy come uno degli assi portanti per il futuro della nostra regione.

In un mondo sempre più turbolento i temi della sicurezza strategica e della difesa, sul mare e sotto il mare, saranno al centro della scena. L’apparato industriale italiano fatto da grandi imprese a controllo pubblico (Fincantieri, Leonardo, Eni, Terna, Enel, Snam, Saipem ecc.) ma anche di moltissime imprese private di varie dimensioni impegnate nelle filiere e nell’indotto può dire la sua in maniera autorevole.

Occorre un grande disegno strategico e un’interlocuzione operativa su progetti e tecnologie che consentano all’industria italiana di cogliere questa grande opportunità di sviluppo e innovazione. Occorre costruire le occasioni e i luoghi perché ciò avvenga. Il lavoro è appena cominciato.

Ambiente, Preinvel: il filtro che con l’aria abbatte micropolveri industriali

Quando sarà superata l’urgenza sociale di mantenere viva la produzione dell’Ex Ilva, si riaprirà quella ambientale di abbassare drasticamente le emissioni. Una soluzione la propone la startup pugliese Preinvel, che ha brevettato un filtro in grado di eliminare le micro e nano polveri da combustioni e lavorazioni industriali.

Volevamo fare qualcosa di concreto, era giusto dare un nostro contributo perché nessuno potesse più essere vittima dell’inquinamento industriale, le cui prime vittime sono, purtroppo, le fasce più deboli della popolazione”, spiegano gli sviluppatori. Un’intuizione che punta a una transizione industriale pulita e scardina il mito dell’incompatibilità tra diritto alla salute e quello al lavoro. Il sistema di filtraggio fluidodinamico risolve in “maniera efficiente, efficace e totalmente ecocompatibile“, assicura Preinvel, il problema delle emissioni industriali inquinanti.

L’osservazione della natura e delle sue leggi ha permesso alla tecnologia di sfruttare il più efficiente, economico ed eco-compatibile dei sistemi filtranti: l’aria. Utilizzando il principio di Bernoulli, il filtro crea gradienti di pressione e definisce aree di alta depressione capaci di catturare in maniera definitiva tutte le micropolveri inferiori a 0.5 micron prodotte nelle lavorazioni industriali. In questo modo si annullano le emissioni nocive garantendo efficienze filtranti altissime, costanti nel tempo e assicurando costi di manutenzione vicini allo zero, data l’assenza di componenti che necessiterebbero di periodiche manutenzioni o sostituzioni per usura o saturazione.

L’invenzione ha recentemente vinto il premio miglior startup innovativa del PNICube e il grant di Camera di commercio di Milano Monza Brianza Lodi ‘Encubator‘. Ma ha anche vinto il primo premio dell’Apulian Sustainable Innovation Award 2021 ed è stata selezionata da Zero, l’Acceleratore di startup Cleantech della Rete Nazionale Acceleratori di Cdp, che promuove la crescita del Paese ha come Partner Eni, la holding LVenture Group e la cooperativa sociale Elis e come Sponsor la multiutility Acea, Vodafone, la multinazionale dei computer Microsoft e Maire Tecnimont, leader del comparto di impiantistica

Sostenibilità, il futuro industriale Ue tra acciaio pulito e idrogeno verde

Per raggiungere la neutralità bisogna investire e consentire la transizione, l’industria dell’acciaio può beneficiare di 700 milioni di euro per l’innovazione“. Il direttore generale di Dg Rtd (Research and Innovation) della Commissione Europea, Marc Lemaitre, mette in luce così il modo in cui l’industria siderurgica europea spingerà il futuro di lungo termine della sostenibilità ambientale di un settore da cui dipendono le ambizioni dell’Unione di arrivare a emissioni nette zero entro il 2050. All’evento ‘European Clean Steel: Stand up together for a future low emission industry’, organizzato a Venezia da Regione Veneto ed European Research Executive Agency (Rea), sono state tracciate le direttrici dello sviluppo sul campo dell’acciaio pulito, con l’alleato fondamentale dell’idrogeno verde, anche grazie alle priorità politiche e ai finanziamenti Ue.

Abbiamo una produzione di 150 milioni di tonnellate all’anno, più di 300 mila lavoratori specializzati impiegati e più di 2,5 milioni di lavoratori ne dipendono indirettamente”, ha esordito Lemaitre a proposito dei dati sull’industria siderurgica europea, ricordando che “questo settore deve essere decarbonizzato in un lasso di tempo ridotto, è arrivato il momento di agire e cambiarlo”. Proprio da Bruxelles può arrivare una spinta decisiva, considerato il fatto che “nel 2024 sono a disposizione 100 milioni di euro da Rfcs e 100 milioni da Horizon Europe”, contributi “fondamentali” per l’innovazione, che richiedono però “maggiore partecipazione attiva” nell’ambito del Fondo di ricerca carbone e acciaio (Rfcs).

Il 2024 “è un anno importante, con un bando che si chiude il 7 febbraio”, ha ricordato la direttrice dell’Agenzia esecutiva europea per la salute e il digitale (Hadea), Marina Zanchi, parlando dell’implementazione dei progetti di partnership sull’acciaio pulito, “uno strumento cruciale di collaborazione con le industrie”. L’Agenzia Ue sta finanziando 15 progetti per l’acciaio pulito in 3 aree principali: “Circolarità attraverso il miglioramento e la valorizzazione dei rottami, sviluppo e diffusione di tecnologie a bassa emissione di carbonio, e ottimizzazione del processo produttivo”, ha ricordato Zanchi. “I vecchi metodi di produzione non sono più in linea con le prospettive di un’Europa più verde” in termini di “efficienza, riduzione delle emissioni e creazione di un’economia competitiva”, le ha fatto eco il direttore dell’European Research Executive Agency (Rea), Marc Tachelet.

Al centro dell’interesse c’è in particolare l’idrogeno che, come assicurato dal direttore di Rea, “grazie al piano RePowerEu svolgerà ruolo fondamentale per la produzione pulita dell’acciaio”. Parole simili sono state scelte dal direttore generale Lemaitre: “L’idrogeno è un alleato cruciale per la produzione di acciaio pulito, il 30 per cento della produzione dovrà essere decarbonizzato entro il 2030 utilizzando proprio l’idrogeno”. In questo senso la ricerca e l’innovazione “serviranno per trovare anche altre soluzioni e per sostenere la diffusione delle nuove tecnologie per la neutralità energetica”, con la promessa al settore siderurgico che la Commissione creerà “un’agenda per una migliore e più veloce diffusione di queste tecnologie”.

Sul territorio l’interesse è “altissimo” su iniziative “come quelle sull’acciaio pulito legato all’idrogeno verde, che hanno l’obiettivo della decarbonizzazione”, ha confermato l’assessore all’Ambiente della Regione Veneto, Gianpaolo Bottacin, nel suo intervento di apertura dell’evento a Venezia. Proprio l’idrogeno può diventare “la sfida per il futuro” della regione e dell’intero continente: “L’acciaio è un’attività molto energivora, se riusciamo a sostituire la fonte energetica basata sui fossili con l’idrogeno, possiamo ottenere grandi risultati”, ha concluso Bottacin.

Criosabbiatura: la pulizia industriale sostenibile della A&G Chemical

E’ possibile combinare la pulizia industriale con la sostenibilità ambientale? A rispondere ‘sì’ alla domanda è la A&G Chemical Production, azienda di Osio Sotto (Bergamo) leader in Italia e in Europa nella criosabbiatura con ghiaccio secco. Si tratta di una tecnologia che utilizza aria compressa e ghiaccio secco per rimuovere lo sporco dalle superfici senza utilizzare prodotti chimici, acqua o abrasivi. La A&G, nata nel 1989 con la produzione di detergenti industriali, a metà degli anni Novanta ha scoperto, appunto, la sabbiatura criogenica e ha deciso di investirci, soprattutto in ricerca e sviluppo, diventando così una realtà praticamente senza concorrenti. A raccontarla a GEA è Bruno Allegrini, titolare dell’azienda e ‘mente’ dietro l’intero progetto.

Come è nata l’idea di avvicinarsi alla sabbiatura criogenica?

“Me ne sono innamorato, l’ho vista su internet e mi sono reso conto che era un po’ come chiudere il cerchio della mia attività, cioè riuscire a pulire senza utilizzare acqua, detergenti, solventi e abrasivi. Quindi prodotti chimici che possono inquinare. Mi sono informato, sono andato in giro per l’Europa per cercare la tecnologia che veniva dall’America e dal Nord Europa. Ho cominciato acquistando una macchina usata per vedere come funzionava e così è nata l’avventura della sabbiatura. Non lo faceva praticamente nessuno in Italia, nessuno portava avanti questa tecnologia perché non trovava sbocchi. Per le grandi aziende era un’attività talmente irrisoria che non valeva la pena investirci, per noi, invece, che eravamo una piccola azienda, era la novità che poteva darci una mano per crescere e farci conoscere”.

E così è iniziata l’avventura. Perché, in principio, i clienti si sono avvicinati a voi?

“Il primo cliente è stato la Ferrero, dove andavamo a rimuovere i residui delle cialde quando i forni dovevano essere puliti. Fino ad allora lo facevano con prodotti chimici e con un’attività molto più lunga, inquinante e dispendiosa anche in termini di mancata produttività. Per pulire un forno noi ci mettevamo circa 5 ore, loro impiegavano 10 giorni. La produttività è aumentata in maniera incredibile, con l’abbattimento dei costi. Il vantaggio economico c’era e c’è, e questo è stato sicuramente il primo approccio. A oggi abbiamo due tipi di clienti. Ci sono quelli che ci utilizzano come service, dove quindi andiamo direttamente con le nostre macchine a fare gli interventi, come Ansaldo, Ferrero e Fiat, e quelli che invece acquistano i nostri macchinari e li usano durante il processo, ad esempio le fonderie”.

Ora, però, la questione ambientale è diventata di stringente attualità. Ha avuto un impatto sulla vostra attività?

“Se prima la criosabbiatura era interessante sotto l’aspetto economico, ora diventa in alcuni casi necessaria per il suo bassissimo impatto ambientale, visto che va a eliminare i residui carboniosi, lo smaltimento dei rifiuti e l’utilizzo di solventi e detergenti industriali. Per esempio, ultimamente siamo intervenuti con la criosabbiatura sul tessuto denim, che viene trattato chimicamente e con abrasivi per renderlo del colore azzurro del jeans. Nel trattamento dei tessuti l’acqua utilizzata ha quantità spaventose, utilizzare la criosabbiatura ne diminuisce moltissimo l’uso. E questo è uno degli obiettivi primari dell’industria tessile”.

E voi, all’interno dell’azienda, che tipo di politiche avete sulla sostenibilità ambientale?

“Abbiamo da 15 anni un impianto fotovoltaico, siamo autonomi per l’energia elettrica. E poi non smaltiamo praticamente nulla, utilizziamo gli scarti di produzione per i sottoprodotti e non immettiamo niente nell’ambiente. Per quanto riguarda la produzione di detergenti, cerchiamo sempre di studiarne di nuovi con tensioattivi di natura vegetale che inquinino il meno possibile. I contenitori sono in plastica riciclabile, con etichette che indicano dove buttare le parti per cercare di aiutare il consumatore ad essere il più responsabile possibile nello smaltimento”.

Per chi lavora come voi nel campo della chimica le regole a livello nazionale ed europeo sono sempre più stringenti. Sono chiare o ci sono delle zone d’ombra?

“Le normative a livello di ghiaccio secco sono abbastanza chiare. Non ci sono buchi, anche perché ancora oggi è un’attività di nicchia. Per quanto riguarda i detergenti invece le norme sono sempre più complicate. Passiamo giornate intere a correre dietro alle normative e metterci a posto, e devo dire che le regole non sempre sono chiare. Oltretutto ci sono tante aziende che lavorano in maniera non corretta e continuano a operare come 15 anni fa, cosa che non si può più fare”.

Cosa servirebbe per migliorare la vostra attività?

“Servirebbero semplificazione e finanziamenti. Quelli che ci sono a livello europeo sono praticamente irraggiungibili. Ti trovi nelle condizioni di dover avere un budget di spesa talmente alto che per un’azienda come la nostra non ha senso. Si dovrebbe trovare il modo di riuscire a dare una mano anche a aziende come la nostra, magari con il medio credito, in modo da darci qualche finanziamento o aiuti a tasso zero. Questo ci aiuterebbe nello sviluppo: la A&G è un’azienda di ricerca, i nostri clienti cercano sempre qualcosa di nuovo e noi lavoriamo per darglielo”.

Gozzi: “Germania in crisi, serve alleanza industriale con Italia e Francia”

È in atto un declino industriale ed economico della Germania?

Se sì, esso può essere l’esempio di ciò che potrebbe succedere in tutta l’Europa industriale nei prossimi anni?

La Germania, che è la più grande economia europea, per il quarto trimestre consecutivo ha mostrato una crescita negativa e conferma quindi di essere in recessione (Ricordiamo che gli economisti definiscono un’economia in recessione quella che per tre trimestri consecutivi ha avuto un PIL negativo). Sia il Fondo Monetario Internazionale che l’OCDE si aspettano che, tra le più importanti economie mondiali, la tedesca sia quella che quest’anno andrà peggio.

Molti fanno notare che il problema viene da lontano. Infatti secondo diversi centri di ricerca la Germania negli ultimi tre anni è cresciuta poco e nei prossimi cinque potrebbe crescere meno degli USA, della Gran Bretagna, della Francia, della Spagna e della stessa Italia.

C’è nel Paese un malessere diffuso, testimoniato da una raffica di sondaggi che mostrano come sia le aziende che i consumatori tedeschi siano profondamente scettici sul futuro.

L’idea che mi sono fatto parlando con amici tedeschi è che, forse per la prima volta dal dopoguerra, in Germania c’è una grande confusione e una visione non chiara sulla prospettiva.

Nonostante ci sia chi, nel mondo politico e delle imprese, si sforza di definire l’attuale recessione come ‘tecnica’ e congiunturale, e quindi di minimizzarne gli aspetti strutturali, si ha la sensazione che in Germania sia in corso un’inversione fondamentale delle sorti economiche del Paese, una rottura del modello che per 20 anni ha visto crescere e prosperare l’economia tedesca.

Questa situazione fa tremare l’Europa, portando ancora più scompiglio nel già polarizzato panorama politico continentale.

Ma quale era il modello che è entrato in crisi?

Dopo i giganteschi problemi della riunificazione che avevano fatto definire la Germania come il ‘malato d’Europa’ tre elementi fondamentali avevano guidato la rinascita tedesca:

  • coraggiose riforme del mercato del lavoro, che avevano liberato tutto il potenziale industriale del Paese;
  • energia a basso prezzo grazie ai rapporti privilegiati con la Russia per le importazioni di gas;
  • gigantesche esportazioni di macchinari e di automobili in Cina.

Tutto ciò ha garantito un lungo periodo di crescita e di prosperità. Ma oggi le cose sono profondamente cambiate. E i tratti di un repentino cambiamento economico-industriale, geostrategico e demografico hanno colpito la Germania, prospettando quel che potrebbe avvenire nel resto d’Europa nei prossimi dieci anni.

Si tratta di un cocktail tossico di invecchiamento della popolazione e di grave mancanza di forza lavoro, di alti costi energetici e di estremismi ideologici nella transizione e nella lotta al climate change (che hanno portato ad esempio a chiudere le centrali nucleari tedesche senza chiarire cosa le sostituirà nella produzione di energia elettrica, dato che le rinnovabili non sono sufficienti), di grave carenza negli investimenti pubblici in infrastrutture, causata dall’ossessione del pareggio di bilancio.

Con riferimento alla situazione demografica, all’invecchiamento della popolazione e alla mancanza di mano d’opera specie qualificata, 2 milioni di lavoratori andranno in pensione nei prossimi 5 anni, e la denatalità non consente di rimpiazzare le uscite lavorative.

Con il pensionamento di una generazione di baby boomer nei prossimi anni la Germania si sta avviando ad un vero e proprio precipizio demografico che lascerà le sue aziende senza ingegneri, scienziati e senza gli altri lavoratori qualificati di cui queste hanno bisogno per rimanere competitive sul mercato. Nei prossimi 15 anni circa il 30% della forza lavoro tedesca raggiungerà l’età della pensione.

Già oggi i due quinti dei datori di lavoro affermano di avere difficoltà a trovare lavoratori qualificati. Il Land di Berlino non riesce a coprire la metà dei suoi posti vacanti con personale qualificato.

E ciò nonostante la Germania abbia gestito negli ultimi anni in maniera intelligente ed efficiente grandi flussi migratori come ad esempio quelli derivanti dalla tragedia siriana.

Con riferimento all’energia la Germania, dato il suo alto livello di dipendenza dal gas russo, è stata, insieme all’Austria, il Paese più colpito dalle conseguenze dell’invasione della Russia in Ucraina. Bloccando le forniture di gas naturale alla Germania, il Cremlino ha di fatto eliminato il perno del modello commerciale del Paese che si basava sul facile accesso all’energia a basso costo. Sebbene i prezzi all’ingrosso del gas si siano recentemente stabilizzati, essi sono ancora circa più del doppio rispetto a prima della crisi; ciò crea grandi problemi a tutti i settori industriali energivori, che infatti verranno sostenuti con una tariffa sussidiata.

Alcuni analisti ipotizzano che con la chiusura di tutte le centrali nucleari e di tutte le centrali a carbone all’orizzonte del 2030 alla Germania mancheranno 150 Giga (150 mila Mw!!!!) di potenza elettrica installata. Anche se la previsione pare eccessiva, il gap energetico in prospettiva si preannuncia gigantesco e certamente non compensabile con le sole rinnovabili. Il Governo tedesco, e le forze politiche che lo sostengono, spesso divise su tutto e lontane anni luce dalla disciplina e dal senso di responsabilità che per decenni ha caratterizzato la politica tedesca, sembrano incapaci di rispondere a questi interrogativi. Nello stesso tempo AFD (Alternative für Deutschland), un partito populista di estrema destra che ipotizza l’uscita della Germania dall’Unione Europea e un’intesa privilegiata con Russia e Cina, veleggia nei sondaggi intorno al 20% dei consensi.

Tutto quanto detto sopra pone grandi problemi prospettici all’economia e all’industria tedesca, che è la prima d’Europa.

In particolare alcune caratteristiche del sistema industriale tedesco ci appaiono come altrettanti elementi di debolezza.

I segmenti industriali più importanti della Germania, dai prodotti chimici alle automobili, ai macchinari sono radicati in tecnologie del secolo scorso; sebbene il Paese abbia prosperato per decenni sfruttando la sua leadership in questi prodotti, molti di essi stanno diventando obsoleti o semplicemente troppo costosi per essere prodotti in Germania.

Nelle nuove tecnologie il Paese è molto più indietro degli Stati Uniti d’America, della Cina e della stessa Francia. Se si fa eccezione per SAP (il grande produttore mondiale di software) il settore tecnologico tedesco è ben poca cosa.

Il sistema industriale tedesco ha un’impronta carbonica molto maggiore di quelli della Francia o dell’Italia (La siderurgia tedesca, ad esempio, produce più del 60% dell’acciaio dal carbone, mentre l’Italia l’80% lo fa con i forni elettrici. Una tonnellata d’acciaio prodotta con il carbone emette 10 volte più CO2 di una tonnellata di acciaio prodotta con il forno elettrico).

Il sistema industriale tedesco è molto più concentrato e meno diversificato di quello italiano ad esempio e, quindi, è intrinsecamente più rigido e meno adattivo.

Inoltre, esso sta perdendo complessivamente in competitività per l’erosione causata dagli alti e crescenti costi del lavoro, dall’alto livello fiscale, da una burocrazia asfissiante, da un significativo ritardo nella digitalizzazione delle produzioni e dei servizi.

Questo fa si che colossi dell’industria tedesca come BASFLinde, e la stessa Volkswagen decidano sempre più spesso di fare tutti gli investimenti per il loro futuro fuori dalla Germania, in particolare negli Usa e in Cina.

Simbolica della crisi prospettica dell’industria tedesca è proprio la vicenda dell’auto. L’industria automobilistica ha sostenuto le fortune della Germania per più di un secolo, e il futuro economico del Paese dipende in larga misura dalla capacità del settore – che rappresenta quasi un quarto della produzione manifatturiera nazionale – di mantenere la sua posizione nel segmento del lusso in un mondo dominato dai veicoli elettrici.

Le grandi case automobilistiche tedesche da un lato non hanno avuto il coraggio o la forza di difendere la loro leadership mondiale sui motori endotermici, mentre dall’altro sono arrivate in ritardo nello sviluppo dei veicoli elettrici. E così l’anno scorso i produttori cinesi hanno realizzato circa il 60% degli oltre 10 milioni di auto completamente elettriche vendute al mondo.

Volkswagen che ha dominato il mercato automobilistico cinese per decenni (la Cina è il più grande mercato automobilistico del mondo e rappresenta quasi il 40% del fatturato di Volkswagen), nel primo trimestre di questo anno ha perso il primato a favore di BYD, un produttore cinese.

Un recente studio di Allianz ha previsto che, se le tendenze attuali si confermano con i produttori cinesi che aumentano la loro quota di mercato sia in Cina che in Europa, le case automobilistiche e i fornitori europei potrebbero vedere i loro profitti ridursi di decine di miliardi di euro entro il 2030, con le aziende tedesche a farne le spese.

È molto probabile che presto saranno le grandi case automobilistiche cinesi a costruire i loro stabilimenti in Europa.

L’erosione del nucleo industriale tedesco avrà un impatto sostanziale sul resto dell’Unione Europea. La Germania non è soltanto il più grande attore industriale europeo; funziona come il mozzo di una ruota, collegando le diverse economie della regione come il più grande partner commerciale e investitore per molte di esse.

L’Italia è da sempre un partner fondamentale della Germania. Lo scorso anno le esportazioni italiane in Germania hanno raggiunto gli 80 miliardi di euro rappresentando quasi il 20% del totale dell’export italiano. Vi sono provincie come Brescia e Bergamo estremamente connesse con la Germania (Brescia ha realizzato 4,5 miliardi di export in Germania l’anno scorso, soprattutto nei settori metallurgico, della meccanica, delle macchine).

La crisi dell’economia tedesca non può che preoccupare grandemente anche noi e le nostre catene di subfornitura.

Il tema di una cooperazione ancora più forte dei tre grandi Paesi industriali d’Europa, Germania, Italia e Francia, è all’ordine del giorno per riportare urgentemente i temi dell’industria al centro dell’Agenda europea. Questo è il compito delle organizzazioni industriali in vista delle elezioni europee del 2024.

Il 28 e il 29 settembre a Berlino Confindustria, BDI (la Confindustria tedesca) e MEDEF (la Confindustria francese) si vedranno per parlare di questo.

Precipita la produzione industriale italiana: atteso un ulteriore calo dei prezzi

Ad aprile si registra, per il quarto mese consecutivo, una flessione congiunturale dell’indice destagionalizzato della produzione industriale, con diminuzioni estese a tutti i principali comparti. Il quadro è negativo anche su base trimestrale“, scrive l’Istat. “Pure in termini tendenziali, al netto degli effetti di calendario, si osserva una caduta marcata. A livello settoriale è molto ampia la flessione per l’energia e i beni intermedi, mentre risulta contenuto il calo per i beni strumentali“, conclude l’istituto di statistica. I numeri: la produzione industriale è calata dell’1,9% rispetto a marzo. Nella media del periodo febbraio-aprile il livello della produzione è sceso dell’1,3% rispetto ai tre mesi precedenti e in termini tendenziali la discesa è stata del 7,2%. Le stime di mercato erano per un +0,1% mensile e un -4,1% annuale.

Anno su anno le flessioni caratterizzano appunto tutti i comparti; la riduzione è modesta per i beni strumentali (-0,2%), mentre risulta più rilevante per l’energia (-12,6%), i beni intermedi (-11%) e i beni di consumo (-7,3%). Gli unici settori di attività economica in crescita tendenziale sono la fabbricazione di mezzi di trasporto (+5,7%), quella di coke e prodotti petroliferi raffinati (+2,1%) e la produzione di prodotti farmaceutici di base e preparati farmaceutici (+0,6%). Le flessioni più ampie invece si registrano nell’industria del legno, della carta e della stampa (-17,2%), nella fornitura di energia elettrica, gas, vapore ed aria (-13,6%) e nella fabbricazione di prodotti chimici e nella metallurgia e fabbricazione di prodotti in metallo (-10,9% per entrambi i settori).

A maggio la tendenza non cambierà, come è emerso dall’ultimo indice Pmi manifatturiero, che si basa su 400 interviste ai principali direttori acquisti. Tariq Kamal Chaudhry, Economist presso Hamburg Commercial Bank, non aveva usato mezzi termini nel commentare l’indagine diffusa la scorsa settimana: “L’industria italiana si sta dirigendo verso una recessione”. Il Purchasing Managers’ Index del mese passato si è attestato al di sotto della soglia neutra di non cambiamento di 50.0 (sopra segnala espansione e sotto contrazione), estendendo l’attuale periodo di peggioramento delle condizioni operative. Il crollo del Pmi a 45.9 da 46.8 di aprile indica, inoltre, la contrazione maggiore in tre anni. Le aziende hanno ampiamente ridotto le giacenze in eccesso, sia da parte loro che da parte dei loro clienti, e la domanda. Il fatto poi che si assista continuamente a un miglioramento dei tempi di consegna ha nel frattempo generato il crollo maggiore dei prezzi di acquisto in 14 anni. Questo fenomeno frena ulteriormente la produzione, in attesa di cali ancora superiori dei prezzi industriali. Il tutto mentre la discesa dei costi – come si leggeva nel rapporto Pmi di maggio – ha spinto le imprese addirittura a cercare di trasferire ai loro clienti qualche riduzione dei prezzi, in risposta a un ko delle vendite e ad un aumento della competizione. Il risultato netto rappresenta il terzo crollo mensile consecutivo dei prezzi di vendita che è stato inoltre il maggiore in tre anni.

Per questo, malgrado le difficili condizioni della domanda, gli attuali segnali di stabilità dei prezzi e della fornitura rafforzano la fiducia tra le aziende per il futuro. Nonostante sia crollato al livello minimo in tre mesi, l’ottimismo rispetto ai prossimi dodici mesi è sopra la tendenza. Ciò si è riversato sulla decisione di aumento di personale, con le aziende che hanno assunto extra dipendenti anche se ad un livello di crescita modesto e al tasso più debole finora riportato nell’anno in corso.