Ambiente, Preinvel: il filtro che con l’aria abbatte micropolveri industriali

Quando sarà superata l’urgenza sociale di mantenere viva la produzione dell’Ex Ilva, si riaprirà quella ambientale di abbassare drasticamente le emissioni. Una soluzione la propone la startup pugliese Preinvel, che ha brevettato un filtro in grado di eliminare le micro e nano polveri da combustioni e lavorazioni industriali.

Volevamo fare qualcosa di concreto, era giusto dare un nostro contributo perché nessuno potesse più essere vittima dell’inquinamento industriale, le cui prime vittime sono, purtroppo, le fasce più deboli della popolazione”, spiegano gli sviluppatori. Un’intuizione che punta a una transizione industriale pulita e scardina il mito dell’incompatibilità tra diritto alla salute e quello al lavoro. Il sistema di filtraggio fluidodinamico risolve in “maniera efficiente, efficace e totalmente ecocompatibile“, assicura Preinvel, il problema delle emissioni industriali inquinanti.

L’osservazione della natura e delle sue leggi ha permesso alla tecnologia di sfruttare il più efficiente, economico ed eco-compatibile dei sistemi filtranti: l’aria. Utilizzando il principio di Bernoulli, il filtro crea gradienti di pressione e definisce aree di alta depressione capaci di catturare in maniera definitiva tutte le micropolveri inferiori a 0.5 micron prodotte nelle lavorazioni industriali. In questo modo si annullano le emissioni nocive garantendo efficienze filtranti altissime, costanti nel tempo e assicurando costi di manutenzione vicini allo zero, data l’assenza di componenti che necessiterebbero di periodiche manutenzioni o sostituzioni per usura o saturazione.

L’invenzione ha recentemente vinto il premio miglior startup innovativa del PNICube e il grant di Camera di commercio di Milano Monza Brianza Lodi ‘Encubator‘. Ma ha anche vinto il primo premio dell’Apulian Sustainable Innovation Award 2021 ed è stata selezionata da Zero, l’Acceleratore di startup Cleantech della Rete Nazionale Acceleratori di Cdp, che promuove la crescita del Paese ha come Partner Eni, la holding LVenture Group e la cooperativa sociale Elis e come Sponsor la multiutility Acea, Vodafone, la multinazionale dei computer Microsoft e Maire Tecnimont, leader del comparto di impiantistica

Sostenibilità, il futuro industriale Ue tra acciaio pulito e idrogeno verde

Per raggiungere la neutralità bisogna investire e consentire la transizione, l’industria dell’acciaio può beneficiare di 700 milioni di euro per l’innovazione“. Il direttore generale di Dg Rtd (Research and Innovation) della Commissione Europea, Marc Lemaitre, mette in luce così il modo in cui l’industria siderurgica europea spingerà il futuro di lungo termine della sostenibilità ambientale di un settore da cui dipendono le ambizioni dell’Unione di arrivare a emissioni nette zero entro il 2050. All’evento ‘European Clean Steel: Stand up together for a future low emission industry’, organizzato a Venezia da Regione Veneto ed European Research Executive Agency (Rea), sono state tracciate le direttrici dello sviluppo sul campo dell’acciaio pulito, con l’alleato fondamentale dell’idrogeno verde, anche grazie alle priorità politiche e ai finanziamenti Ue.

Abbiamo una produzione di 150 milioni di tonnellate all’anno, più di 300 mila lavoratori specializzati impiegati e più di 2,5 milioni di lavoratori ne dipendono indirettamente”, ha esordito Lemaitre a proposito dei dati sull’industria siderurgica europea, ricordando che “questo settore deve essere decarbonizzato in un lasso di tempo ridotto, è arrivato il momento di agire e cambiarlo”. Proprio da Bruxelles può arrivare una spinta decisiva, considerato il fatto che “nel 2024 sono a disposizione 100 milioni di euro da Rfcs e 100 milioni da Horizon Europe”, contributi “fondamentali” per l’innovazione, che richiedono però “maggiore partecipazione attiva” nell’ambito del Fondo di ricerca carbone e acciaio (Rfcs).

Il 2024 “è un anno importante, con un bando che si chiude il 7 febbraio”, ha ricordato la direttrice dell’Agenzia esecutiva europea per la salute e il digitale (Hadea), Marina Zanchi, parlando dell’implementazione dei progetti di partnership sull’acciaio pulito, “uno strumento cruciale di collaborazione con le industrie”. L’Agenzia Ue sta finanziando 15 progetti per l’acciaio pulito in 3 aree principali: “Circolarità attraverso il miglioramento e la valorizzazione dei rottami, sviluppo e diffusione di tecnologie a bassa emissione di carbonio, e ottimizzazione del processo produttivo”, ha ricordato Zanchi. “I vecchi metodi di produzione non sono più in linea con le prospettive di un’Europa più verde” in termini di “efficienza, riduzione delle emissioni e creazione di un’economia competitiva”, le ha fatto eco il direttore dell’European Research Executive Agency (Rea), Marc Tachelet.

Al centro dell’interesse c’è in particolare l’idrogeno che, come assicurato dal direttore di Rea, “grazie al piano RePowerEu svolgerà ruolo fondamentale per la produzione pulita dell’acciaio”. Parole simili sono state scelte dal direttore generale Lemaitre: “L’idrogeno è un alleato cruciale per la produzione di acciaio pulito, il 30 per cento della produzione dovrà essere decarbonizzato entro il 2030 utilizzando proprio l’idrogeno”. In questo senso la ricerca e l’innovazione “serviranno per trovare anche altre soluzioni e per sostenere la diffusione delle nuove tecnologie per la neutralità energetica”, con la promessa al settore siderurgico che la Commissione creerà “un’agenda per una migliore e più veloce diffusione di queste tecnologie”.

Sul territorio l’interesse è “altissimo” su iniziative “come quelle sull’acciaio pulito legato all’idrogeno verde, che hanno l’obiettivo della decarbonizzazione”, ha confermato l’assessore all’Ambiente della Regione Veneto, Gianpaolo Bottacin, nel suo intervento di apertura dell’evento a Venezia. Proprio l’idrogeno può diventare “la sfida per il futuro” della regione e dell’intero continente: “L’acciaio è un’attività molto energivora, se riusciamo a sostituire la fonte energetica basata sui fossili con l’idrogeno, possiamo ottenere grandi risultati”, ha concluso Bottacin.

Criosabbiatura: la pulizia industriale sostenibile della A&G Chemical

E’ possibile combinare la pulizia industriale con la sostenibilità ambientale? A rispondere ‘sì’ alla domanda è la A&G Chemical Production, azienda di Osio Sotto (Bergamo) leader in Italia e in Europa nella criosabbiatura con ghiaccio secco. Si tratta di una tecnologia che utilizza aria compressa e ghiaccio secco per rimuovere lo sporco dalle superfici senza utilizzare prodotti chimici, acqua o abrasivi. La A&G, nata nel 1989 con la produzione di detergenti industriali, a metà degli anni Novanta ha scoperto, appunto, la sabbiatura criogenica e ha deciso di investirci, soprattutto in ricerca e sviluppo, diventando così una realtà praticamente senza concorrenti. A raccontarla a GEA è Bruno Allegrini, titolare dell’azienda e ‘mente’ dietro l’intero progetto.

Come è nata l’idea di avvicinarsi alla sabbiatura criogenica?

“Me ne sono innamorato, l’ho vista su internet e mi sono reso conto che era un po’ come chiudere il cerchio della mia attività, cioè riuscire a pulire senza utilizzare acqua, detergenti, solventi e abrasivi. Quindi prodotti chimici che possono inquinare. Mi sono informato, sono andato in giro per l’Europa per cercare la tecnologia che veniva dall’America e dal Nord Europa. Ho cominciato acquistando una macchina usata per vedere come funzionava e così è nata l’avventura della sabbiatura. Non lo faceva praticamente nessuno in Italia, nessuno portava avanti questa tecnologia perché non trovava sbocchi. Per le grandi aziende era un’attività talmente irrisoria che non valeva la pena investirci, per noi, invece, che eravamo una piccola azienda, era la novità che poteva darci una mano per crescere e farci conoscere”.

E così è iniziata l’avventura. Perché, in principio, i clienti si sono avvicinati a voi?

“Il primo cliente è stato la Ferrero, dove andavamo a rimuovere i residui delle cialde quando i forni dovevano essere puliti. Fino ad allora lo facevano con prodotti chimici e con un’attività molto più lunga, inquinante e dispendiosa anche in termini di mancata produttività. Per pulire un forno noi ci mettevamo circa 5 ore, loro impiegavano 10 giorni. La produttività è aumentata in maniera incredibile, con l’abbattimento dei costi. Il vantaggio economico c’era e c’è, e questo è stato sicuramente il primo approccio. A oggi abbiamo due tipi di clienti. Ci sono quelli che ci utilizzano come service, dove quindi andiamo direttamente con le nostre macchine a fare gli interventi, come Ansaldo, Ferrero e Fiat, e quelli che invece acquistano i nostri macchinari e li usano durante il processo, ad esempio le fonderie”.

Ora, però, la questione ambientale è diventata di stringente attualità. Ha avuto un impatto sulla vostra attività?

“Se prima la criosabbiatura era interessante sotto l’aspetto economico, ora diventa in alcuni casi necessaria per il suo bassissimo impatto ambientale, visto che va a eliminare i residui carboniosi, lo smaltimento dei rifiuti e l’utilizzo di solventi e detergenti industriali. Per esempio, ultimamente siamo intervenuti con la criosabbiatura sul tessuto denim, che viene trattato chimicamente e con abrasivi per renderlo del colore azzurro del jeans. Nel trattamento dei tessuti l’acqua utilizzata ha quantità spaventose, utilizzare la criosabbiatura ne diminuisce moltissimo l’uso. E questo è uno degli obiettivi primari dell’industria tessile”.

E voi, all’interno dell’azienda, che tipo di politiche avete sulla sostenibilità ambientale?

“Abbiamo da 15 anni un impianto fotovoltaico, siamo autonomi per l’energia elettrica. E poi non smaltiamo praticamente nulla, utilizziamo gli scarti di produzione per i sottoprodotti e non immettiamo niente nell’ambiente. Per quanto riguarda la produzione di detergenti, cerchiamo sempre di studiarne di nuovi con tensioattivi di natura vegetale che inquinino il meno possibile. I contenitori sono in plastica riciclabile, con etichette che indicano dove buttare le parti per cercare di aiutare il consumatore ad essere il più responsabile possibile nello smaltimento”.

Per chi lavora come voi nel campo della chimica le regole a livello nazionale ed europeo sono sempre più stringenti. Sono chiare o ci sono delle zone d’ombra?

“Le normative a livello di ghiaccio secco sono abbastanza chiare. Non ci sono buchi, anche perché ancora oggi è un’attività di nicchia. Per quanto riguarda i detergenti invece le norme sono sempre più complicate. Passiamo giornate intere a correre dietro alle normative e metterci a posto, e devo dire che le regole non sempre sono chiare. Oltretutto ci sono tante aziende che lavorano in maniera non corretta e continuano a operare come 15 anni fa, cosa che non si può più fare”.

Cosa servirebbe per migliorare la vostra attività?

“Servirebbero semplificazione e finanziamenti. Quelli che ci sono a livello europeo sono praticamente irraggiungibili. Ti trovi nelle condizioni di dover avere un budget di spesa talmente alto che per un’azienda come la nostra non ha senso. Si dovrebbe trovare il modo di riuscire a dare una mano anche a aziende come la nostra, magari con il medio credito, in modo da darci qualche finanziamento o aiuti a tasso zero. Questo ci aiuterebbe nello sviluppo: la A&G è un’azienda di ricerca, i nostri clienti cercano sempre qualcosa di nuovo e noi lavoriamo per darglielo”.

Gozzi: “Germania in crisi, serve alleanza industriale con Italia e Francia”

È in atto un declino industriale ed economico della Germania?

Se sì, esso può essere l’esempio di ciò che potrebbe succedere in tutta l’Europa industriale nei prossimi anni?

La Germania, che è la più grande economia europea, per il quarto trimestre consecutivo ha mostrato una crescita negativa e conferma quindi di essere in recessione (Ricordiamo che gli economisti definiscono un’economia in recessione quella che per tre trimestri consecutivi ha avuto un PIL negativo). Sia il Fondo Monetario Internazionale che l’OCDE si aspettano che, tra le più importanti economie mondiali, la tedesca sia quella che quest’anno andrà peggio.

Molti fanno notare che il problema viene da lontano. Infatti secondo diversi centri di ricerca la Germania negli ultimi tre anni è cresciuta poco e nei prossimi cinque potrebbe crescere meno degli USA, della Gran Bretagna, della Francia, della Spagna e della stessa Italia.

C’è nel Paese un malessere diffuso, testimoniato da una raffica di sondaggi che mostrano come sia le aziende che i consumatori tedeschi siano profondamente scettici sul futuro.

L’idea che mi sono fatto parlando con amici tedeschi è che, forse per la prima volta dal dopoguerra, in Germania c’è una grande confusione e una visione non chiara sulla prospettiva.

Nonostante ci sia chi, nel mondo politico e delle imprese, si sforza di definire l’attuale recessione come ‘tecnica’ e congiunturale, e quindi di minimizzarne gli aspetti strutturali, si ha la sensazione che in Germania sia in corso un’inversione fondamentale delle sorti economiche del Paese, una rottura del modello che per 20 anni ha visto crescere e prosperare l’economia tedesca.

Questa situazione fa tremare l’Europa, portando ancora più scompiglio nel già polarizzato panorama politico continentale.

Ma quale era il modello che è entrato in crisi?

Dopo i giganteschi problemi della riunificazione che avevano fatto definire la Germania come il ‘malato d’Europa’ tre elementi fondamentali avevano guidato la rinascita tedesca:

  • coraggiose riforme del mercato del lavoro, che avevano liberato tutto il potenziale industriale del Paese;
  • energia a basso prezzo grazie ai rapporti privilegiati con la Russia per le importazioni di gas;
  • gigantesche esportazioni di macchinari e di automobili in Cina.

Tutto ciò ha garantito un lungo periodo di crescita e di prosperità. Ma oggi le cose sono profondamente cambiate. E i tratti di un repentino cambiamento economico-industriale, geostrategico e demografico hanno colpito la Germania, prospettando quel che potrebbe avvenire nel resto d’Europa nei prossimi dieci anni.

Si tratta di un cocktail tossico di invecchiamento della popolazione e di grave mancanza di forza lavoro, di alti costi energetici e di estremismi ideologici nella transizione e nella lotta al climate change (che hanno portato ad esempio a chiudere le centrali nucleari tedesche senza chiarire cosa le sostituirà nella produzione di energia elettrica, dato che le rinnovabili non sono sufficienti), di grave carenza negli investimenti pubblici in infrastrutture, causata dall’ossessione del pareggio di bilancio.

Con riferimento alla situazione demografica, all’invecchiamento della popolazione e alla mancanza di mano d’opera specie qualificata, 2 milioni di lavoratori andranno in pensione nei prossimi 5 anni, e la denatalità non consente di rimpiazzare le uscite lavorative.

Con il pensionamento di una generazione di baby boomer nei prossimi anni la Germania si sta avviando ad un vero e proprio precipizio demografico che lascerà le sue aziende senza ingegneri, scienziati e senza gli altri lavoratori qualificati di cui queste hanno bisogno per rimanere competitive sul mercato. Nei prossimi 15 anni circa il 30% della forza lavoro tedesca raggiungerà l’età della pensione.

Già oggi i due quinti dei datori di lavoro affermano di avere difficoltà a trovare lavoratori qualificati. Il Land di Berlino non riesce a coprire la metà dei suoi posti vacanti con personale qualificato.

E ciò nonostante la Germania abbia gestito negli ultimi anni in maniera intelligente ed efficiente grandi flussi migratori come ad esempio quelli derivanti dalla tragedia siriana.

Con riferimento all’energia la Germania, dato il suo alto livello di dipendenza dal gas russo, è stata, insieme all’Austria, il Paese più colpito dalle conseguenze dell’invasione della Russia in Ucraina. Bloccando le forniture di gas naturale alla Germania, il Cremlino ha di fatto eliminato il perno del modello commerciale del Paese che si basava sul facile accesso all’energia a basso costo. Sebbene i prezzi all’ingrosso del gas si siano recentemente stabilizzati, essi sono ancora circa più del doppio rispetto a prima della crisi; ciò crea grandi problemi a tutti i settori industriali energivori, che infatti verranno sostenuti con una tariffa sussidiata.

Alcuni analisti ipotizzano che con la chiusura di tutte le centrali nucleari e di tutte le centrali a carbone all’orizzonte del 2030 alla Germania mancheranno 150 Giga (150 mila Mw!!!!) di potenza elettrica installata. Anche se la previsione pare eccessiva, il gap energetico in prospettiva si preannuncia gigantesco e certamente non compensabile con le sole rinnovabili. Il Governo tedesco, e le forze politiche che lo sostengono, spesso divise su tutto e lontane anni luce dalla disciplina e dal senso di responsabilità che per decenni ha caratterizzato la politica tedesca, sembrano incapaci di rispondere a questi interrogativi. Nello stesso tempo AFD (Alternative für Deutschland), un partito populista di estrema destra che ipotizza l’uscita della Germania dall’Unione Europea e un’intesa privilegiata con Russia e Cina, veleggia nei sondaggi intorno al 20% dei consensi.

Tutto quanto detto sopra pone grandi problemi prospettici all’economia e all’industria tedesca, che è la prima d’Europa.

In particolare alcune caratteristiche del sistema industriale tedesco ci appaiono come altrettanti elementi di debolezza.

I segmenti industriali più importanti della Germania, dai prodotti chimici alle automobili, ai macchinari sono radicati in tecnologie del secolo scorso; sebbene il Paese abbia prosperato per decenni sfruttando la sua leadership in questi prodotti, molti di essi stanno diventando obsoleti o semplicemente troppo costosi per essere prodotti in Germania.

Nelle nuove tecnologie il Paese è molto più indietro degli Stati Uniti d’America, della Cina e della stessa Francia. Se si fa eccezione per SAP (il grande produttore mondiale di software) il settore tecnologico tedesco è ben poca cosa.

Il sistema industriale tedesco ha un’impronta carbonica molto maggiore di quelli della Francia o dell’Italia (La siderurgia tedesca, ad esempio, produce più del 60% dell’acciaio dal carbone, mentre l’Italia l’80% lo fa con i forni elettrici. Una tonnellata d’acciaio prodotta con il carbone emette 10 volte più CO2 di una tonnellata di acciaio prodotta con il forno elettrico).

Il sistema industriale tedesco è molto più concentrato e meno diversificato di quello italiano ad esempio e, quindi, è intrinsecamente più rigido e meno adattivo.

Inoltre, esso sta perdendo complessivamente in competitività per l’erosione causata dagli alti e crescenti costi del lavoro, dall’alto livello fiscale, da una burocrazia asfissiante, da un significativo ritardo nella digitalizzazione delle produzioni e dei servizi.

Questo fa si che colossi dell’industria tedesca come BASFLinde, e la stessa Volkswagen decidano sempre più spesso di fare tutti gli investimenti per il loro futuro fuori dalla Germania, in particolare negli Usa e in Cina.

Simbolica della crisi prospettica dell’industria tedesca è proprio la vicenda dell’auto. L’industria automobilistica ha sostenuto le fortune della Germania per più di un secolo, e il futuro economico del Paese dipende in larga misura dalla capacità del settore – che rappresenta quasi un quarto della produzione manifatturiera nazionale – di mantenere la sua posizione nel segmento del lusso in un mondo dominato dai veicoli elettrici.

Le grandi case automobilistiche tedesche da un lato non hanno avuto il coraggio o la forza di difendere la loro leadership mondiale sui motori endotermici, mentre dall’altro sono arrivate in ritardo nello sviluppo dei veicoli elettrici. E così l’anno scorso i produttori cinesi hanno realizzato circa il 60% degli oltre 10 milioni di auto completamente elettriche vendute al mondo.

Volkswagen che ha dominato il mercato automobilistico cinese per decenni (la Cina è il più grande mercato automobilistico del mondo e rappresenta quasi il 40% del fatturato di Volkswagen), nel primo trimestre di questo anno ha perso il primato a favore di BYD, un produttore cinese.

Un recente studio di Allianz ha previsto che, se le tendenze attuali si confermano con i produttori cinesi che aumentano la loro quota di mercato sia in Cina che in Europa, le case automobilistiche e i fornitori europei potrebbero vedere i loro profitti ridursi di decine di miliardi di euro entro il 2030, con le aziende tedesche a farne le spese.

È molto probabile che presto saranno le grandi case automobilistiche cinesi a costruire i loro stabilimenti in Europa.

L’erosione del nucleo industriale tedesco avrà un impatto sostanziale sul resto dell’Unione Europea. La Germania non è soltanto il più grande attore industriale europeo; funziona come il mozzo di una ruota, collegando le diverse economie della regione come il più grande partner commerciale e investitore per molte di esse.

L’Italia è da sempre un partner fondamentale della Germania. Lo scorso anno le esportazioni italiane in Germania hanno raggiunto gli 80 miliardi di euro rappresentando quasi il 20% del totale dell’export italiano. Vi sono provincie come Brescia e Bergamo estremamente connesse con la Germania (Brescia ha realizzato 4,5 miliardi di export in Germania l’anno scorso, soprattutto nei settori metallurgico, della meccanica, delle macchine).

La crisi dell’economia tedesca non può che preoccupare grandemente anche noi e le nostre catene di subfornitura.

Il tema di una cooperazione ancora più forte dei tre grandi Paesi industriali d’Europa, Germania, Italia e Francia, è all’ordine del giorno per riportare urgentemente i temi dell’industria al centro dell’Agenda europea. Questo è il compito delle organizzazioni industriali in vista delle elezioni europee del 2024.

Il 28 e il 29 settembre a Berlino Confindustria, BDI (la Confindustria tedesca) e MEDEF (la Confindustria francese) si vedranno per parlare di questo.

Precipita la produzione industriale italiana: atteso un ulteriore calo dei prezzi

Ad aprile si registra, per il quarto mese consecutivo, una flessione congiunturale dell’indice destagionalizzato della produzione industriale, con diminuzioni estese a tutti i principali comparti. Il quadro è negativo anche su base trimestrale“, scrive l’Istat. “Pure in termini tendenziali, al netto degli effetti di calendario, si osserva una caduta marcata. A livello settoriale è molto ampia la flessione per l’energia e i beni intermedi, mentre risulta contenuto il calo per i beni strumentali“, conclude l’istituto di statistica. I numeri: la produzione industriale è calata dell’1,9% rispetto a marzo. Nella media del periodo febbraio-aprile il livello della produzione è sceso dell’1,3% rispetto ai tre mesi precedenti e in termini tendenziali la discesa è stata del 7,2%. Le stime di mercato erano per un +0,1% mensile e un -4,1% annuale.

Anno su anno le flessioni caratterizzano appunto tutti i comparti; la riduzione è modesta per i beni strumentali (-0,2%), mentre risulta più rilevante per l’energia (-12,6%), i beni intermedi (-11%) e i beni di consumo (-7,3%). Gli unici settori di attività economica in crescita tendenziale sono la fabbricazione di mezzi di trasporto (+5,7%), quella di coke e prodotti petroliferi raffinati (+2,1%) e la produzione di prodotti farmaceutici di base e preparati farmaceutici (+0,6%). Le flessioni più ampie invece si registrano nell’industria del legno, della carta e della stampa (-17,2%), nella fornitura di energia elettrica, gas, vapore ed aria (-13,6%) e nella fabbricazione di prodotti chimici e nella metallurgia e fabbricazione di prodotti in metallo (-10,9% per entrambi i settori).

A maggio la tendenza non cambierà, come è emerso dall’ultimo indice Pmi manifatturiero, che si basa su 400 interviste ai principali direttori acquisti. Tariq Kamal Chaudhry, Economist presso Hamburg Commercial Bank, non aveva usato mezzi termini nel commentare l’indagine diffusa la scorsa settimana: “L’industria italiana si sta dirigendo verso una recessione”. Il Purchasing Managers’ Index del mese passato si è attestato al di sotto della soglia neutra di non cambiamento di 50.0 (sopra segnala espansione e sotto contrazione), estendendo l’attuale periodo di peggioramento delle condizioni operative. Il crollo del Pmi a 45.9 da 46.8 di aprile indica, inoltre, la contrazione maggiore in tre anni. Le aziende hanno ampiamente ridotto le giacenze in eccesso, sia da parte loro che da parte dei loro clienti, e la domanda. Il fatto poi che si assista continuamente a un miglioramento dei tempi di consegna ha nel frattempo generato il crollo maggiore dei prezzi di acquisto in 14 anni. Questo fenomeno frena ulteriormente la produzione, in attesa di cali ancora superiori dei prezzi industriali. Il tutto mentre la discesa dei costi – come si leggeva nel rapporto Pmi di maggio – ha spinto le imprese addirittura a cercare di trasferire ai loro clienti qualche riduzione dei prezzi, in risposta a un ko delle vendite e ad un aumento della competizione. Il risultato netto rappresenta il terzo crollo mensile consecutivo dei prezzi di vendita che è stato inoltre il maggiore in tre anni.

Per questo, malgrado le difficili condizioni della domanda, gli attuali segnali di stabilità dei prezzi e della fornitura rafforzano la fiducia tra le aziende per il futuro. Nonostante sia crollato al livello minimo in tre mesi, l’ottimismo rispetto ai prossimi dodici mesi è sopra la tendenza. Ciò si è riversato sulla decisione di aumento di personale, con le aziende che hanno assunto extra dipendenti anche se ad un livello di crescita modesto e al tasso più debole finora riportato nell’anno in corso.

A Los Angeles piante e funghi ripuliscono il suolo a basso costo

In un’area dismessa di Los Angeles, Kreigh Hampel sradica con un forcone del grano saraceno della California per farlo analizzare: da quando è stato piantato, l’arbusto assorbe il piombo che inquina il suolo di questa ex area automobilistica. Il volontario 68enne si meraviglia del potere depurativo di questo cespuglio punteggiato di fiori bianchi e rosa. “È il miracolo della vita“, afferma entusiasta il pensionato. “Le piante sanno davvero come fare questo lavoro, lo hanno fatto così tante volte nel corso di milioni di anni“.

Gli scienziati della UC Riverside hanno disseminato piante e funghi accuratamente selezionati su questo terreno, da tempo ricoperto di cemento, nella speranza di eliminare naturalmente i metalli pesanti e le sostanze petrolchimiche che hanno contaminato l’area per decenni.

Questa tecnica, nota come “biorisanamento“, rappresenta un’alternativa molto più economica ai processi abituali. “Il metodo convenzionale di decontaminazione dei siti consiste nel dissotterrare tutto il terreno contaminato e scaricarlo altrove“, spiega all’AFP Danielle Stevenson, la ricercatrice che guida questo studio su larga scala. Questo approccio è “molto costoso“, spesso costa “milioni” e “sposta solo il problema altrove“.

Il progetto della micologa, invece, condotto su tre diversi ex siti industriali di Los Angeles, costa solo “200.000 dollari“. E secondo la dottoressa, i risultati iniziali sono promettenti.
In tre mesi abbiamo ridotto del 50% i prodotti petrolchimici e in sei mesi ci siamo avvicinati a questa soglia per alcuni metalli”, riferisce la scienziata.

Da un lato, i funghi ostrica bianchi sono stati incorporati nel terreno perché sono funghi “decompositori“: la loro parte sotterranea, chiamata “micelio“, si nutre sia di alberi morti che di idrocarburi come il diesel. “Questo perché sono essenzialmente la stessa cosa“, spiega il trentenne. “Molti dei nostri combustibili fossili sono solo materiale morto che è stato compresso per lunghi periodi di tempo”. D’altra parte, diverse piante californiane locali fungono da ‘aspirapolvere’ per i metalli pesanti, che possono poi essere riutilizzati. Per sopravvivere in un terreno ostile, ricevono l’aiuto dei funghi micorrizici, alleati naturali della foresta che forniscono loro acqua e sostanze nutritive.

In questo quartiere operaio, a prevalenza latinoamericana, Stevenson vuole portare le concentrazioni di inquinanti al di sotto delle soglie sanitarie stabilite dalle autorità americane. Questo perché vivere vicino a ex siti industriali contaminati “riduce letteralmente l’aspettativa di vita“.

Storicamente, chi inquina raramente paga. Una volta che le aziende se ne sono andate, la bonifica spetta spesso alle autorità locali, che impiegano anni per trovare i fondi necessari.
Negli Stati Uniti, dove l’Agenzia per la Protezione dell’Ambiente (EPA) elenca quasi 1.900 siti problematici, il numero di progetti di bonifica realizzati ogni anno si conta sulle dita di una mano, secondo lo scienziato. La proposta di un metodo “più economico” consentirebbe di “bonificare più siti in tempi più rapidi“, auspica la scienziata.

La pulizia delle acque reflue, la bonifica del suolo contaminato da ceneri tossiche provenienti da incendi boschivi, un evento comune in California: il “biorisanamento” può essere applicato a un’ampia gamma di settori.
Allora perché questa tecnica è ancora così poco sviluppata? “Il biorisanamento è ancora considerato rischioso“, spiega Bill Mohn, professore di microbiologia presso l’Università della British Columbia in Canada. A differenza dello scavo del terreno, “è difficile garantire sistematicamente che si arrivi al di sotto dei livelli richiesti di inquinanti“.

Questa incertezza è aggravata dalla mancanza di fondi per la ricerca in un campo che non ha prodotti concreti da vendere, aggiunge. Secondo Stevenson, anche i pregiudizi sui funghi, ritenuti poco salutari, sono difficili da sfatare. “La gente mi chiede sempre se, se introduco un fungo per ripulire un sito, non prenderà il sopravvento, infettando la casa e diffondendosi ovunque“, dice. Da qui l’importanza di condurre questo tipo di studio in condizioni reali, e non solo in laboratorio, per verificare la fattibilità di questo approccio naturale. “Una volta che avremo più test di questi metodi sul campo, le persone si sentiranno più sicure“, afferma la ricercatrice.

 

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Re Rebaudengo (Elettricità Futura): “Ue e Italia si rafforzano se guidano rivoluzione industriale sostenibile”

Secondo un recente studio di Confindustria il pacchetto Fit for 55 potrebbe mobilitare 1,120 miliardi per la realizzazione degli investimenti volti a sostenere la domanda e gli incentivi promossi al fine di rilanciare l’offerta di tecnologie ammonterebbe. Una cifra che, secondo i calcoli di Viale dell’Astronomia, potrebbe portare a un incremento del valore aggiunto pari a 1.976,1 miliardi di euro (+4,7% medio annuo, 1.645,3 miliardi al netto dei beni intermedi importati), un’occupazione più elevata di 11,5 milioni di unità di lavoro/anno (+3,1%) e un aumento di valore aggiunto di 689,1 miliardi di euro (+3,7% medio annuo). Chi metterà però queste risorse?

Oltre a Fit for 55 ci sono però altre novità, dalla direttiva Case green all’eliminazione delle auto a motore endotermico. Partendo dagli immobili, l’Associazione delle società di ingegneria e architettura aderente alla stessa Confindustria calcola un costo medio tra 40 e 55 mila euro per interventi di efficienza energetica e antisismici su un appartamento in condominio. C’è poi un rischio occupazionale, secondo Anfia, per il quasi obbligo di auto elettriche dal 2035, quantificabile in oltre 70mila posti di lavoro persi nell’automotive italiano. Negli ultimi giorni infine la riforma del sistema dei certificati di emissioni, nato per punire chi inquina di più, potrebbe costare – per il solo trasporto marittimo italiano – quasi un miliardo dal 2026.

Da più parti, non solo in Italia, si ipotizza il rischio deindustrializzazione continentale, anche per la spinta dei massicci piani finanziari green messi in campo da Usa e Cina. In questo mare di pessimismo però c’è una voce autorevole contraria e ottimista. “Da quasi un decennio sostengo che industria, occupazione e green economy possano rafforzarsi reciprocamente ponendo l’Europa, e l’Italia, alla guida della rivoluzione industriale sostenibile e stimolando gli altri Paesi ad innovare i processi produttivi per non perdere competitività e posizioni di mercato”. A dirlo a GEA è Agostino Re Rebaudengo, presidente Elettricità Futura. “Le imprese italiane ed europee hanno compiuto grandi sforzi in termini di riconversione sostenibile, investimenti che le hanno condotte alla leadership nell’ambito della produzione industriale pulita”.

Certo, spiega Re Rebaudengo, “sarà importante continuare a governare, in modo efficace ed efficiente, il percorso di decarbonizzazione, per minimizzare i costi e massimizzare i benefici e affinché i nuovi investimenti siano coerenti con il quadro strategico indicato dall’Europa, una direzione, peraltro, già nota e intrapresa da molti anni, con il Pacchetto 20-20-20, con il Green Deal, con il Fit for 55 e adesso con il REPowerEU. Per la filiera industriale nazionale del comparto dell’energia elettrica, le politiche europee di decarbonizzazione aprono notevoli opportunità di crescita per l’occupazione e l’economia”.

Il Piano 2030 di sviluppo del settore elettrico, elaborato da Elettricità Futura e condiviso da questo e dal precedente Governo, prevede 540.000 nuovi posti di lavoro nel settore elettrico e nella sua filiera industriale, che si aggiungeranno ai circa 120.000 di oggi, e 360 miliardi di euro di benefici economici, in termini di valore aggiunto per filiera e indotto”, conclude il presidente della principale associazione del mondo elettrico italiano.

I consumi di gas calano ma la nostra produzione industriale sale

La produzione industriale italiana ha iniziato il 2023 peggio del previsto. A gennaio Istat ha registrato un -0,7% mensile, contro attese di -0,1%, e un incremento dell’1,4% annuale (le aspettative erano per un incremento del 2,9%). Però “il rialzo su base annua è solo un’illusione ottica considerato che a gennaio 2022 la produzione precipitò, secondo gli indici aggiornati di oggi da noi rielaborati, del 3,1% su dicembre 2021 e del 2,7% su gennaio 2021. Non per niente rispetto agli anni precedenti il confronto con il dato di oggi resta sfavorevole”, afferma Massimiliano Dona, presidente dell‘Unione Nazionale Consumatori. “Secondo il nostro studio, infatti, se la produzione di gennaio 2023, nei dati corretti per gli effetti di calendario, è salita dell’1.4% rispetto a gennaio 2022, è ancora inferiore sia rispetto al 2021, -1,4%, sia con il dato pre-pandemia del gennaio 2020, -3,3%, gap che sale addirittura al 6,2 per i beni di consumo non durevoli”, conclude Dona.

Tra i settori di attività economica che presentano variazioni tendenziali (anno su anno) positive si segnalano la fabbricazione di coke e prodotti petroliferi raffinati (+15,3%), la produzione di prodotti farmaceutici di base e preparati farmaceutici (+14,3%) e la fabbricazione di computer e prodotti di elettronica (+11,8%). Le flessioni più ampie si registrano invece nella fabbricazione di prodotti chimici (-10,8%), nell’industria del legno, della carta e della stampa (-10,4%) e nella fornitura di energia elettrica, gas, vapore ed aria (-9,3%). Tuttavia, se contestualizzato, il dato della produzione industriale appare meno peggio del previsto. Intanto va considerato che il +1,4% andrebbe raffrontato col consumo di gas, materia prima fontamentale in Italia. E il primo report mensile del Gas Exporting Countries Forum, noto anche come Opec del gas, mostra che “a gennaio il consumo di gas è diminuito del 22% su base annua a 7,6 miliardi di metri cubi. Il calo del consumo di gas è stato determinato dalle temperature più calde, con una temperatura media superiore di 1,1°C rispetto alla norma stagionale”, precisa il Gecf, che sottolinea come “per il 13° mese mese consecutivo, il consumo di gas nel settore industriale sia diminuito su base mensile rispetto all’anno precedente, in risposta ai prezzi elevati del gas naturale”.

“Il calo della produzione industriale è stato più ampio delle attese, ma non annulla il balzo di dicembre”, commenta Paolo Mameli, senior economist della Direzione Studi e Ricerche di Intesa Sanpaolo. Anzi, “a differenza che in altri Paesi europei (Germania in primis), la produzione nei settori ad alta intensità energetica è calata ancora su base congiunturale a gennaio (-0,9% mensile), ma la tendenza di calo si è andata via via attenuando nel periodo più recente: la variazione negli ultimi tre mesi risulta pari a -2% trimestre su trimestre a gennaio, dopo un punto di minimo a -6,1% lo scorso settembre”, continua Mameli. Per cui “l’industria, che è stata la principale responsabile del calo del Pil nello scorcio finale dello scorso anno, potrebbe quantomeno non frenare il valore aggiunto a inizio 2023. Ciò indica rischi al rialzo sulla nostra attuale previsione di un’attività economica stagnante nel trimestre in corso dopo il -0,1% trimestrale visto a fine 2022″.

Il Pil potrebbe dunque anche essere positivo da gennaio a marzo. “Di recente, abbiamo rivisto al rialzo le nostre previsioni sulla crescita dell’economia italiana quest’anno (dallo 0,6%, già ampiamente al di sopra del consenso negli ultimi 6 mesi, allo 0,8%), grazie alla moderazione dei prezzi energetici, mentre abbiamo ridotto la nostra previsione per il 2024 (dall’1,8% all’1,5%, che resta peraltro al sopra della stima media di consenso), sulla scia degli effetti ritardati della stretta monetaria della Bce”, conclude il senior economist della Direzione Studi e Ricerche di Intesa Sanpaolo.

Nell’anno della crisi energetica Pil Italia meglio di Usa, Cina e Germania

L’Italia, se l’Istat confermerà la sua stima nelle prossime settimane, chiuderà il 2022 con una crescita del Pil nettamente superiore a quella tedesca, a quella degli Usa e addirittura della Cina. Il dato sull’economia conferma che ha gli Usa hanno lo scorso anno in rialzo del 2,1%, registrando un inaspettato allungo nel quarto trimestre con un +2,9% contro previsioni di un +2,6%. Wall Street ha aperto così in rialzo perché forse è scongiurato lo spettro recessione, in seguito a una forte stretta sul costo del denaro impressa dalla Federal Reserve per stendere l’inflazione. Oppure se ci sarà, la contrazione non dovrebbe essere pesante. Anche i listini europei hanno accelerato dopo le 15.30. E Piazza Affari, con la seduta odierna (1,27%), ha messo a segno un balzo del 24% dal 23 settembre, il venerdì prima delle elezioni politiche.
Tornando all’economia reale, come sintetizzava la Cgia di Mestre poco prima di Natale, il 2022 è stato da record per l’Italia. “Nonostante la crescita dell’inflazione, il caro energia e il boom dei prezzi delle materie prime abbiano creato non pochi problemi a famiglie e imprese, la crescita economica italiana è stata doppia rispetto a quella registrata dai nostri principali competitors commerciali presenti nell’area dell’euro”. L’Istat meno di un mese fa prospettava una crescita economica per l’anno appena concluso di un +3,9%. Il prodotto interno lordo tedesco è salito invece dell’1,9% nel 2022 rispetto al precedente anno, secondo quanto comunicato recentemente dall’ufficio federale di statistica Destatis, in base al quale “l’economia tedesca è in ripresa nonostante le difficili condizioni di contesto”.
La Germania ha subito oltre alla crisi energetica e all’interruzione delle forniture di gas dalla Russia, anche il semi-lockdown cinese, che per Berlino negli ultimi anni aveva rappresentato lo sbocco principali degli scambi commerciali. Pechino infatti ha chiuso il 2022 con un Pil in crescita del 3%, il dato più basso degli ultimi 40 anni. A differenza dei tedeschi l’Italia invece ha potuto contare su forniture di gas, benché pagate a caro prezzo, provenienti da Algeria o Azerbaigian e di tre rigassificatori già in funzione. Inoltre il nostro Paese non era dipendente principalmente da un unico mercato. Sfruttando invece il cambio favorevole ha incrementato le esportazioni verso Usa e nuovi mercati asiatici, nonostante la chiusura della Russia.
“La crescita del Pil registrata nel 2022 dell’economia italiana (+3,9%) ci restituisce una fotografia di un Paese in grado di rimboccarsi le maniche, nonostante l’aumento dei prezzi dell’energia e la spinta inflazionistica. Le prospettive di crescita per il 2023, però, non sono così rosee: si parla di una frenata al +0,6% rispetto al 2022. E’ necessario agire subito per ribaltare questa prospettiva e preservare la crescita”, sottolineava poi Alessandro Spada, presiedente di Assolombarda. La prospettiva per quest’anno dell’Italia è nettamente ridimensionata, anche se non dovrebbe esserci una recessione. Pochi giorni fa Bankitalia ha addirittura alzato da 0,4% a +0,6% le stime sul Pil tricolore del 2023. “Il 2023 può essere l’anno, soprattutto nella seconda parte, della ripresa dopo la tempesta”, spiegava stamattina Adolfo Urso, ministro delle Imprese del Made in Italy, durante un evento di Assolombarda, dove Gregorio De Felice, chief economist di Intesa Sanpaolo, si è spinto oltre: “Se quest’anno il prezzo medio del gas fosse a 100 euro/Mwh, algebricamente avremmo una crescita all’1%”.
In questo senso appaiono confortanti le prime indicazioni ufficiali che arrivano da questo 2023. A gennaio “il clima di fiducia delle imprese aumenta per il terzo mese consecutivo raggiungendo un livello superiore alla media del periodo gennaio-dicembre 2022. L’aumento dell’indice è trainato dal comparto dei servizi e da quello dell’industria”, rivela l’Istat. Invece “il clima di fiducia dei consumatori torna a diminuire dopo due mesi consecutivi di crescita. Il ripiegamento dell’indice è dovuto soprattutto ad un’evoluzione negativa delle opinioni sulla situazione personale”, conclude l’istituto di statistica. Infatti le aspettative sulla situazione economica generale e quelle sulle disoccupazione salgono.

Ursula von der Leyen

Von der Leyen annuncia a Davos il ‘NetZero Industry Act’: Piano per l’industria a zero emissioni

Per realizzare la transizione “senza creare nuove nuove dipendenze, abbiamo un piano industriale per il Green Deal, un piano per rendere l’Europa la patria della tecnologia pulita e l’innovazione industriale sulla strada del net-zero che coprirà quattro punti chiave: il contesto normativo, il finanziamento, le competenze e il commercio”. La presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen, sceglie il palco della 53esima edizione del World Economic Forum di Davos per annunciare il Piano industriale green dell’Ue, precisando che per creare un ambiente normativo adeguato per i settori cruciali per raggiungere le zero netto (come eolico, pompe di calore, solare, idrogeno pulito) Bruxelles presenterà un nuovo ‘NetZero Industry Act’ (una Legge per l’industria a zero emissioni) che – a detta di von der Leyen – identificherà obiettivi chiari per la tecnologia pulita europea entro il 2030. L’obiettivo sarà “concentrare gli investimenti su aspetti strategici e progetti lungo tutta la filiera”, in particolare “come semplificare e accelerare le autorizzazioni per nuovi siti di produzione clean tech“.

In parallelo, l’Ue penserà a “come velocizzare l’elaborazione di importanti progetti di comune interesse europeo nel settore delle tecnologie pulite, più facile da finanziare e di più facile accesso per le piccole imprese e per tutti gli Stati membri”. A quanto riferito da von der Leyen, il futuro ‘Net-ZeroIndustry Act’ andrà di pari passo con il ‘Critical Raw Materials Act’, la legge dell’Ue sulle materie prime critiche la Commissione dovrebbe presentare quest’anno. “Per le terre rare che sono vitali per le tecnologie chiave per la produzione – come la produzione di energia eolica, lo stoccaggio dell’idrogeno o le batterie – l’Europa oggi è dipendente per il 98% da un paese: la Cina”, ricorda von der Leyen. Quindi, “dobbiamo migliorare la raffinazione, lavorazione e riciclaggio delle materie prime qui in Europa”.

Per la presidente della Commissione Europea, Davos è anche l’occasione per sottolineare le preoccupazioni di Bruxelles per il piano contro l’inflazione Usa, l’Inflation Reduction Act (Ira), che prevede sussidi verdi per 369 miliardi di dollari varato dall’amministrazione Biden in agosto. Perché “la tecnologia pulita è ora il settore di investimento in più rapida crescita in Europa”, ed è un bene che “altre grandi economie lo stiano intensificando”. Però, c’è un però. Perché da parte Ue restano “alcuni elementi del progetto dell’Ira che hanno sollevato un certo numero di preoccupazioni e per questo abbiamo lavorato con gli Stati Uniti per trovare soluzioni, ad esempio in modo che anche le aziende dell’Ue e le auto elettriche prodotte nell’Ue possano beneficiare” degli incentivi dell’Ira. Il nostro obiettivo – aggiunge von der Leyen – dovrebbe essere quello di “evitare interruzioni nel commercio e negli investimenti transatlantici”. Concorrenza e commercio sono “la chiave per accelerare la tecnologia pulita e la neutralità climatica”.