L.Bilancio, Cgil-Uil: “Del tutto inadeguata, sciopero il 29/11”. Meloni: “C’è pregiudizio”

La manovra del governo è “del tutto inadeguata“. Per questo, Cgil e Uil proclamano 8 ore di sciopero generale, con manifestazioni territoriali, per venerdì 29 novembre. L’annuncio, dei segretari generali Maurizio Landini e PierPaolo Bombardieri avviene in conferenza stampa, nella sede della Uil, a pochi giorni dalla convocazione dei sindacati a Palazzo Chigi, martedì 5 novembre.

C’è un piccolissimo pregiudizio da parte di Cgil e Uil“, risponde la premier, Giorgia Meloni, lamentando di aver già ascoltato le loro richieste. “Volevano la diminuzione del precariato ed è diminuito, l’aumento dell’occupazione, più soldi sulla sanità e abbiamo messo più soldi sulla sanità. Se nonostante questo confermano lo sciopero non siamo più nel merito“, tuona nello studio di Bruno Vespa.

Anche la Lega reagisce: “Due sindacati italiani di estrema sinistra scioperano contro l’aumento dello stipendio per 14 milioni di lavoratori dipendenti fino a 40.000 euro di reddito? Ridicoli“, sferza il partito di Matteo Salvini, che ringrazia “quei rappresentanti dei lavoratori che, seppur a volte critici nell’interesse dei loro iscritti, fanno delle proposte e non solo proteste”.

Al tavolo della conferenza di Cgil e Uil manca il leader della Cisl, Luigi Sbarra. “Perché non è al tavolo di questa conferenza? Mi pare abbia detto che la manovra va bene, ci sono differenti valutazioni evidentemente“, la stoccata di Landini. Che il segretario di Cisl non incassa: “A Maurizio Landini consigliamo vivamente di rivestire i panni del sindacalista e di smetterla di fare da traino a un’opposizione politica che non ha davvero bisogno di collateralismi”, risponde da Firenze a margine del Consiglio Generale della Cisl Toscana.

La mobilitazione è stata indetta per chiedere di cambiare “profondamente” la manovra, rivendicare l’aumento del potere d’acquisto di salari e pensioni e il finanziamento di sanità, istruzione, servizi pubblici e politiche industriali. “Abbiamo aspettato“, spiega Bombardieri, “abbiamo studiato il testo consegnato alle Camere, le valutazioni che facciamo ci portano a proclamare lo sciopero“. Il sindacalista lamenta una convocazione tardiva a Palazzo Chigi, martedì 5 novembre, quando ci saranno ormai con pochi margini di cambiamento. Ma assicura: “Se il Governo dovesse accettare le nostre proposte, siamo pronti a rivedere lo sciopero“. Più tranchant Landini: “Il governo ci ha convocati a cose fatte, ma noi chiediamo che siano operati dei cambiamenti profondi e radicali, a partire da una profonda riforma fiscale“. Perché, osserva, far quadrare i conti “si può agire anche sulle entrare“. Cioè, appunto, con una riforma fiscale che è “il contrario di quella che sta portando avanti il governo e che non è stata discussa con nessuno“. Il segretario della Cgil ricorda che la legge di Bilancio è legata alla scelta politica che il governo ha fatto di presentare all’Europa un Piano Strutturale che “vincola il Paese a sette anni di tagli alla spesa pubblica“.

Anche il taglio del cuneo fiscale reso strutturale viene ridimensionato dai sindacalisti. “E’ la Fontana di trevi venduta da Totò: sono tre anni che lo rinnovano“, ironizza il leader della Uil. “E’ vero, è stato strutturato. Ma dobbiamo dire che il fatto che diventi strutturale non comporta l’aumento nemmeno di un euro dei salari in busta paga”, aggiunge.

Alle richieste fatte dalle parti sociali, invece, non c’è stata risposta, denunciano i segretari, né sulla detassazione degli aumenti contrattuali, né sugli aumenti per sanità, scuola, spesa sociale. E poi, ricorda Landini: “Il taglio del cuneo ce lo stiamo pagando noi con gli interessi, perché il cuneo costa 12 miliardi”.

Molto grave, tra le misure in manovra, è giudicato il taglio da 4,6 miliardi del fondo auto: “E’ una cosa che grida vendetta“, secondo Landini. Questo taglio, precisa, non è uno sgarbo a Stellantis, ma “un pugno in faccia a un settore strategico del nostro Paese“. Su questo punto i sindacati si dicono pronti a scrivere assieme alla categoria: “Serve che la presidenza del Consiglio convochi i sindacati con il gruppo e le aziende della componentistica, perché è necessario a partire da questo settore, che ci siano politiche industriali degne di questo nome“.

Ue, Borchia (Lega): “Obiettivo è modificare Green Deal, sia più sostenibile”

“Stiamo parlando del terzo gruppo del Parlamento Europeo, con dodici nazionalità rappresentate da 84 deputati per cui numericamente” si tratta di “una composizione importante che parte con diversi obiettivi. In primo luogo, l’idea è quella di modificare il Green Deal, tenendo presente che abbiamo bisogno di riuscire a produrre. a lavorare. a spostarci e alimentarci con l’obiettivo della sostenibilità. Però, contestualmente, dobbiamo tenere presente – come altri gruppi hanno già ravvisato ma soltanto in campagna elettorale, quindi senza la coerenza che ci ha caratterizzato negli ultimi cinque anni – che serve un Green Deal che sia maggiormente sostenibile non soltanto dal punto di vista ambientale”. Lo ha detto a GEA ed Eunews Paolo Borchia, capodelegazione della Lega al Parlamento europeo. “Anche perché – ha aggiunto – dobbiamo lavorare sia sulla competitività delle nostre imprese sia sulla possibilità di riuscire a dare ai nostri cittadini il potere d’acquisto che attualmente il mondo reale ci segnala come probabilmente la problematica maggiormente sentita”.

Europee, Fdi ancora primo e Forza Italia supera la Lega. Sorpresa Pd e Avs, Renzi e Calenda fuori

Una conferma e diverse sorprese, sia in senso positivo che negativo. Prima di tutto, però, va sottolineato il dato dell’affluenza, che si ferma al 49,69 percento, un brusco passo indietro rispetto al 56,09 di cinque anni fa, ma anche nel confronto con il 63,91 del 2022. Le urne delle elezioni europee consegnano una fotografia del Paese che, tutto sommato, rispecchia l’attuale composizione di Parlamento e governo, con Fratelli d’Italia che si attesta al 28,8% aumentando di quasi tre punti percentuali la sua performance rispetto alle Politiche, ma diminuendo il numero di voti assoluti di oltre 700mila (nel 2022 furono 7,3 milioni, quasi due anni dopo sono 6,7 milioni). Alle sue spalle si piazza il Partito democratico, tra le rivelazioni di questa tornata, che balza al 24,08% con un buon recupero di preferenze: 5,6 milioni contro i 5,3 milioni di due anni fa. Un’altra, inaspettata sorpresa è sempre nel campo progressista, con l’Alleanza verdi sinistra che per la prima volta nella sua storia sfonda il muro del 6% e per lunghi tratti dello spoglio si è avvicinata al 7.

Chi trae nuova linfa vitale da queste europee è sicuramente Forza Italia, che proprio alla vigilia delle commemorazioni del primo anno dalla scomparsa del suo fondatore e leader, Silvio Berlusconi, sorpassa la Lega nella partita interna al centrodestra. Gli azzurri di Antonio Tajani, infatti, si attestano al 9.61% (2,2 milioni di voti) e staccano gli alleati del Carroccio, fermi al 9 percento, che resta un risultato accettabile per i vertici, considerando che alle Politiche presero l’8,77. Se si contano le preferenze, invece, il discorso cambia, perché il gruppo guidato da Matteo Salvini nel 2022 fu scelto da oltre 2,4 milioni di italiani mentre adesso solo da quasi 2,1 milioni. Nel complesso, la tenuta della Lega è soprattutto merito del generale, Roberto Vannacci, che prende in totale oltre 541mila voti sommando i risultati delle cinque circoscrizioni in cui era candidato. In questo senso, tra le sorprese c’è sicuramente il sindaco uscente di Bari, Antonio Decaro, presidente dell’Anci, che in una sola circoscrizione, quella meridionale, taglia il traguardo delle 496mila preferenze.

Capitolo a parte merita il Movimento 5 Stelle, vero sconfitto di queste consultazioni assieme alla lista Stati Uniti d’Europa di Matteo Renzi ed Emma Bonino (3,76% e 875mila preferenze) e Azione-Siamo europei di Carlo Calenda (3,35 percento e 778mila voti). Ma è clamoroso il crollo dei pentastellati di Giuseppe Conte, finiti un filo sotto il 10% (9,99 per la precisione), con 2,3 milioni di voti: il peggior risultato della sua storia, ma soprattutto una debacle in confronto al 15,4 percento delle politiche, quando ottenne la fiducia di 4,3 milioni di italiani. Se la macchina del tempo resta al 2022 fa parecchio rumore anche il doppio tonfo di Calenda e Renzi, che all’epoca, uniti nel progetto di Terzo Polo, portarono a casa il 7,79% e oltre 2,1 milioni di voti, mentre oggi, divisi, non superano la soglia di sbarramento e rimangono fuori dal prossimo Parlamento Ue.

Fuori dai giochi anche tutto il resto delle liste che si erano presentate: da Libertà di Cateno De Luca e dell’ex vice ministra dell’Economia, Laura Castelli, a Pace terra e dignità di Michele Santoro, ad Alternativa Popolare di Stefano Bandecchi, Partito animalista-Italexit per l’Italia e Democrazia sovrana popolare.

Stellantis, Pd-Avs-M5S per entrata dello Stato, c.destra e Iv frenano. Sindacati: Serve tavolo

La bomba Stellantis deflagra nel dibattito politico italiano. A far detonare la polemica è il botta e risposta dai toni decisamente duri tra l’ad del gruppo, Carlos Tavares, e il ministro Adolfo Urso. Al manager che, in sintesi, attribuisce ai governi lo scarso appeal del mercato delle auto elettriche per la scarsità degli incentivi, il responsabile del Mimit replica in maniera puntuta: “Se chiede che l’Italia faccia come la Francia, che ha cambiato la sua partecipazione statale, ce lo chieda e possiamo ragionare insieme”. Da qui parte, o per meglio dire riparte, il fuoco di fila delle dichiarazioni.

Carlo Calenda, che da tempo cavalca il tema, potendo mettere sul tavolo anche la sua esperienza al Mise, ingrana la marcia: “Oramai è chiaro che Stellantis è francese e che tratterà l’Italia come un qualsiasi altro mercato. Elkann rimane chiuso in uno sprezzante silenzio, parla Tavares perché comanda solo lui”. Il segretario di Azione ha un’idea chiara sul da farsi: “La risposta del governo al ricatto di Stellantis non deve essere quella di farsi trascinare in un’asta annuale a rialzo sui sussidi pubblici”, piuttosto serve un “Piano competitività nazionale per tutte le aziende articolato su tre punti: industria 4.0 allargata ad ambiente ed energia, formazione 4.0, messa a terra degli Its su cui si sta andando lentissimi e diminuzione del costo dell’energia attraverso la redistribuzione dei proventi delle aste Ets come fanno in Germania”.

Molto attivo è anche l’ex ministro del Lavoro, Andrea Orlando. “E’ importante stabilire una linea, magari prendendo per buona la sfida di Tavares ed entrando nel capitale e nel Consiglio di amministrazione, ma mettendo condizionalità sugli incentivi e sui trasferimenti”. Dura anche la segretaria dem, Elly Schlein: “Il governo non può tacere di fronte alle minacce dell’ad, gli incentivi siano condizionati in modo vincolante alla tutela dei posti di lavoro e alla riduzione delle emissioni”. Inoltre, è il momento di “studiare concretamente la strada della partecipazione pubblica per incidere sulla strategia aziendale”. A Schlein, però, replica Calenda. “No Elly, Tavares non ha lanciato una sfida, ha lanciato una minaccia e un ricatto incentivi contro posti di lavoro sulla pelle di 40mila lavoratori. E’ ora che il Pd si faccia sentire”.

Anche Avs apre all’entrata dello Stato. “Con le condizioni di un piano industriale verso l’elettrico, sarebbe un’ipotesi da prendere in considerazione”, spiega Angelo Bonelli. Per il M5Ssenza uno straccio di politica industriale, il governo Meloni non può che fare la figura dello zimbello degli Elkann e dello Stato francese”, sostiene il vicepresidente pentastellato, Mario Turco, secondo il quale “una presenza dello Stato nel capitale della società si rende necessario, a patto che si sia in grado di impostare una politica industriale”.

Non la pensano così in maggioranza. Di sicuro non in Forza Italia: “D’accordo tutelare l’occupazione ma noi siamo per liberalizzazioni e privatizzazioni. Adesso che cosa facciamo, entriamo nel capitale delle aziende private?”, mette in chiaro il capogruppo alla Camera, Paolo Barelli, intervistato da Affaritaliani.it. Fratelli d’Italia se la prende con Tavares: “Continua a lamentarsi della mancanza di incentivi all’elettrico, ormai sembra un disco rotto”, dice il senatore Gianpietro Maffoni. La Lega non si esprime sulla partecipazione pubblica, ma fa sapere che sarà attenta alla difesa dei diritti di tutti i lavoratori: “Le aziende che per anni hanno incassato miliardi non si permettano di minacciare o ricattare”. Voce fuori dal coro delle opposizioni è quella di Italia viva: “Appartengo a quella sparuta minoranza che ritiene piuttosto che lo Stato sia stato più spesso un problema che una soluzione“, sostiene il deputato ed economista, Luigi Marattin.

Oltre alla politica ci sono anche i sindacati. Fiom e Cgil non sarebbero contrari a una partecipazione pubblica in Stellantis, ma chiedono che Meloniconvochi un incontro con Tavares e sindacati per parlare di quello che conta veramente: livelli di produzione e occupazione negli stabilimenti italiani”. Il segretario generale della Cisl, Luigi Sbarra, chiede all’esecutivo di farsi “garante di un patto tra istituzioni, impresa e sindacati sul rilancio del settore auto nel nostro Paese”. Va più sul pratico il leader della Uil, Pierpaolo Bombardieri: “La nostra prima preoccupazione è sui livelli occupazionali, ma continuiamo a ritenere che questo governo abbia poche idee e confuse. Come si fa a dire che vendiamo pezzi di Eni e Poste ma compriamo un pezzo di Stellantis? – si domanda -. Si parla di incentivi, ma per cosa: per comprare auto che vengono dalla Cina? Incentivi alla produzione o agli investimenti? Occorre avviare un confronto con sindacati, azienda e governo chiarendo le linee di politiche industriali per i prossimi anni”. La partita, comunque, resta aperta e il triplice fischio decisamente molto lontano.

Borchia (Lega): “Decarbonizzare senza colpire le imprese si può, ma dando più tempo”

Quella che si pone l’Unione Europea, se non è una missione impossibile, resta “la transizione difficile”. Tra obiettivi che non sembrano realistici nei modi e nei tempi di raggiungimento e resto del mondo non intenzionato a seguire il Vecchio continente, Paolo Borchia (Lega/Id), membro della commissione Industria del Parlamento europeo, nutre dubbi e perplessità sull’agenda di sostenibilità dell’Unione europea. Perché da una prospettiva globale, spiega nell’intervista concessa a GEA, “senza l’impegno dei grandi inquinatori siamo di fronte ad un bagno di sangue che produce risultati limitati rispetto alla totalità del problema”. Il riferimento è in particolare a Cina e India, Paesi che possono assestare un duro colpo al tessuto produttivo dell’Unione e dei suoi Stati membri, Italia compresa.

Tra normative Ue e loro impatto sull’economia come si realizzano gli obiettivi di decarbonizzazione senza mettere in crisi l’industria, europea e italiana?

“Rifondando il Fit for 55. A fronte della condivisibilità di un obiettivo riteniamo che sia stata impostata una tabella di marcia che a livello dei tempi è insostenibile, e contestualmente a livello di strumenti è discutibile. Per contestualizzare su un dossier arrivato all’opinione pubblica, quello dell’efficienza energetica dell’edilizia e volgarmente detto ‘case green’, solo in Veneto andrebbero aperti 300 cantieri in un giorno. Questo determina un problema di numeri per quanto riguarda le imprese disponibili e di disponibilità dei materiali. Non vorremmo trovarci un’Italia popolata di imprese edili improvvisate”.

Quindi decarbonizzare tutelando le imprese si può?

“E’ possibile. Se guardiamo all’Italia, l’industria italiana negli ultimi anni è molto impegnata negli investimenti per la sostenibilità di impresa. Gli obiettivi europei sono raggiungibili a patto che si rispetti la neutralità tecnologica e che si dia la possibilità alla tecnologia di maturare, e consentirci così di emettere meno CO2 a prezzi sostenibili”.

Questa CO2 a prezzi sostenibili come si raggiunge? Con incentivi?

“Non possiamo pensare di fare spesa pubblica ad libitum. La risposta è economia di scala e più tempo. Solo sulle ‘case green’, se sulla direttiva si cambia qualche scadenza magari determinati prodotti una volta che passano da prodotti di nicchia a prodotti di alto consumo danno la possibilità di spendere meno”.

A proposito di spendere, il prezzo della carbonizzazione chi lo paga? Se le imprese lo scaricano sul consumatore ce la facciamo?

“La transizione ecologica sta diventando un affari per ricchi. Timmermans rappresenta quella sinistra di facciata che non si preoccupa della fasce meno abbienti della popolazione. Pensare che questa fascia di popolazione riesca, di tasca propria, a farsi carico di queste spese, io lo trovo inverosimile”.

L’Inflation reduction act è una minaccia in più per le nostre imprese, europee ed italiane?

“Nell’ambito della competizione globale, alcuni attori saranno aiutati e altri dovranno fare i conti con la disciplina sugli aiuti di Stato che viene strenuamente difeso da Vestager. E’ inutile nascondere che le preoccupazioni ci sono eccome. Un aspetto chiave sarà la direzione del nuovo patto di stabilità e crescita, se si chiuderà un occhio sugli investimenti per la decarbonizzazione”.

Più che dell’Ira degli Stati Uniti il problema è dunque la legislazione di casa nostra?

“Sulla decarbonizzazione mi sembra ci sia un’Europa che corre senza avere dei mezzi e degli strumenti, con un resto del mondo che vivacchia. Mi sembra paradossale, perché se guardiamo ai pesi in termini di emissioni non giustificano un impianto che sia un impianto così restrittivo e pericoloso per quanto riguarda la competitività delle nostre imprese. Già ci si lamenta per i costi dell’energia, se poi si crea un elemento di ulteriore criticità sulla base normativa… Io non nascondo che sono molto preoccupato perché non vorrei che questo impianto fosse il colpo di grazia per la competitività dell’industria europea. Senza dimenticare che le zelanti politiche europee in materia di clima ed energia sono tra le cause principali dell’aumento dei prezzi dei prezzi energetici”.

Tags:
, ,

Lega a Ue: Contro caro-energia sbloccare uso camini nel Nord Italia

Usare i camini per riscaldare le case, quale risposta al caro-bollette. Può sembrare la soluzione più semplice per chi dispone di vani per ardere legna, e probabilmente c’è chi già ci sta pensando. Peccato che gli italiani non potrebbero, e la Lega ora chiede alla Commissione europea di tornare a fare uso dello strumento di riscaldamento più tradizionale di sempre. Va chiarito che l’Europa non vieta di accendere il camino, ma l’Italia ha violato la direttiva sulla qualità dell’aria, in modo sistematico, ed è attualmente in stato di procedura d’infrazione. Bruxelles ha aperto il dossier sugli sforamenti nel 2014, e nel 2020 la Corte di giustizia ha constatato il superamento dei limiti di particolato (Pm10) intimando all’Italia di mettersi in regola. Si rischiano multe salate, che ricadono sui cittadini.

Gli europarlamenti della Lega, con interrogazione scritta, chiedono di “esentare, temporaneamente, e in via eccezionale, almeno per l’autunno e l’inverno 2022-2023”, Lombardia, Veneto, Piemonte, Emilia Romagna dal rispetto della direttiva del 2008 sulla qualità dell’aria, in considerazione del fatto che “l’Italia, e in particolare le regioni intorno alla pianura Padana, si trovano in eccezionali condizioni energetiche”. I sette promotori dell’iniziativa (Isabella Tovaglieri, Silvia Sardone, Alessandro Panza, Stefania Zambelli, Marco Campomenosi, Angelo Ciocca e Danilo Oscar Lancini) sottolineano che l’aumento dei costi dell’energia conseguenti all’invasione dell’Ucraina e le contingenze geopolitiche e di mercato “stanno mettendo a dura prova le famiglie europee, che dovranno affrontare un inverno rigido con prezzi dell’energia in grande aumento”. Di fronte a una tale situazione, “una delle soluzioni che molti cittadini intendono perseguire è quella di ricorrere a sistemi di riscaldamento tradizionali, quali i camini a legna”.

All’interrogazione depositata il 19 ottobre risponde Virginius Sinkevicius, il commissario per l’Ambiente. Questi ricorda che la strategia RepowerEu per l’indipendenza energetica, affronta le situazioni in cui gli Stati membri “possono prendere in considerazione un temporaneo allentamento delle norme nazionali sulle emissioni inquinanti” nell’ambito di specifici atti legislativi che disciplinano l’inquinamento alla fonte, nell’ambito dei piani di sostituzione del combustibile, “entro i limiti delle deroghe consentite dal diritto dell’Ue” . Teoricamente, dunque, si potrebbero anche accendere i camini. Il problema è la situazione dell’Italia, in piena procedura d’infrazione e con irregolarità certificate. La Commissione consente deroghe, ma l’Italia da sempre anche più che in deroga. Inoltre, continua Sinkevicius, la Commissione intende “ limitare l’impatto negativo di queste misure” di allentamento dei vin oli sulla salute e sull’ambiente, e in particolare sui suoi obiettivi generali di decarbonizzazione e disinquinamento.
Il motivo è nei numeri. L’inquinamento atmosferico causa “circa 300 mila morti premature all’anno”, oltre a “ un numero significativo ” di malattie non trasmissibili, come l’asma, i problemi cardiovascolari e il cancro ai polmoni. E’, scandisce Sinkevicius, “è la più grande minaccia ambientale per la salute ”. La situazione dei camini è dunque più intricata di quanto si possa pensare. L’Italia dovrà continuare a negoziare con la Commissione, e la parte ‘verde’ del governo Meloni dovrà farlo ancora di più se vorrà salvare la sua regione storica, la Padania.

Meloni lavora alla squadra di governo: tra i nodi il Mite

La parola d’ordine è ‘metodo’. Il tempo stringe, i dossier sono tanti e ogni giorno diventano sempre più pesanti: il nuovo governo ha al massimo un orizzonte temporale di circa 30 giorni per nascere, non perdendo un giorno in più di quelli necessari per l’espletamento dei passaggi istituzionali. Ragion per cui il centrodestra, che ha una maggioranza autonoma sia a Montecitorio che Palazzo Madama, dovrà arrivare alle consultazioni davanti al capo dello Stato con le idee chiare. Il vertice tra i leader, Giorgia Meloni (alla quale con molta probabilità andrà la premiership), Matteo Salvini e Silvio Berlusconi è nell’aria anche se una data non è stata ancora fissata. Non è escluso che possano essere invitati anche i rappresentati di Noi Moderati: Maurizio Lupi, Giovanni Toti, Lorenzo Cesa e Luigi Brugnaro. Da più voci viene ventilata l’ipotesi che possa tenersi già in queste ore, al massimo per il fine settimana. Non è escluso che il Cavaliere atterri a Roma, aprendo le porte di Villa Grande agli alleati.

Serve una squadra pronta, parafrasando lo slogan di FdI in campagna elettorale. Meloni, però, chiede ai partner di buttare giù una rosa di nomi con profili specifici per i dicasteri chiave. Una volta che la lista sarà stilata, saranno scelti almeno due profili per ruolo da sottoporre al presidente della Repubblica. Ma qui si apre il cosiddetto toto-ministri. E, di conseguenza, la partita più politica, che la leader di Fratelli d’Italia sta provando ad affrontare con prudenza e pazienza. Consapevole che il tonfo della Lega sta aprendo (inevitabilmente) una crepa attorno alla segreteria di Salvini. Difficile che il Capitano, come lo chiamavano un tempo i suoi, torni al Viminale come invece spera. Appare più realizzabile uno scenario nel quale all’Interno ci vada l’attuale prefetto di Roma, Matteo Piantedosi. All’Economia è plausibile che possa essere scelto un ministro più tecnico ma comunque di area: Fabio Panetta sarebbe la persona giusta al posto giusto, ma nei mesi scorsi il suo nome è stato ‘bruciato’ da alcune indiscrezioni sui media. I rumors rimettono in campo anche Domenico Siniscalco, già responsabile del Mef per un anno ai tempi del terzo governo Berlusconi, ma le chances non sono alte. Nelle ultime ore circola anche un nome nuovo, quello di Carlo Di Primio, attuale presidente dell’Aiee, associazione italiana economisti dell’energia, che ha alle spalle ormai oltre 40 anni di esperienza nel settore energia e rinnovabili in posizioni di vertice di grandi aziende e associazioni internazionali.

Quello dell’Economia è un nodo che si intreccia con il futuro di Mise e Mite. Con il governo di Mario Draghi l’ex ministero dell’Ambiente ha cambiato la denominazione in Transizione ecologica, acquisendo la delega di peso all’Energia. Spetta a Meloni decidere se proseguire su questa linea o riportare le competenze in capo allo Sviluppo economico. Nella prima ipotesi, una conferma di Roberto Cingolani è esclusa dal diretto interessato, ma non da chi potrebbe riproporlo al capo dello Stato. Gli altri nomi che potrebbero finire nella rosa sono quello di Fabio Rampelli, anche se le dinamiche interne a FdI rendono la sua candidatura più ‘debole’ rispetto a quella, ad esempio, del responsabile Ambiente del partito, Nicola Procaccini. La futura premier vorrebbe tenere per i suoi un ministero pesante, su cui ha giocato buona parte della campagna elettorale, promettendo il disaccoppiamento dei prezzi di gas e rinnovabili o lo sviluppo di un hub europeo con base italiana dell’energia, sfruttando le potenzialità dei gasdotti che arrivano sulla sponda sud del Paese. Se, invece, volesse riportare le deleghe al Mise allora la partita si sposterebbe su via Veneto, dove la figura di Francesco Lollobrigida (in corsa anche per le Infrastrutture) o Guido Crosetto (papabile per sia per la Difesa, come Ignazio La Russa, sia come sottosegretario alla Presidenza del Consiglio) sarebbero molto più rassicuranti rispetto a quella del leghista Giancarlo Giorgetti. Che ha ottime chance di restare nella squadra, ma non dove FdI ha puntato le fiches più pesanti.

In questo secondo scenario, dunque col ritorno al ministero dell’Ambiente, potrebbe scalare posizioni il nome di Vannia Gava, responsabile Transizione ecologica della Lega, ma soprattutto sottosegretaria al Mite con Sergio Costa, ai tempi dell’asse giallo-verde, e con lo stesso Cingolani. A lei spetterebbero, in quel caso, i compiti di traghettare l’Italia verso l’obiettivo di emissioni zero al 2030 previsto dai trattati internazionali.

Altro punto cruciale sarà quello delle Politiche agricole, alimentari e forestali. Per quel ruolo la Lega ha ottime possibilità di essere accontentata, con Gianmarco Centinaio in pole position, ma tenendo sempre aperto un canale per Massimo Garavaglia, che ha accumulato un bel po’ di esperienza (e punti) gestendo la delega al Turismo per Draghi. Non c’è solo il Carroccio da accontentare, perché Forza Italia si aspetta almeno 3, se non 4, ministeri. Almeno uno o due di quali con portafogli. Antonio Tajani è in lizza per la Presidenza della Camera (Roberto Calderoli al Senato), ma potrebbe tornare molto utile anche agli Esteri o ai rapporti con l’Unione europea. Soprattutto se Meloni deciderà di portare avanti il suo piano per fare il ‘tagliando’ al Pnrr, per la parte di progetti non ancora partiti.

Per ora si tratta di rumors, spifferi che passano nei corridoi dei palazzi romani della politica. Per verificare quante di queste voci si riveleranno attendibili, comunque, non passerà molto tempo. Perché è quello che manca all’Italia: l’orologio corre veloce e i problemi sono tutti lì, che aspettano di essere risolti.

Draghi

Draghi vede sindacati, a luglio dl Aiuti “corposo”. Ma c’è incognita M5S

Novanta minuti per aprire un canale di dialogo con i sindacati, ma forse anche per lanciare messaggi alla sua maggioranza. Mario Draghi non parla di cifre, né di contenuti, se non per grandi linee, con i segretari di Cgil, Cisl e Uil, ma sonda il terreno per capire il clima che si respira in una fetta importante delle parti sociali sul suo governo. Si rivedranno entro una decina di giorni, tra il 25 e il 27 luglio, prima comunque che sul tavolo del Consiglio dei ministri arrivi il nuovo decreto Aiuti, che lo stesso premier definisce “corposo, prendendo in prestito le parole del suo sottosegretario alla Presidenza, Roberto Garofoli. “Ci sarà un intervento prima della fine di luglio che riguarderà prima di tutto gli strumenti per mitigare l’effetto dell’aumento del prezzo dell’energia“, dice in una conferenza stampa con i ministri Andrea Orlando e Giancarlo Giorgetti, per fare il punto dopo l’incontro con i sindacati.

Però “il dettaglio preferisco non anticiparlo in questo momento, quando è ancora in corso la valutazione, ma le aree su cui verterà sono comunque simili a quelle già trattate nel passato: bollette, accise sulla benzina e il gasolio. Poi ci saranno anche altri interventi“. Molto probabilmente la siccità, che continua a essere un problema enorme per l’agricoltura, ma non solo.

Draghi sa, comunque, che prima va superato lo scoglio più grande. Che riguarda, però, le fibrillazioni interne alla sua maggioranza. O meglio, dei Cinquestelle, che domani in Senato potrebbero astenersi dal voto di fiducia sul decreto Energia 2, che coincide con il voto finale, certificando di fatto la crisi di governo. Giuseppe Conte stamattina alle 8.30 riunirà il Consiglio nazionale, dove verrà presa la decisione finale. Ma il pressing è alto sul Movimento. L’ex capo politico, oggi fondatore di Ipf, Luigi Di Maio, spende parole durissime: “C’è una forza politica che sta generando instabilità, mettendo a repentaglio degli obiettivi da raggiungere per il Paese“. Nello specifico price cap sul gas, interventi per mitigare i rincari delle bollette e dei generi alimentari. Per il ministro degli Esteri “giovedì sarà la verifica di maggioranza” invocata da Silvio Berlusconi. Non serve altro. Sulla stessa linea sembra essere anche Draghi, che rimanda la palla nel campo di Sergio Mattarella sul punto specifico: “Se devo tornare davanti alle Camere lo decide il presidente della Repubblica“.

Però l’ex Bce, ribadendo che senza M5S non c’è il governo, nemmeno un Draghi-bis, un passo in più lo fa. Rivolgendosi, indirettamente, anche alla Lega, quando dice: “Con gli ultimatum non si può lavorare. Chi non ha piacere e non trova soddisfazione nei risultati di questo esecutivo, lo dica chiaramente“. Senza aspettare settembre (vedi alla voce Carroccio, in chiave raduno di Pontida) o risposte entro fine mese ai 9 punti portati a Palazzo Chigi da Conte: “Quando mi è stata consegnata la lettera ho trovato molti punti di convergenza con l’agenda del governo“, dice Draghi. Aggiungendo che se si trova anche un’intesa con i sindacati per portare a casa le misure “sono molto contento io, e forse anche lui“, riferendosi all’ex presidente del Consiglio.

A sentire il segretario della Cisl, Luigi Sbarra, un accordo non è lontano: “Quello di oggi è stato un incontro positivo, potenzialmente decisivo. Abbiamo chiesto di prorogare le misure contro i rincari di energia e materie prime, il taglio delle accise sui carburanti, ampliare la platea dei beneficiari degli sconti in bolletta, valutare la conferma del bonus dei 200 euro recuperando quei lavoratori precari, stagionali, autonomi, pensiamo agli operai agricoli, tolti dal decreto Aiuti“.

Per Maurizio Landini, invece, non c’è nulla di concreto ancora: “Abbiamo accolto positivamente il fatto che si incontreranno di nuovo con noi prima di prendere decisioni, quindi valuteremo il 26 o 27 luglio le risposte: oggi, da parte del governo, non sono stati fatti né numeri, né dimensioni, né indicazioni che lasciano intendere cosa vogliono fare“. Il leader della Cgil vuole misure strutturali subito, senza aspettare la legge di Bilancio. E lo stesso chiede Pierpaolo Bombardieri della Uil.

Draghi risponde poche ore dopo. “Il governo non è che non ha fatto nulla, abbiamo già fatto molto per famiglie e imprese: abbiamo stanziato 33 miliardi di euro“, ma oltre al prossimo decreto con gli aiuti “ora è importante mettere in campo misure strutturali per incrementare i salari, incrementare il netto salariale“. Sempreché domani si ricomponga la frattura in Senato con i Cinquestelle. Il passaggio è cruciale ma, considerati i fatti, dall’esito ancora pericolosamente imprevedibile.

Danilo Oscar Lancini

Green deal, Lancini (Lega): “Una bella cosa, ma l’industria non è pronta”

“Il Green Deal è una bella cosa, ma il mondo produttivo non è pronto”. Danilo Oscar Lancini nella transizione sostenibile ci crede, ma non nel modo in cui l’Europa intende puntarci. L’europarlamentare della Lega, membro della commissione Commercio internazionale e membro sostituto della commissione Industria, non ha dubbi. “Ci stiamo facendo del male da soli”, confida nell’intervista concessa a GEA, a cui spiega che si è finito per perdere di vista la realtà.

Che rischi pongono guerra in Ucraina e crisi energetica derivante per la transizione verde e il Green Deal europeo?
“Di accelerarla nei tempi, e di peggiorarla negli obiettivi. Solo che l’industria non lo sa, non tutta almeno. Lo sanno bene quelli dell’acciaio, che pagheranno il prezzo più alto”.

Quindi il Green Deal non serve più?
“L’obiettivo di tutela climatica è giusto, ma stiamo esagerando in termini di tempo e obiettivi. C’è bisogno di programmazione, ma per le aziende programmazione vuol dire cinque-dieci anni, non cinque-dieci mesi”.

Perciò anche uscire gradualmente dalla dipendenza energetica russa, invece di un embargo immediato, non è la giusta risposta?
“Non sono termini compatibili con il mondo produttivo di oggi. Quando si pongono degli obiettivi occorre offrire un’alternativa, che non c’è. Si parla di idrogeno, ma quale? Quello verde è quello che deriva da elettricità prodotta da eolico e fotovoltaico, che non abbiamo. Succederà che delle aziende chiuderanno, altre delocalizzeranno per produrre in Paesi extra-europei che non hanno i nostri standard, col risultato di aver perso eccellenza, lavoro, e vedere vanificato lo sforzo do sostenibilità per via Paesi che se ne fregano dei nostri standard. Le regole europee sono giuste, intendiamoci. Ma si è trasformato un giusto interesse nell’ambiente in una questione ideologica. Ci sono regole giuste che però nessun altro segue. Rischiamo di non essere competitivi su altri mercati, e di darci la zappa sui piedi”.

Quindi il problema per la transizione verde è che è stata a livello Ue? La vorrebbe a livello Wto, magari?
“Quante volte gli americani hanno rispettato l’organizzazione mondiale del commercio?”.

Il gas naturale liquefatto degli Stati Uniti è una valida alternativa a quello russo?
“Ce lo vendono al 30% in più del gas che compriamo adesso. Ma dal punto di vista climatico invece quanto ci costa? Viene trasportato per nave, che usano carburanti a elevate emissioni di CO2, e prima ancora viene estratto attraverso la frantumazione delle rocce, che è devastante per ambiente e impatto ambientale. Dov’è la coerenza con questa scelta? Oltretutto, siccome le navi inquinano, ci metti il sistema Ets, e quindi il costo finale aumenta. Ci sarà un aumento dei costi dell’energia, ma se aumenta il prezzo dell’energia poi aumenta tutto”.

Ha detto che non abbiamo fotovoltaico né solare. Ma stiamo investendo all’estero su questo…
“Ma non possiamo immaginare di trasportare energia elettrica per migliaia di chilometri. Possiamo produrci idrogeno per poi immetterlo nelle nostre reti. Ma dimentichiamo che produciamo in casa degli altri, che non è proprio affidabile. Anche qui, dov’è la coerenza con l’indipendenza energetica e strategica?”.