Allarme Onu: 95% Paesi ritardano consegna piani su obiettivi climatici

Quasi 200 paesi in tutto il mondo hanno avuto tempo fino ad oggi per presentare all’Onu la loro nuova tabella di marcia sul clima. Ma quasi tutti hanno saltato l’appuntamento, alimentando il timore di un ‘attendismo’ delle principali economie nella loro lotta contro il cambiamento climatico dopo il ritorno di Donald Trump. Secondo un database delle Nazioni Unite, solo 10 firmatari dell’accordo di Parigi hanno presentato le loro strategie aggiornate per ridurre i gas serra entro il 2035 entro la scadenza del 10 febbraio.

Di fatto, mentre il Regno Unito, la Svizzera e il Brasile (che ospiterà la COP30 a novembre) hanno presentato i loro piani, altri mancano all’appello, e non ultimi: Cina, India e Unione Europea, ad esempio. Quanto al piano presentato dagli Stati Uniti sotto l’amministrazione Biden, è probabile che resti lettera morta, vista la rielezione di Donald Trump, che ha annunciato un nuovo ritiro del suo Paese dall’accordo di Parigi. Questo ritiro è “chiaramente una battuta d’arresto” per la diplomazia climatica e potrebbe spiegare l’atteggiamento attendista di altri paesi, afferma Ebony Holland del think tank International Institute for Environment and Development (IIED). “Sono chiaramente in corso importanti cambiamenti geopolitici che si stanno rivelando complicati per la cooperazione internazionale, soprattutto su grandi questioni come il cambiamento climatico“, ha osservato.

L’accordo di Parigi impone ai firmatari di rivedere regolarmente i propri impegni di decarbonizzazione, denominati “contributi determinati a livello nazionale” (NDC nel gergo delle Nazioni Unite). Questi testi spiegano nel dettaglio, ad esempio, come un paese intende procedere per sviluppare energie rinnovabili o abbandonare il carbone. Tali strategie mirano a riflettere la quota che ciascun Paese sta assumendo per contenere il riscaldamento globale ben al di sotto dei 2°C e a proseguire gli sforzi per limitarlo a 1,5°C rispetto all’era preindustriale. Per raggiungere questo obiettivo, le emissioni globali, che non sono ancora in calo, devono essere dimezzate entro il 2030.

Tuttavia, secondo l’Onu, le precedenti tabelle di marcia stanno portando il mondo, già più caldo di 1,3°C, verso un riscaldamento catastrofico compreso tra 2,6°C e 2,8°C. A questo livello, le ondate di calore, la siccità e le precipitazioni estreme, già in aumento, diventeranno estreme, accompagnate da un aumento delle estinzioni delle specie e da un innalzamento irreversibile dei livelli del mare. Il ritardo nella presentazione degli Ndc, i cui obiettivi non sono giuridicamente vincolanti, non comporta alcuna sanzione. Anche l’ONU sui cambiamenti climatici ha riconosciuto queste scadenze: il suo segretario esecutivo Simon Stiell, che descrive gli NDC come “i documenti di politica pubblica più importanti del secolo“, ha ritenuto “ragionevole prendersi un po’ più di tempo per garantire che questi piani siano della massima qualità“.

Secondo un funzionario delle Nazioni Unite, più di 170 paesi hanno dichiarato che intendono presentare i loro piani quest’anno, la maggior parte dei quali prima della COP30. “Al più tardi, il team della segreteria avrebbe dovuto riceverli entro settembre“, ha aggiunto il segretario esecutivo della Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (UNFCCC), durante un discorso pronunciato in Brasile. Alcuni paesi devono chiarire la loro visione, riconosce Linda Kalcher, direttrice esecutiva del think tank europeo Strategic Perspectives. Ma “ciò che preoccupa è che se troppi paesi restano indietro, si potrebbe dare l’impressione che non abbiano la volontà di agire“, teme.

Oltre al ritorno di Donald Trump, i leader di molti Paesi sono alle prese con l’inflazione, il debito o l’avvicinarsi di elezioni importanti, come in Germania. Anche l’Unione Europea si trova ad affrontare l’ascesa di partiti di estrema destra ostili alle politiche sul clima. Tuttavia, il blocco dei 27 paesi intende presentare la propria tabella di marcia “ben prima” della COP30 e intende continuare a essere “una voce preminente per l’azione internazionale sul clima“, ha assicurato un portavoce. Per quanto riguarda la Cina, il più grande inquinatore al mondo e il più grande investitore nelle energie rinnovabili, si prevede che quest’anno presenterà il suo attesissimo piano. Finora, secondo Climate Action Tracker, che critica gli ultimi aggiornamenti provenienti da Emirati Arabi Uniti, Stati Uniti, Nuova Zelanda e Svizzera, poche strategie si sono rivelate all’altezza. Secondo questo gruppo di ricerca, solo il Regno Unito se la cava bene.

Trump sceglie Jacobs alla guida del Noaa: fu al centro del ‘Sharpiegate’

Si chiama Neil Jacobs, è un celebre meteorologo ed è stato nominato dal presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, alla guida della National Oceanic and Atmospheric Administration (NOAA), cioè l’agenzia Usa che si occupa di previsioni meteorologiche, monitoraggio delle condizioni oceaniche e atmosferiche e tracciamento di mappe dei mari. L’esperto aveva già guidato l’agenzia dal 2018 al 2021, ma era stato bersaglio di critiche per il suo ruolo nel cosiddetto ‘Sharpiegate’, uno degli episodi più strani della prima presidenza Trump.

La controversia era scoppiata nel settembre 2019, quando Trump aveva affermato, sulla base di informazioni non aggiornate, che l’uragano Dorian avrebbe colpito l’Alabama. Il servizio meteorologico locale (NWS) aveva negato con forza queste affermazioni per evitare il panico, ma il repubblicano aveva mantenuto la propria posizione, rafforzata da una serie di tweet e da una mappa (rivelatasi poi non vera) sulla quale era stata aggiunta una linea con un pennarello nero per includere l’Alabama nel possibile percorso dell’uragano.

La NOAA, allora guidata da Neil Jacobs, aveva rilasciato una dichiarazione a sostegno della posizione di Donald Trump, suscitando la costernazione dei meteorologi. In seguito, l’intervento di Jacobs e di altri nello Sharpiegate era stato messo sotto indagine dall’autorità di regolamentazione. Indagine sostenuta dal Congresso perché “non basato sulla scienza e in gran parte dovuto a influenze esterne”.

Ecco perché la nuova nomina di Neil Jacobs ha attirato le critiche degli scienziati. “Se i dati utilizzati per proteggere le persone e l’economia diventano meno affidabili, il risultato sarà un danno molto reale per tutti, specialmente per coloro che sono in prima linea nella crisi climatica”, spiega Rachel Cleetus dell’Union of Concerned Scientists. Se Jacobs verrà confermato nell’incarico, ha aggiunto, dovrà “impegnarsi a rispettare l’integrità scientifica della NOAA e a resistere a qualsiasi tentativo di smantellarla o di commercializzare il suo lavoro di previsione, come richiesto dai sostenitori del ‘Progetto 2025’”.

Il ‘Progetto 2025‘, un documento di 900 pagine del think tank conservatore Heritage Foundation, chiede la distruzione della NOAA, accusata di essere uno dei “principali motori dell’industria dell’allarme climatico”. Il documento auspica anche la privatizzazione dei servizi meteorologici. Donald Trump ha preso le distanze dal ‘Progetto 2025’ durante la campagna elettorale, ma il piano sembra prendere piede ora che è tornato al potere.

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Prendiamo a prestito il ‘Make Europa great again’ ma per rispondere a Trump

‘Make Europe great again’ è lo slogan che  coniato da Elon Musk – scimmiottando il Make America great again – e lanciato su X per sostenere la salita al governo dell’estrema destra tedesca ma  già usato a suo tempo dal premier ungherese Victor Orban. Noi lo prendiamo a prestito come stimolo -invece – per rispondere al decisionismo estremo del presidente Donald Trump. In particolare e senza dubbi sul tema dei dazi. Chi pensava che il tycoon non avrebbe messo a terra ciò che aveva promesso ai suoi concittadini durante la campagna elettorale è stato smentito. E non solo riguardo alle misure difensive/offensive in tema di economia. Ad esempio, Trump aveva aveva anticipato che sarebbe uscito dall’Accordo di Parigi e lo ha fatto; aveva garantito una politica durissima contro gli immigrati irregolari e non ha perso tempo al confine tra Usa e Messico; aveva profilato una politica energetica di assalto e infatti ha subito lanciato il ‘drill, baby, drill’.

Insomma, Trump non si sta tirando indietro soprattutto con i dazi. Prima mossa contro Canada e Messico, poi toccherà alla Cina e infine all’Europa. “che ci ha trattato male”, ha ripetuto più volte. Di qui sarebbe bello e utile che facessero davvero  ‘l’Europe great again’, nella speranza che questo slogan preso a prestito e a presa rapida come l’attaccatutto possa diventare  il vademecum per un cambio di passo da parte del vecchio Continente. Ormai ineludibile.

Di fronte alla minaccia trumpiana, solo un’Europa coesa in tutte le sue 27 componenti può resistere e provare a ricostruirsi una dignità. Se, al contrario, prevarranno gli interessi dei singoli Paesi sul bene comune, è probabile che il presidente americano stravinca questa sfida e l‘Europa diventi ancora più marginale nel contesto mondiale. Anche perché, va detto, i dazi non fanno bene a nessuno, né a chi li impone né a chi li subisce. E di dazi si può anche morire. Giusto per farsi un’idea, le esportazioni americane verso Cina, Europa, Canada e Messico valgono il 4% del Pil degli Stati Uniti, mentre le esportazioni della Cina o dell’Unione europea verso l’America valgono meno del 3% del Pil di ciascuna delle due aree. Si tratta di cifre, riscontri che devono portare a riflessioni allargate e che devono elidere l’immobilismo e la burocratizzazione. A Strasburgo e Bruxelles devono fare in fretta e bene.

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Petrolio, gas, difesa e commercio: ecco perché l’Artico fa gola al mondo

Il ghiaccio marino si scioglie e la voglia di Artico esplode. L’America di Donald Trump, i Paesi nordici, la Russia di Vladimir Putin e anche la Cina sono impegnati in una competizione per l’influenza su questo territorio, mentre si rivela il potenziale economico e il valore strategico della regione polare. “Si dice che l’Artico nel suo complesso contenga il 25% delle riserve mondiali non scoperte di idrocarburi convenzionali”, spiega Mikaa Blugeon-Mered, docente di geopolitica a Sciences Po, riferendosi a un rapporto del Servizio geologico statunitense (USGS). Ed è, quindi, facile intuire il perché delle ambizioni geopolitiche ed economiche sul territorio da parte del resto del mondo.

Il riscaldamento globale sta causando un rapido scioglimento dei ghiacci polari nell’Artico, che sta stimolando l’attività economica, compreso il turismo, nonostante l’ambiente inospitale. Secondo l’osservatorio Copernicus, l’Artico europeo è la regione che si riscalda più rapidamente al mondo.

I Paesi confinanti cercano di accedere al petrolio, al gas e ai minerali che abbondano sotto la superficie, oltre che alle vaste riserve ittiche della zona. Per quanto riguarda il Passaggio a Nord-Est, una rotta marittima al largo delle coste della Siberia che è diventata gradualmente praticabile a causa del riscaldamento globale, promette di far risparmiare tempo – da una a due settimane – e carburante per collegare l’Europa e l’Asia rispetto alla rotta tradizionale attraverso il Canale di Suez.

Ma l’Artico ha anche implicazioni militari. “Da un punto di vista geopolitico, la regione è centrale. Per gli aerei e i missili, la via più breve tra (…) la Russia e gli Stati Uniti passa attraverso l’Oceano Artico. È anche un’area dove ci sono molti sottomarini che pattugliano e dove i russi hanno le loro più grandi basi militari”, spiega Njord Wegge, professore dell’Accademia militare norvegese.

Una “linea di faglia” che sta stuzzicando l’appetito del presidente degli Stati Uniti Donald Trump, il quale ha espresso a gran voce il suo progetto di annettere l’enorme isola artica della Groenlandia. Sabato ha promesso che gli Stati Uniti “prenderanno” il territorio autonomo danese. Come, però, non è ancora chiaro.

La fine della Guerra Fredda ha inaugurato un’era di cooperazione tra gli otto Stati costieri: Norvegia, Danimarca (attraverso il territorio autonomo della Groenlandia), Svezia, Finlandia, Russia, Stati Uniti, Canada e Islanda. Ma il Consiglio Artico, che riunisce questi Paesi dal 1996, ha perso la sua capacità di azione, soprattutto dopo l’invasione russa dell’Ucraina nel 2022.

“La linea di demarcazione è di tipo militare, poiché sette degli otto Paesi della regione artica sono membri della NATO”, sottolinea Blugeon-Mered. Oltre il 50% delle coste artiche è russo e Mosca sfrutta l’area da decenni. Secondo una raccolta di dati compilata da questo ricercatore, oltre l’80% del gas russo e il 60% del petrolio sono prodotti nell’Artico. Per Max Bergmann, del think tank americano CSIS, è la Russia a rappresentare la più grande minaccia per gli Stati Uniti. “La minaccia è rappresentata dalla continua militarizzazione dell’Artico da parte della Russia e dalla nostra scarsa presenza”, dice l’esperto. Tuttavia, il ricercatore non approva l’espansionismo di Donald Trump, che considera “inutile”. A suo avviso, “prendere la Groenlandia (…) sovrastima la minaccia alla sicurezza nazionale”. “L’unico motivo per possedere la Groenlandia sarebbe quello di avere accesso a minerali” come le terre rare utilizzate nella transizione energetica e presenti in grandi quantità sull’isola danese, ritiene, ma il presidente “ha firmato decreti per fermare la transizione”.

L’Unione europea non è indifferente ai piani di Trump per la Groenlandia. Diversi leader hanno espresso le loro preoccupazioni negli ultimi giorni. Ad aggravare le tensioni regionali, la Cina, un altro attore importante ma non rivierasco nell’Artico, sta avanzando la sua posizione nella regione. “I russi non hanno altra scelta che collaborare con la Cina (…) il principale acquirente a lungo termine delle risorse dell’Artico russo”, analizza Blugeon-Mered, riferendosi alle perdite commerciali di Mosca in Europa dall’inizio della guerra in Ucraina.

Washington non vede di buon occhio il crescente potere di Pechino nell’Artico. A luglio, il Pentagono ha messo in guardia contro una maggiore cooperazione sino-russa nella regione. Mentre la Russia ha rafforzato la sua presenza militare nell’Artico riaprendo e modernizzando diverse basi e campi d’aviazione abbandonati dalla fine dell’era sovietica, la Cina ha iniettato fondi nell’esplorazione e nella ricerca polare. “Mentre i russi cedono spazio alla Cina, la Cina penetra di fatto. E per gli americani, siano essi repubblicani o gran parte dei democratici, questo è percepito come un rischio”, spiega Blugeon-Mered.

Meloni chiude accordi nel Golfo con spettro dazi Usa: “Scontro non conviene a nessuno”

Giorgia Meloni chiude la visita nel Golfo portando a casa accordi su energia, difesa, archeologia per 10 miliardi. Ma continua a guardare Oltre-Atlantico, dove parte la minaccia dei dazi sui prodotti europei. La premier, recentemente oggetto di lusinghe da parte di Donald Trump, ricorda in Arabia Saudita che la questione del surplus commerciale degli Stati Uniti “non nasce con Trump“: “Nel 2023 tra Europa e Stati Uniti nel commercio di beni c’era un surplus a favore dell’Europa di oltre 150 miliardi, è un dato importante“, osserva, ammettendo di comprendere le ragioni degli Stati Uniti, “la stessa questione che noi poniamo nei confronti della Cina“. Ma si tratta di economie complementari, interconnesse e lo scontro, avverte, “non conviene a nessuno“. La soluzione, secondo la premier italiana, passa dal “dialogo” e da un punto di caduta “equilibrato“.

In due giorni Meloni visita l’Arabia Saudita e il Barhein, nell’ambito degli sforzi del governo di Roma per rafforzare la collaborazione con i Paesi del Golfo su temi di interesse comune.

Ad Al-Ula Meloni incontra il principe ereditario e primo ministro dell’Arabia Saudita, Mohamed bin Salman Al Saud, con cui firma una dichiarazione congiunta che “eleva i rapporti bilaterali a un partenariato strategico, avviando una cooperazione strutturata“, viene spiegato. Tra le iniziative concordate, l’organizzazione nei prossimi mesi di un business forum settoriale e l’avvio di un processo per definire un piano d’azione con priorità condivise. I due leader si confrontano su diverse questioni globali e regionali di rilievo, anche nel contesto delle relazioni tra Unione europea e Consiglio di Cooperazione del Golfo. Al centro Ucraina, Gaza, Libano. Ma anche l’approccio alla transizione energetica che entrambi concordano debba essere basato sulla neutralità tecnologica e sulle interconnessioni tra reti e lo sviluppo di data center e iniziative comuni per il progresso sostenibile in Africa. Gli accordi sono stati siglati nel corso di una tavola rotonda con rappresentanti pubblici e privati di entrambi i Paesi. Tra questi, intese dal settore privato per collaborazioni in Africa, in linea con il Piano Mattei.

Nel Barhein, prima visita di un presidente del Consiglio italiano nel Regno, Meloni incontra il Re Hamad bin Isa Al Khalifa e il Principe Ereditario e primo ministro Salman bin Hamad Al Khalifa, che al momento guidano la presidenza di turno della Lega Araba. Dialogo interreligioso, migrazioni e sviluppo al centro di colloqui nei quali vengono approfondite le relazioni bilaterali e in particolare la promozione degli investimenti reciproci per, spiega Palazzo Chigi, “creare nuovi strumenti che possano aumentare il flusso economico finanziario“.

Entrambe le visite non sono “di cortesia“, precisa la premier. “C’è un focus del Governo italiano che va avanti ormai da oltre due anni, particolarmente incentrato sul Mediterraneo allargato“, mette in chiaro facendo un bilancio del viaggio. Parla di occasioni per lavorare su “risultati concreti per l’Italia”. Nel dettaglio, la scelta in Arabia Saudita è stata quella di elevare il livello della collaborazione a partenariato strategico. Ovvero, la creazione di un Consiglio che si riunisce periodicamente e monitora lo stato degli avanzamenti del lavoro comune sulle materie che vengono individuate: nello specifico energia, difesa, investimenti, archeologia. Sulle critiche sollevate dall’opposizione a proposito di un passato in cui Meloni si era detta molto critica nei confronti del regime saudita, la presidente del Consiglio minimizza: “L’opposizione mi rinfaccia qualsiasi cosa, ma non c’è contraddizione tra quello che io dicevo ieri e quello che faccio oggi“, chiosa, spiegando che i due Paesi hanno interesse a stringere accordi strategici in materie come quelle individuate. Diverso, si difende, è il tema posto in passato: “La questione, eventualmente, di chi dovesse favorire attività di proselitismo in Europa. Su questo io non ho cambiato idea, ma non mi pare che ci sia nulla di tutto questo nel lavoro che abbiamo fatto in questi giorni“.

Trump a ruota libera a Davos: “Ue ci tratta male, la Fed tagli i tassi e l’Opec i prezzi”

Il presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, ancora contro l’Unione Europea. Durante un discorso da remoto al World Economic Forum di Davos, in Svizzera, ha definito la relazione commerciale tra le due entità “iniqua” e “molto ingiusta“. Nel senso che “dal punto di vista dell’America, l’Ue ci tratta in modo molto, molto ingiusto, molto male“. Trump ha ribadito le sue critiche a Bruxelles, lamentandosi delle difficoltà imposte a chi cerca di portare prodotti sul mercato europeo, pur evidenziando che, secondo lui, l’Unione Europea non ha alcun problema a vendere i suoi beni negli Stati Uniti. “Rendono molto difficile portare prodotti in Europa, e tuttavia si aspettano di vendere e vendono i loro prodotti negli Stati Uniti. Quindi abbiamo, sapete, centinaia di miliardi di dollari di deficit con l’Ue, e nessuno ne è contento. E faremo qualcosa al riguardo“, ha affermato il presidente, aggiungendo che in Europa “non prendono i nostri prodotti agricoli e non prendono le nostre auto, eppure ce ne mandano milioni. Impongono tariffe su cose che vogliamo fare. Abbiamo delle lamentele molto grandi con l’Ue“. Trump ha poi continuato a spingere perché i processi decisionali vengano accelerati. “Vogliono essere in grado di competere meglio, e non puoi competere quando non puoi superare il processo di approvazione più velocemente. Non c’è motivo per cui non possa andare più veloce. Sto cercando di essere costruttivo, perché amo l’Europa“, ha dichiarato.

Oltre alle questioni commerciali, Trump ha affrontato un altro tema caldo durante il suo intervento, ossia la politica monetaria della Federal Reserve. Pur non citando direttamente la Fed, Trump ha chiarito la sua intenzione di far abbassare i tassi di interesse, dichiarando: “Pretenderò che i tassi di interesse scendano immediatamente. E allo stesso modo, dovrebbero scendere in tutto il mondo. I tassi di interesse dovrebbero seguirci ovunque“. Un modo, secondo il presidente Usa, per mettersi alle spalle “la peggiore crisi inflazionistica della storia moderna, e tassi di interesse alle stelle per i nostri cittadini e persino per tutto il mondo. I prezzi dei prodotti alimentari e di quasi ogni altra cosa conosciuta dall’umanità sono andati alle stelle“, ha concluso Trump, anticipando una politica economica volta a ridurre i costi per i cittadini americani e rafforzare l’economia globale. Un obiettivo che non potrà passare dal raffreddamento dei prezzi petroliferi: “Chiederò all’Arabia Saudita e all’Opec di ridurre il costo del petrolio. Dovete abbassarlo“.

Effetto Trump su petrolio e Gnl: il greggio cala, il gas ritorna a 50 euro

Il giorno il giuramento di Trump e il giorno dopo le promesse del neo presidente degli Stati Uniti su petrolio e gas – “trivelleremo, baby, trivelleremo” e “esporteremo il nostro gas in tutto il mondo” – i mercati navigano a vista. Greggio e gas prendono direzioni opposte, ma il sottofondo non è dei più accomodanti. C’è come la sensazione che tutto possa succedere.

I contratti futures sul petrolio Brent hanno registrato oscillazioni intorno ai 79 dollari al barile, in calo dell’1% dopo la discesa di ieri, a seguito dell’annuncio di Trump riguardo l’intenzione di aumentare la produzione di petrolio e gas negli Stati Uniti, dichiarando un’emergenza nazionale. Un’importante misura proposta da Trump prevede l’introduzione di tariffe del 25% sulle importazioni provenienti da Canada e Messico, che entreranno in vigore il 1° febbraio. Questa proposta ha contribuito a smorzare le aspettative di un rallentamento nelle politiche commerciali, ma la decisione di rimandare l’introduzione di imposte sulle importazioni cinesi ha mantenuto i mercati in un’incertezza relativa. Oltre alle tariffe commerciali, gli investitori seguono con attenzione anche la possibilità che l’amministrazione Trump imponga nuove sanzioni contro importanti esportatori di petrolio come Russia, Iran e Venezuela. Parallelamente, comunque, un calo del rischio geopolitico ha contribuito a contenere le oscillazioni dei prezzi, soprattutto dopo il cessate il fuoco tra Israele e Hamas, che ha portato a un accordo sul rilascio degli ostaggi.

Sul fronte del gas naturale, i prezzi in Europa sono tornati con un balzo di quasi il 3% fino a 50 euro per megawattora. I flussi di gas naturale russo attraverso l’Ucraina sono stati interrotti all’inizio dell’anno, dopo che i due governi non sono riusciti a raggiungere un accordo, ma sebbene l’International Energy Agency abbia osservato che questa interruzione non rappresenti un rischio immediato per la sicurezza dell’approvvigionamento dell’Ue, si prevede un aumento delle importazioni di Gnl in Europa, con stime che indicano un incremento di oltre il 15% nel 2025. Attualmente, i livelli di stoccaggio del gas dell’Ue si aggirano intorno al 60% della capacità totale, con gli esperti che suggeriscono che la situazione potrebbe comportare una maggiore dipendenza dalle importazioni di Gnl nei prossimi anni. Anche perché, come ha riportato Bloomberg, Trump ha invitato l’Europa ad acquistare il suo gas, o saranno dazi.
Sul fronte americano, va infine specificato, che per i trader la revoca della moratoria sulle nuove licenze per le esportazioni di gas naturale liquefatto potrebbe aprire la strada a nuovi permessi, con un impatto potenzialmente positivo sulla domanda di Gnl da parte dell’Europa e dell’Asia. Magari a prezzi più bassi.

 

Von der Leyen

L’Ue accelera sulla competitività, ma l’ombra dei dazi Usa si allunga sui 27

La “rivalità geostrategica” è “spietata” e l’Europa “deve cambiare marcia se vuole mantenere la sua crescita nei prossimi 25 anni”, anche alla luce del fatto che “le principali economie mondiali si contendono l’accesso alle materie prime, alle nuove tecnologie e alle rotte commerciali globali”. Insomma, “dall’Artico al Mar Cinese Meridionale, la gara è aperta”. Da Davos, in Svizzera, dove si svolge il World Economic Forum, la presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, preme sull’acceleratore e cerca di scuotere il continente di fronte “all’intensificarsi della concorrenza” e spinge i 27 a “lavorare insieme” per “evitare una corsa al ribasso”.

Il ritorno di Donald Trump alla Casa Bianca non è affare da poco e von der Leyen lo sa. L’Unione europea, assicura, sarà “pragmatica” con gli Stati Uniti, e si impegnerà “nel dialogo senza indugio”, ben consapevole degli “interessi comuni” e pronta “a negoziare”. Allo stesso tempo, però, serve una spinta forte e per questo la Commissione europea la prossima settimana presenterà una “tabella di marcia, che guiderà i nostri sforzi nei prossimi cinque anni”. Una roadmap che vede il suo fil rouge nel rapporto sulla competitività firmato da Mario Draghi. Quattro gli obiettivi indicati da von der Leyen: aumentare la produttività “colmando le lacune dell’innovazione”, sviluppare un piano comune per la decarbonizzazione e la competitività, “affrontare le carenze di competenze e di manodopera e ridurre la burocrazia”. Una strategia, dice la leader dell’esecutivo Ue, che “mira a garantire una crescita più rapida, più pulita e più equa”.

Sullo sfondo, però, l’ombra dei dazi annunciati da Trump smorza gli entusiasmi. Il presidente Usa ha già annunciato che dal 1° febbraio punta ad aumentare del 25% le tasse doganali sui prodotti provenienti dai vicini Canada e Messico, mentre gli effetti delle nuove politiche protezionistiche nei confronti dell’Europa hanno contorni non ancora ben definiti.

Da Strasburgo il ministro delle Imprese e del Made in Italy, Adolfo Urso, prova a gettare acqua sul fuoco: “Di per sé i dazi non significano nulla – dice – e dobbiamo raccogliere una sfida competitiva dando una risposta adeguata”. Insomma la presidenza Trump può rappresentare “una grande opportunità per l’Europa, perché ci costringe a rispondere con altrettanta assertività”. Anche il cancelliere tedesco Olaf Scholz invita alla calma: l’Europa, dice a Davos, deve “difendere il libero scambio”, ma è necessario “mantenere il sangue freddo” e puntare su “cooperazione e comprensione reciproca”. Un tema, quello dei dazi, in cui la Cina non può che entrare dalla porta principale: “il protezionismo non porta da nessuna parte e non ci sono vincitori nelle guerre commerciali”, assicura il vice premier Ding Xuexiang. A margine dei lavori dell’Ecofin, anche la Svezia chiede prudenza. “Certamente ci sono preoccupazioni per dazi, ma ancora non siamo in questa situazione quindi restiamo calmi”, dice la ministra delle Finanze, Elisabeth Svantesson.

Meno diplomatico, ca va sans dire, il primo ministro canadese Justin Trudeau, che si dice pronto “ad affrontare tutti gli scenari” e a tutelare gli interessi nazionali se tra 10 giorni le nuove tariffe doganali entreranno ufficialmente in vigore. Già, perché seppur dimissionario, Trudeau spera ancora di convincere Trump a fare dietrofront. Gli economisti sostengono che l’imposizione di dazi innescherebbe una profonda recessione nel Paese, dove il 75% dei beni e servizi esportati è destinato agli Stati Uniti.

Giovedì Trump è atteso in videocollegamento a Davos e il tema degli scambi commerciali con l’Europa potrebbe essere uno dei piatti messi sul tavolo. Il volume tra Usa e Ue ammonta a 1,5 trilioni di euro, pari al 30% del commercio mondiale. “La posta in gioco per entrambe le parti – assicura von der Leyen – è enorme”.

Dazi, clima e Groenlandia: i primi annunci di Trump dopo il suo insediamento

Stato di emergenza al confine con il Messico e “milioni” di deportazioni promesse, ritiro dall’accordo di Parigi sul clima, indulti per centinaia di aggressori di Capitol Hill. Appena inaugurato come presidente degli Stati Uniti, Donald Trump ha firmato lunedì una raffica di ordini esecutivi per segnare il suo ritorno al potere. Tuttavia, alcune di queste misure spettacolari saranno probabilmente difficili da attuare e promettono di essere ferocemente contestate nei tribunali. Alcune sembrano addirittura violare la Costituzione degli Stati Uniti.

RITIRO DALL’ACCORDO SUL CLIMA DI PARIGI E DALL’OMS. Il ritiro degli Stati Uniti dall’Accordo di Parigi è in corso: Donald Trump lo ha messo in scena facendone uno dei suoi primi decreti firmati, su una scrivania installata proprio sul palco della grande sala di Washington in cui erano riuniti circa 20.000 dei suoi sostenitori. Questa misura, proveniente dal secondo più grande inquinatore del mondo dopo la Cina, mette a rischio gli sforzi globali per combattere il cambiamento climatico. Dovrebbe entrare in vigore tra un anno. Gli Stati Uniti avevano già lasciato per breve tempo l’accordo internazionale durante il primo mandato del miliardario americano, prima che Joe Biden ne annunciasse il ritorno. Donald Trump, noto scettico del clima, ha anche firmato un ordine esecutivo che dichiara lo “stato di emergenza energetica” per incrementare la produzione di petrolio e gas negli Stati Uniti. “Trivelleremo come pazzi”, ha ripetuto, una frase che è diventata uno degli slogan della sua campagna elettorale (”We will drill, baby, drill“). Altro decreto a sorpresa: il ritiro degli Stati Uniti dall’Organizzazione Mondiale della Sanità.

DAZI DA FEBBRAIO.Imporremo tariffe e tasse ai Paesi stranieri per arricchire i nostri cittadini”, ha promesso il 47esimo presidente degli Stati Uniti nel suo discorso inaugurale. Dallo Studio Ovale, in serata, ha specificato di prevedere “circa il 25% su Messico e Canada”. A partire da quando? “Dal 1° febbraio”, ha stimato. I vicini più prossimi degli Stati Uniti sono teoricamente protetti da un accordo di libero scambio firmato durante il suo primo mandato.

CANALE DI PANAMA E GROENLANDIA.Ci riprenderemo” il Canale di Panama, ha detto il nuovo presidente. Costruito dagli Stati Uniti, il controllo del canale è stato trasferito a Panama nel 1999, a seguito di un accordo firmato nel 1977. “Un regalo senza senso”, ha stigmatizzato Donald Trump. “Lo scopo del nostro accordo e lo spirito del nostro trattato sono stati totalmente violati”, ha detto. “Le navi americane sono gravemente sovraccaricate (…) E soprattutto, la Cina gestisce il Canale di Panama, e noi non lo abbiamo regalato alla Cina”. “Il canale appartiene e continuerà ad appartenere a Panama”, ha risposto il presidente panamense José Raul Mulino. Sull’altra questione territoriale del momento, la Groenlandia, di cui vuole assumere il controllo, il presidente americano si è detto “sicuro che la Danimarca si abituerà all’idea” che gli Stati Uniti “ne hanno bisogno per la sicurezza internazionale”.

OFFENSIVA ANTI-IMMIGRAZIONE. L’offensiva anti-immigrazione promessa da Donald Trump ha preso forma nel suo discorso di insediamento di mezzogiorno. “Tutti gli ingressi illegali saranno fermati immediatamente e inizieremo a rimandare milioni e milioni di stranieri criminali da dove sono venuti”, ha ribadito il presidente repubblicano. “Invierò truppe al confine meridionale per respingere la disastrosa invasione del nostro Paese”. In serata, dalla Casa Bianca, ha firmato il decreto che dichiara lo stato di emergenza al confine con il Messico. Donald Trump intende anche attaccare il diritto d’asilo e il diritto di sbarco. Il primo effetto concreto è arrivato lunedì, quando la piattaforma per la richiesta di asilo lanciata dall’amministrazione Biden ha smesso di funzionare. “Gli appuntamenti esistenti sono stati cancellati”, si legge sul sito del servizio.

GRAZIE PER GLI ASSALITORI DEL CAMPIDOGLIO. Più di 1.500 partecipanti all’assalto al Campidoglio del 6 gennaio 2021 sono stati graziati non appena è tornato al potere l’uomo che li aveva mandati su tutte le furie sostenendo che l’elezione di Joe Biden era stata “truccata”. Per le altre quattordici persone condannate, la pena sarà commutata in pena già scontata. “Speriamo che vengano rilasciati stasera”, ha dichiarato Donald Trump. Anche le accuse ancora pendenti contro diverse centinaia di persone sono state ritirate. Un “insulto al sistema giudiziario americano”, ha dichiarato l’ex presidente democratica della Camera dei Rappresentanti, Nancy Pelosi.

QUESTIONI DI GENERE.Porre fine all’illusione transgender” è stato un altro dei suoi impegni in campagna elettorale. “D’ora in poi, la politica ufficiale del governo degli Stati Uniti sarà quella di dire che ci sono solo due sessi, maschio e femmina”, definiti alla nascita, ha affermato lunedì Donald Trump. Anche il sostegno federale ai programmi per la diversità è stato preso di mira.

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Clima, dazi, immigrazione: arriva la ‘rivoluzione’ di Trump

Immigrazione, diritti dei transgender, ambiente, commercio internazionale e dazi, Ucraina… L’insediamento di Donal d Trump alla Casa Bianca si porta dietro una serie di misure promesse dal nuovo presidente degli Stati Uniti, molte delle quali saranno adottate per decreto. Si tratta, molto spesso, di decisioni radicali che metteranno subito alla prova il suo margine di manovra istituzionale. Ecco una panoramica delle decisioni che potrebbero essere adottate.

IMMIGRAZIONE. “Non appena avrò prestato giuramento, lancerò il più grande programma di espulsione della storia americana”, aveva promesso il repubblicano durante la sua campagna elettorale. Fin dal primo giorno, il presidente vuole anche porre fine al diritto di sbarco, che considera “ridicolo”. Secondo il Wall Street Journal, oggi Donald Trump dichiarerà lo stato di emergenza al confine con il Messico. Si stima che circa 11 milioni di persone vivano illegalmente negli Stati Uniti. Il presidente degli Stati Uniti può prendere immediatamente alcune decisioni con un semplice decreto e gli esperti si aspettano che abolisca un’applicazione utilizzata dai richiedenti asilo, o un programma specificamente progettato per i migranti provenienti da Haiti, Cuba, Nicaragua e Venezuela. Ma il suo potere ha dei limiti. Il diritto alla terra, ad esempio, è garantito dalla Costituzione e qualsiasi programma di espulsione potrebbe essere impugnato.

DAZI DOGANALI. “Il 20 gennaio, in uno dei miei primi ordini esecutivi, firmerò tutti i documenti necessari per imporre dazi doganali del 25% su tutti i prodotti che entrano negli Stati Uniti”, aveva annunciato Trump alla fine di novembre. Questa minaccia di una guerra commerciale con i Paesi vicini – a cui Washington è legata da un accordo di libero scambio – è realistica o è un bluff prima dei negoziati, come le ripetute provocazioni sull’annessione del Canada e la ‘conquista’ della Groenlandia? Trump giustifica questo progetto come una misura di ritorsione contro l’ingresso di droga e immigrati illegali negli Stati Uniti. Il presidente ha anche minacciato la Cina di aumentare i dazi doganali del 10%, oltre a quelli già imposti su alcuni prodotti durante il suo primo mandato.

GRAZIA AI CONDANNATI PER L’ASSALTO A CAPITOL HILL. Il 6 gennaio 2021, una folla di sostenitori di Donald Trump ha preso d’assalto il Campidoglio per impedire la certificazione della vittoria di Joe Biden, e quasi 1.270 persone sono state condannate. Da tempo Trump parla della possibilità di graziare alcune di loro e domenica, durante un comizio, ha assicurato ai suoi sostenitori che saranno “molto felici” della decisione che prenderà oggi in merito.

GUERRA E DIPLOMAZIA. Prima dell’accordo tra Israele e Hamas, il presidente eletto aveva detto che il movimento palestinese avrebbe passato “l’inferno” se non avesse liberato gli ostaggi detenuti a Gaza. Ha anche promesso a Israele un sostegno incondizionato al conflitto che dura da 15 mesi. Ma non ha specificato esattamente cosa intendesse dire. Trump vuole anche porre fine alla guerra in Ucraina, scatenata nel febbraio 2022 dall’invasione russa, secondo un calendario non proprio lineare: dopo aver detto voler porre fine alle ostilità in 24 ore, più recentemente ha parlato di un periodo di sei mesi.

CLIMA. “Drill baby, drill”: lo slogan a favore delle trivellazioni petrolifere è stato ripetuto più volte da Donald Trump, che punta da subito a incrementare l’estrazione di combustibili fossili. Ha assicurato che annullerà “immediatamente” la recente decisione di Joe Biden di imporre un ampio divieto allo sviluppo di petrolio e gas offshore. Non è detto, però, che riuscirà a farlo senza passare dal Congresso. Il repubblicano ha anche espresso la sua forte opposizione ai veicoli elettrici, nonostante la sua alleanza con il boss di Tesla Elon Musk.

DIRITTI CIVILI. “Con una firma, dal primo giorno, metteremo fine all’illusione dei transgender”, ha dichiarato di recente il presidente eletto, che ha promesso di escluderli dall’esercito e dalle scuole. Domenica ha ribadito il suo desiderio di porre fine alle “ideologie woke della sinistra radicale”.

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