Musk e Trump protagonisti della conferenza di Meloni. Schlein: “Sembra portavoce Usa”

Stati Uniti al centro della conferenza stampa annuale di Giorgia Meloni con i giornalisti parlamentari: dai rapporti tra la premier ed Elon Musk, al giallo dell’accordo con SpaceX, passando per i rischi della politica annunciata da Donald Trump, protezionista sul fronte commerciale e aggressiva su quello geopolitico, con le minacce alla Groenlandia e al canale di Panama. Ma nelle tre ore di incontro si è parlato anche della liberazione della giornalista Cecilia Sala, di lavoro, di Piano Mattei. La premier glissa invece sull’aumento massiccio dei costi dell’energia in Italia: “Non è una questione su cui si può rispondere in 20 secondi, quindi per rispetto ai colleghi mi fermo qui“, risponde. Per l’esecutivo nessun pericolo di rimpasto, giura: “E’ già il settimo governo per longevità della storia nazionale, procediamo a grandi falcate per scalare la classifica“. Il sogno di Matteo Salvini all’Interno entro fine legislatura? Spezzato senza lasciare spazio a equivoci: “Sarebbe un ottimo ministro dell’Interno, ma anche Piantedosi lo è e lo voglio ringraziare”.

La presidente del Consiglio smentisce categoricamente le voci sull’accordo per Starlink, derubricandole a “fake news” e difende Musk sul quale dice di non voler vedere addosso una “lettera scarlatta” solo per la reciproca vicinanza. Nessun “favore agli amici“, garantisce, assicurando di prendere decisioni valutando i problemi “solo con la lente nazionale“. Il punto è mettere in sicurezza alcune comunicazioni molto sensibili per la Difesa e SpaceX, ricorda Meloni, è tecnologicamente il soggetto più avanzato per fare questo lavoro perché al momento “non ci sono alternative pubbliche“. Il problema esiste ed è, ribadisce, un tema di sicurezza nazionale: “Tutto il resto è dibattito buono per opposizioni a corto di argomenti, ma è un altro tema“.

Quanto alle presunte ingerenze politiche del patron di Tesla, Meloni confessa di considerare “più pericoloso” George Soros che, accusa, “si trincera dietro una campagna antisemita che nessuno fa” mentre è “molto più ingerente di quanto non lo sia Musk”. Gli Stati Uniti restano al centro delle domande, che evocano lo spettro dei dazi promessi da Trump. Sarebbero un problema, ammette la prima ministra, ma “gli scogli si devono superare con il dialogo” e poi ricorda: “Non è una novità che le amministrazioni americane pongano la questione dell’avanzo commerciale. Il protezionismo non è un approccio che riguarda solo l’amministrazione di Trump“. La ricetta è dunque discuterne perché, confida, “delle soluzioni si possono trovare“. Nessun timore invece sulle minacce di annessione della Groenlandia con la forza: “Lo escludo“, scandisce, ipotizzando che le sue dichiarazioni del Tycoon siano un messaggio ad altri player mondiali: “La Groenlandia è un territorio particolarmente strategico, anche grosso, ricco di materie prime. La mia idea è che queste dichiarazioni rientrino nel dibattito a distanza tra grandi potenze, un modo energico per dire che gli Stati Uniti non rimarranno a guardare di fronte alla previsione che altri grandi player globali muovano in zone che sono di interesse strategico per gli Stati Uniti“.

Spostando lo sguardo a Sud, Meloni si dice fiera degli apprezzamenti incassati con il Piano Mattei. Nei primi nove Paesi del piano i progetti sono tutti già avviati. Le due grandi sfide per il 2025 saranno internazionalizzarlo e ampliarlo. Per allargarlo sono stati individuati cinque nuovi Paesi con cui stringere accordi: Angola, Ghana, Mauritania, Tanzania e Senegal. Perché il Piano vada in porto, però, servirà anche la stabilizzazione della Libia. Qui la trama si complica, perché la Russia aveva una forte presenza in Siria, con la sua flotta sul Mediterraneo. Con la caduta di Assad, avverte la premier, “è ragionevole che Mosca cerchi altri sbocchi e che uno di questi possa essere la Cirenaica”. La stabilizzazione definitiva della Libia, confessa, è “una delle questioni più complesse che mi sia trovata ad affrontare”. Ma quello della presenza russa in Africa è un tema che lei stessa pone da due anni: “Qualcosa si muove – registra -, lo abbiamo visto sia al G7 dei leader che al vertice Nato“.

Dopo le tre ore di conferenza, le opposizioni salgono sulle barricate: “Si è conclusa la conferenza della portavoce di Trump e Musk, aspettiamo quella della presidente del Consiglio d’Italia”, risponde su Instagram la segretaria del Pd, Elly Schlein. Di “conferenza propaganda” parla il deputato di Avs Nicola Fratoianni: “Tra battutine, difesa a spada tratta di Trump e Musk e risposte stizzite alle domande più scomode, la presidente del consiglio continua a millantare grandi successi al governo. Ma la cosa davvero insopportabile è il silenzio di sui veri problemi del Paese: stipendi troppo bassi, costo della vita troppo alto, incertezza per il futuro e mancanza di servizi“, osserva. “Meloni continua a dichiararsi pronta ad affidare a Elon Musk un servizio delicatissimo su cui passano informazioni riservate per il paese e dice ma perché dobbiamo mettergli una lettera scarlatta? Perché una persona che dice che vuole rovesciare il governo inglese e mandare il premier in galera, che ha sospeso la fornitura dei satelliti all’Ucraina dalla mattina alla sera è pericolosa e inaffidabile“, fa eco il leader di Azione, Carlo Calenda. Non accetta il dribbling sulle bollette la capogruppo del M5S in Attività produttive della Camera, Emma Pavanelli: “Ha detto che non ha tempo per parlare dei rincari, che non è una questione sulla quale si può rispondere in 20 secondi. Certo, come no. Lo vada a raccontare ai milioni di italiani che dovranno affrontare rincari assurdi già dall’inizio di quest’anno”, tuona, ricordando le continue richieste al governo di interventi strutturali: “Cara presidente Meloni, non ci vogliono 20 secondi, ci vuole impegno e subito!”.

Los Angeles in fiamme, almeno due morti e decine di migliaia di evacuati. La sindaca: “Situazione incendi in peggioramento”

Los Angeles brucia e almeno 100mila residenti sono stati raggiunti da un ordine di evacuazione immediato o a breve termine. Al momento il conteggio delle vittime è di due morti e diversi feriti. Tre diversi incendi, infatti, stanno devastando la città, in modo particolare nella zona collinare. Il primo rogo è scoppiato nella tarda mattinata di martedì nel quartiere di Pacific Palisades, sede di ville multimilionarie sulle montagne a nord-ovest della città che ha già devastato quasi 2921 acri. La fuga dalle fiamme è avvenuta di fretta: i bambini sono stati fatti uscire dalle scuole e i residenti sono riusciti a portare via soltanto gli animali domestici e pochi effetti personali. L’incendio è scoppiato nel momento peggiore per Los Angeles, spazzata da violente raffiche di vento. Si prevede che l’aria calda di Santa Ana, tipica degli inverni californiani, raggiungerà una velocità fino a 160 km/h nella regione, secondo il servizio meteorologico nazionale statunitense (NWS). Questo potrebbe diffondere le fiamme molto rapidamente e rappresentare un “pericolo mortale”.

Gli altri due incendi sono l’Eaton Fire e l’Hust Fire , che hanno rispettivamente già distrutto 2227 e 500 acri. Secondo quanto riferisce il Department of Forestry and Fire Protection, complessivamente sono bruciati 5742 acri di terreno e la percentualmente di contenimento è pari a zero. Il Dipartimento segnala anche un nuovo rogo nella contea di Riverside, in prossimità di Coachella, località molto conosciuta per il celebre festival musicale che si svolge ogni anno. Qui al momento sono almeno 15 gli acri distrutti dalle fiamme.

Anche tutti i residenti di La Cañada Flintridge, zona collinare intorno a Los Angeles, dovranno essere evacuati. Lo ha annunciato il Dipartimento dello sceriffo della contea di Los Angeles. La decisione, si legge su X, è stata presa “a causa del forte vento e dell’incendio in corso nell’area. I residenti nelle zone interessate devono evacuare immediatamente”. In quest’area si trova anche il Jet Propulsion Laboratory della NASA, leader nell’esplorazione robotica dello spazio, centro di ricerca che ha progettato il primo satellite degli Stati Uniti, l’Explorer 1, lanciato nel 1958. Qui, inoltre, sono nati tutti i rover inviati su Marte.

“Si consiglia agli abitanti di Los Angeles di tenere presente che la tempesta di vento dovrebbe peggiorare nel corso della mattinata e di prestare attenzione agli avvertimenti locali, di restare vigili e di stare al sicuro”, ha scritto su X la sindaca di Los Angeles, Karen Bass.

Il governatore della California, Gavin Newsom, durante un briefing con la stampa, ha spiegato che “numerose strutture che sono già state distrutte”. “Non siamo affatto fuori pericolo”, ha aggiunto il democratico, che ha chiesto ai californiani di “rispettare gli ordini di evacuazione”, che non sempre vengono seguiti negli Stati Uniti. Complessivamente, la California ha schierato 1400 vigili del fuoco e centinaia di risorse preposizionate “per combattere questi incendi senza precedenti. Funzionari di emergenza, vigili del fuoco e soccorritori fanno tutto il possibile per proteggere vite”, ha detto ancora Newsom.

Il presidente degli Stati Uniti, Joe Biden, ha approvato gli aiuti federali destinati alla città – la seconda più grande degli Usa – per far fronte al maxi incendio. Il presidente uscente si trova proprio in California per annunciare la creazione di due “monumenti nazionali”, cioè vaste aree protette nel sud dello Stato.  Donald Trump, che tra pochi giorni succederà a Biden alla Casa Bianca, a settembre aveva minacciato di tagliare gli aiuti federali che la California riceve abitualmente per combattere gli incendi boschivi.

“Ci aspettiamo che questo sia l’evento di vento più forte in questa regione dal 2011”, ha avvertito Daniel Swain, specialista di eventi estremi dell’Università UCLA. Ma secondo lui il rischio di incendio è “molto più alto” di allora. Questo perché, dopo due anni molto umidi che hanno rinvigorito la vegetazione, la California meridionale sta vivendo “l’inizio inverno più secco mai registrato”. In altre parole, tutto ciò che è ricresciuto abbondantemente sta ora fungendo da combustibile per gli incendi.

 

Usa, i dazi di Trump potrebbero portare ad un crollo del Pil fino a -3,6%

Decine di istituti e centri studi internazionali stanno mettendo in guardia il presidente eletto Donald Trump dopo l’annuncio su imminenti dazi alle importazioni di beni negli Stati Uniti. Le stime, comprese quelle di Moody’s, Ubs e Fmi, mostrano che avranno “un effetto dannoso sull’economia americana” poichè “riducono il commercio, distorcono la produzione e abbassano lo standard di vita” degli americani. Lo segnala una recente analisi di Tax Foundation, think tank con sede a Washington, che ricorda che “le tariffe aumentano il prezzo dei beni prodotti all’estero, incentivando i consumatori a passare a beni prodotti a livello nazionale e offrendo ai produttori locali la possibilità di aumentare i prezzi”. I benefici sarebbero dunque rilevabili per le aziende statunitensi mentre a farne le spese sarebbe il consumatore finale. I dazi, inoltre, nonostante le rassicurazioni del prossimo consulente senior al Commercio di Trump, Peter Navarro, potrebbero avere “un impatto inflazionistico” e “causare una recessione economica nel breve periodo”, a seconda che la Federal Reserve adotti misure di allentamento della politica monetaria.

Le stime di decine di istituti internazionali, messe in fila da Tax Foundation, prevedono perdite del Pil fino al 3,61% entro il 2028 (Moody’s), considerando anche l’eventualità di rappresaglie dai Paesi colpiti di dazi. Per il Fondo Monetario Internazionale, la perdita sarebbe più lieve, tra -0,4% e -0,6% mentre per il Peterson Institute for International Economics il range decennale, dal 2025, stabilisce un minimo di -0,21% a-0,43%. Fitch calcola un range cha arriva fino a -1,1% nel caso di rappresaglie commerciali mentre la Royal Bank of Canada stima una perdita di Pil Usa dell’1,5% a due anni dall’entrata in vigore. Tax Foundation si pone nel mezzo di tali stime, da un minimo di -1,3% ad un massimo di -1,7%.

Secondo Erica York, analista di Tax Foundation, “nel lungo periodo le tariffe colpiscono l’economia riducendo lavoro e investimenti”, “perché aumentano i prezzi relativi dei beni importati e di quelli nazionali”, intaccando il reddito disponibile delle famiglie e dunque il livello dei consumi. Un effetto a cascata che causerebbe una frenata dei consumi e dunque la riduzione degli investimenti delle aziende con successiva perdita di produzione. “Creando un mercato interno protetto, si attenuano le pressioni competitive che costringono le aziende a rimanere innovative – sottolinea York -. Invece di dover cercare costantemente modi per migliorare i processi e soddisfare le richieste dei consumatori, le aziende potrebbero dunque smettere di investire per godersi i maggiori profitti e spingere per un protezionismo anche più aggressivo”.

L’inflazione risale e per la Fed il taglio dei tassi diventa un rebus

L’inflazione non molla negli Usa disorientando ulteriormente la Fed che invece ha iniziato un percorso di riduzione tassi. Secondo i dati del Dipartimento del Commercio americano, l’indice dei prezzi delle spese per consumi personali (Pce), il principale indicatore di inflazione secondo la Federal Reserve, ha registrato un tasso annuale del 2,3%. Un dato in linea con le previsioni di consenso, ma superiore al 2,1% di settembre. Escludendo cibo ed energia, la cosiddetta inflazione ‘core’ ha mostrato segnali ancora più marcati, con un incremento mensile dello 0,3% e un tasso annuale del 2,8%. Entrambi i numeri sono risultati conformi alle aspettative e superiori a quelli del mese precedente. A guidare l’aumento del carovita sono stati i prezzi dei servizi, che sono saliti dello 0,4%, mentre i prezzi dei beni sono scesi dello 0,1%. I costi energetici sono diminuiti dello 0,1%, mentre quelli alimentari sono rimasti sostanzialmente invariati.

Nonostante il lieve aumento dell’inflazione complessiva, i mercati hanno reagito con una previsione positiva di nuovi tagli ai tassi da parte della Fed, con il 66% degli operatori che puntano a una riduzione di un quarto di punto percentuale già a dicembre, secondo i dati del Cme Group, nonostante l’inflazione sia ancora lontana dall’obiettivo del 2% fissato dalla Fed. I dati suggeriscono che, sebbene l’inflazione sia rallentata rispetto ai picchi registrati nel 2022, il costo della vita rimane un problema importante, soprattutto per le famiglie con redditi più bassi. Nonostante un rallentamento rispetto ai tassi di crescita rapidi del 2022, gli effetti cumulativi dell’inflazione continuano a incidere pesantemente sui consumatori, tema fra l’altro centrale nella recente campagna elettorale per le presidenziali Usa. E in effetti c’è stato un incremento delle spese correnti dello 0,4% a ottobre, ma il ritmo di crescita ha mostrato un lieve rallentamento rispetto a settembre. Eppure il reddito personale è salito dello 0,6%, ben oltre le stime degli analisti, però il tasso di risparmio è sceso al 4,4%, il livello più basso dall’inizio del 2023. Segno dunque che i prezzi mangiano i guadagni.

Sebbene la Federal Reserve abbia avviato una serie di aumenti dei tassi di interesse per contenere l’inflazione, gli analisti restano così divisi su quanti ulteriori interventi saranno necessari. A settembre e novembre, la Fed ha già ridotto i tassi di interesse per un totale di tre quarti di punto percentuale, e i funzionari continuano a seguire attentamente i segnali economici, mantenendo un atteggiamento cautamente ottimista riguardo al raggiungimento dell’obiettivo di inflazione del 2%. I numeri però stanno andando in un’altra direzione, senza contare che – secondo Goldman Sachs – l’effetto Trump sui dazi potrebbe valere un +1% dell’inflazione. L’atterraggio morbido, teorizzato dalla Federal Reserve, non è ancora così morbido…

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Trump lancia offensiva commerciale contro Cina, Canada e Messico: “Aumento dei dazi anche del 200%”

A poche settimane dalla sua rielezione e a un mese e mezzo dal suo insediamento alla Casa Bianca, Trump lancia l’offensiva commerciale contro la Cina, il Canada e il Messico, con l’obiettivo di aumentare i dazi. “Il 20 gennaio, in uno dei miei primi ordini esecutivi, firmerò tutti i documenti necessari per imporre tariffe del 25% su tutti i prodotti che entrano negli Stati Uniti da Messico e Canada”, scrive il presidente eletto in un post sul social network Truth. “Questa tassa rimarrà in vigore fino a quando le droghe, in particolare il fentanyl, e tutti gli immigrati clandestini non fermeranno questa invasione del nostro Paese”, aggiunge.

In un altro post, annuncia un aumento del 10% delle tasse doganali, oltre a quelle già in vigore e a quelle aggiuntive che potrebbe decidere, su “tutti i numerosi prodotti che arrivano negli Stati Uniti dalla Cina”. Trump sottolinea di aver spesso sollevato il problema dell’afflusso di droga, in particolare del fentanyl – uno dei principali responsabili della crisi degli oppiacei negli Stati Uniti – con i leader cinesi, che avevano promesso di punire severamente i “trafficanti”, “fino alla pena di morte”. “Ma non hanno mai dato seguito alla promessa”, accusa il presidente eletto.

Le ragioni di sicurezza nazionale possono essere invocate per derogare alle regole stabilite dall’Organizzazione mondiale del commercio (WTO), ma i Paesi sono generalmente cauti nell’utilizzare questa eccezione come strumento regolare di politica commerciale.

L’aumento dei dazi doganali, che durante la campagna elettorale ha spesso descritto come la sua “espressione preferita”, è una delle chiavi della futura politica economica di Trump, che non teme di rilanciare le guerre commerciali, in particolare con la Cina, iniziate durante il suo primo mandato. All’epoca, aveva giustificato questa politica con il deficit commerciale tra i due Paesi e con quelle che considerava pratiche commerciali sleali, accusando Pechino di “rubare” la proprietà intellettuale. E la Cina si è vendicata con tariffe che hanno avuto conseguenze dannose soprattutto per gli agricoltori americani. L’amministrazione di Joe Biden ha mantenuto alcuni dazi sui prodotti cinesi e ne ha imposti di nuovi su altre.

E poco dopo le dichiarazioni di Trump, è arrivata la replica di Pechino. “Nessuno vincerà una guerra commerciale”, sottolinea il portavoce della diplomazia cinese Liu Pengyu. “La Cina ritiene che il commercio e la cooperazione economica tra Cina e Stati Uniti siano per natura reciprocamente vantaggiosi”.

Non è mancata nemmeno la reazione del Canada. Il governo di Justin Trudeau assicura che le relazioni tra i due Paesi sono “equilibrate e reciprocamente vantaggiose, soprattutto per i lavoratori americani”, anche se non manca un velato avvertimento: il Canada, ricorda a Trump l’esecutivo, è “essenziale per l’approvvigionamento energetico” degli Stati Uniti. Qui, dove il 75% delle esportazioni è destinato proprio agli Usa, le parole di Trump agitano gli animi. Il premier del Québec, François Legault, definisce l’annuncio “un rischio enorme” per l’economia canadese. Il suo omologo della Columbia Britannica, David Eby, ritiene che “Ottawa debba rispondere con fermezza”. Il Messico, invece, “non ha motivo di preoccuparsi”, assicura (e rassicura) la presidente Claudia Sheinbaum. I tre Paesi sono legati da trent’anni da un accordo di libero scambio, rinegoziato su pressione di Donald Trump durante il suo primo mandato.

Wendy Cutler, vicepresidente dell’Asia Society Policy Institute, un think tank americano, ritiene che la capacità dei due vicini degli Usa “di ignorare le minacce del presidente eletto sia limitata”, tanto sono dipendenti da lui. Ma l’analista William Reinsch sottolinea che il loro accordo sarà comunque rinegoziato nel 2026: “questa è una classica mossa di Trump, minacciare e poi negoziare”.

La nomina a Segretario al Commercio di Howard Lutnick, amministratore delegato della banca d’affari Cantor Fitzgerald e critico nei confronti della Cina, avvenuta la scorsa settimana, conferma la volontà del presidente eletto di cercare di piegare i partner commerciali per ottenere accordi migliori e delocalizzare la produzione negli Stati Uniti.

Per quanto riguarda la Cina, Trump ha promesso tariffe fino al 60% su alcuni prodotti e addirittura del 200% sulle importazioni di veicoli assemblati in Messico. Punta anche a reintrodurre dazi doganali del 10-20% su tutti i prodotti che entrano negli Stati Uniti e l’Unione Europea si è già detta “pronta a reagire” in caso di nuove tensioni commerciali.

La Cop è stata un flop, forse conviene cambiare format per il Brasile

Non è stata un successo, la Cop 29. E, onestamente, era facile immaginarlo. Pressappoco come le altre che l’hanno preceduta. Partito con la medaglietta di ‘Cop finanziaria’, l’appuntamento ‘verde’ più importante dell’anno ha registrato un rosario di defezioni importantissime (da Biden a Xi Jinping, da Macron a Lula, per finire con von der Leyen e con il premier australiano Anthony Albanese), distanze siderali tra la teoria e la pratica, cioè tra cosa si ipotizzava di raggiungere e gli accordi che sono stati messi su carta, una sostanziale insoddisfazione di fondo generata da uno scetticismo di base assai diffuso. Baku, insomma, non si è rivelato un punto di svolta e nemmeno un punto di raccolta fondi. Perché, in concreto, la bozza finale sui denari da investire di qui al 2035 ha scontentato tutti: i Paesi in via di sviluppo e quelli sviluppati. Con una superficialità quasi imbarazzante si è parlato per giorni di 1000-1300 miliardi all’anno da destinare per la finanza climatica, tralasciando il dettaglio che non ci sono soldi. E, non a caso, il contraddittorio si è acceso fino a diventare scontro.

C’era una volta il temerario Frans Timmermars, c’era John Kerry e c’erano i pasdaran del green, ora lo scenario si è impoverito e al di là di allarmi plastificati lanciati a macchia di leopardo sul cattivissimo stato di salute del Pianeta, all’atto pratico si tratta sempre e solo di chiacchiere, idee e progetti che rimangono appesi nell’aria inquinata. Perché si scontrano con interessi di campanile e mancanza di fondi. Del resto, se l’incipit della Cop è stata la dichiarazione del presidente Ilham Alyev sui combustibili fossili “come dono di Dio”, a cascata pareva complicato ipotizzare passi avanti. Anche la premier Giorgia Meloni, immergendosi nel realismo più assoluto, ha ricordato nel suo intervento in presenza – almeno la presidente del Consiglio in Azerbaigian è andata – che di gas e petrolio dovremo ancora campare per anni, senza trascurare però la tutela della Terra. E quindi? Quindi ‘adelante ma con juicio’, soprattutto avanti con il nucleare. Ma pure su questo tema non c’è unanimità di vedute.

Liofilizzando il concetto, la Cop29 non rimarrà scolpita nella memoria collettiva. In fondo, è nata male fin da subito, cioè in concomitanza con l’elezione di Donald Trump alla presidenza degli Stati Uniti, e si è incagliata nella recrudescenza dei conflitti e nelle ambasce finanziare degli Stati, America compresa. Appena eletto, il Tycoon ha annunciato che (ri)uscirà dagli accordi di Parigi e che riprenderà a trivellare in maniera forsennata per preservare gli interessi di patria. Non proprio un bello spot per i tavoli di discussione di Baku. Trump che, tra l’altro, all’ambiente ha designato un comprovato negazionista e sostenitore dei combustibili fossili, Christ Wright, giusto per fare capire a tutti quanto gli stia a cuore l’argomento.

Adesso l’orizzonte è quello della Cop 30 in Brasile. Lì il padrone di casa sarà Ignacio Lula da Silva che ha improntato la sua rielezione a presidente sulla salvaguardia dell’Amazzonia. Per evitare che anche le due settimane di Rio de Janeiro abbiano la consistenza di un pandoro, è indispensabile non ripetere Baku, Dubai, Sharm El Sheik. Alla ventinovesima edizione dell’appuntamento promosso dall’Onu, forse bisogna cambiare – come dire? – il format. Così è la fiera multietnica dell’inutilità, invece c’è bisogno di decarbonizzare, tutelare, coccolare il nostro Pianeta. Che non scoppia di salute. Magari è il caso di modificare approccio, di rovesciare la prospettiva visto che – ormai è conclamato – trovare un’intesa tra quasi 200 nazioni, ciascuna con ricadute diverse, è un esercizio impraticabile.

Usa, Musk ministro di Trump: la folle scommessa politica dell’uomo più ricco del mondo

È stata una delle scommesse più azzardate della storia economica e politica recente, e ha dato i suoi frutti: Elon Musk ha visto premiato il suo convinto sostegno a Donald Trump con un posto di ministro per l”Efficacia di governo’. Il Presidente eletto ha annunciato che intende nominare il capo di Tesla, Space X e X, insieme all’uomo d’affari repubblicano Vivek Ramaswamy, in questo nuovissimo ministero.

La sua missione è quella di “mandare onde d’urto attraverso il sistema” deregolamentando tutto e operando tagli drastici al bilancio federale. Verrà pubblicata una “classifica delle spese più spaventosamente stupide”, che “sarà allo stesso tempo estremamente tragica e divertente”, ha annunciato Musk su X dopo l’annuncio della sua futura nomina. Resta da vedere come due personalità come Elon Musk e Donald Trump andranno d’accordo a lungo termine.

Nato il 28 giugno 1971 in Sudafrica da un padre ingegnere e una modella canadese, l’uomo più ricco del mondo – naturalizzato americano – è diventato la figura più controversa del neocapitalismo. Condivide le sue ambizioni extraplanetarie e le sue idee tecno-libertarie con oltre 200 milioni di follower sulla piattaforma che ha acquistato nel 2022, cambiandone il nome da “Twitter” a “X”. Elon Musk, 53 anni, nelle ultime settimane si è buttato a capofitto nella campagna elettorale di Donald Trump.

Le immagini del multimiliardario – Forbes stima la sua fortuna a più di 300 miliardi di dollari – che salta sul palco durante un comizio repubblicano in Pennsylvania sono diventate virali. Il suo comitato di sostegno ha organizzato una lotteria che offriva un milione di dollari al giorno agli elettori registrati negli Stati chiave che avessero accettato di firmare una petizione conservatrice a favore della libertà di espressione e del diritto di portare armi. Ha investito oltre 100 milioni di dollari nella campagna elettorale del Presidente eletto e ha usato il suo social network, su cui posta ininterrottamente, come cassa di risonanza. Oggi è ministro, oltre a essere a capo di Tesla, il principale produttore di veicoli elettrici al mondo, e di SpaceX, la sua azienda spaziale.

Elon Musk è a capo di una serie di altri progetti che illustrano la sua visione tecno-futuristica di un’umanità potenziata dalla scienza, destinata a prosperare su altri pianeti. Tra questi, Neuralink, una start-up che mira a collegare il cervello umano direttamente al computer. Diventato milionario prima dei 30 anni dopo aver venduto una società di software online creata insieme al fratello, Elon Musk ha poi fondato X.com, che si è poi fusa con PayPal ed è stata acquistata da eBay nel 2002. La sua linea libertaria e apertamente maschilista e la sua virulenta critica all’immigrazione lo hanno reso sempre più popolare nella destra americana. Ha conquistato Donald Trump, che lo ha definito un “super genio” nel suo discorso di vittoria. Musk è anche appassionato di teorie cospirative: quest’anno, ad esempio, ha affermato che il Partito Democratico starebbe “importando deliberatamente immigrati clandestini” per aumentare la propria base elettorale. A luglio ha annunciato a gran voce che avrebbe spostato la sede di SpaceX e X in Texas, per protestare contro l’approvazione di una legge sugli studenti transgender in California, uno Stato che i repubblicani criticano costantemente per le sue politiche progressiste.

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Usa 2024, Meloni sente Musk: “Amico Elon risorsa importante”. Ma aleggia spettro dazi

Il giorno dopo la vittoria di Donald Trump alle presidenziali americane, Giorgia Meloni sente anche “l‘amico Elon Musk” che, dopo essere stato cruciale in campagna elettorale, nell’amministrazione del tycoon dovrebbe ricoprire un ruolo di primo piano. “Sono convinta che il suo impegno e la sua visione potranno rappresentare un’importante risorsa per gli Stati Uniti e per l’Italia, in uno spirito di collaborazione volto ad affrontare le sfide future“, scrive la premier su X, il social del patron di Tesla. La frase fa da commento a una foto in cui i due sorridono e si abbracciano, in una delle visite di Musk a Palazzo Chigi.

Occhi puntati sui dazi ai prodotti italiani per il vicepremier Antonio Tajani, che continua a dirsi sicuro dell’amicizia con gli Stati Uniti: “Il governo italiano e la nuova amministrazione americana sapranno lavorare insieme per proteggere i nostri popoli“, scandisce sulle colonne del Corriere della Sera, mentre è impegnato nel viaggio in Cina con il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella.
La partnership tra i due Paesi non cambieranno, garantisce, perché “i rapporti fra Stati Uniti e Italia sono talmente profondi, complessi e importanti che nulla potrebbe indebolirli“. Trump però, ammette il vicepremier, ha vinto la sua sfida con messaggi che “promettono un cambiamento radicale“.

L’incubo dei dazi aleggia, perché con questi l’imprenditore vorrebbe ridurre il deficit commerciale degli Stati Uniti con l’estero, alzandoli del 10% o addirittura del 20. Con la Cina si è parlato anche di dazi del 60% su tutti i loro prodotti. Ma anche per Paesi europei esportatori netti (Germania, Francia, Italia, Olanda) la nuova amministrazione vorrebbe queste penalizzazioni. “Dovremo evitare uno scontro“, chiosa il ministro degli Esteri, che punta al dialogo, perché l’interscambio Ue-Usa nel 2023 ha sfiorato gli 850 miliardi di euro, con un saldo commerciale a favore dell’Europa di 156 miliardi di euro.

La sola Italia ha avuto nel 2023 un saldo positivo di 40 miliardi di euro: “L’export è la vita stessa dell’Italia – ricorda Tajani -. Trump ha sempre dimostrato di guardare con occhio attento all’Italia, già in passato ha fatto scelte diverse per noi rispetto ad altri Paesi“.

L’elezione di Trump è una sfida di “alto profilo” per quanto riguarda la politica industriale e commerciale per l’Europa, fa eco il ministro delle Imprese, Adolfo Urso, perché prevede “accentuerà quello che ha già fatto Biden nei confronti della Cina“. Se Biden ha aumentato i dazi alle auto elettriche cinesi al 100%, osserva Urso “verosimilmente questo accadrà sempre più in altri settori“, costringendo nel contempo l’Europa a riesaminare da subito la sua politica industriale e commerciale “come a nostro avviso deve fare”.

Da Pechino arriva l’invito di Xi Jinping alla collaborazione e al “rispetto reciproco” e quello, ancora più esplicito, della portavoce del ministero degli Esteri Mao Ning: “Come questione di principio – avverte -, vorrei ribadire che non ci sarebbero vincitori in una guerra commerciale, che non sarebbe nemmeno positiva per il mondo”.

Se a Trump il rapporto con l’Europa interessa poco o nulla

Donald Trump ha vinto le elezioni americane ed è nuovamente presidente degli Stati Uniti d’America.

La vittoria è stata netta in tutti gli stati chiave e anche in termini di numero di votanti Trump ha superato di larga misura la Harris (quasi 71 milioni di voti contro 66). Trump ha preso più voti in tutte le classi sociali, in tutte le classi di età.

Grazie alla schiacciante vittoria Trump avrà la maggioranza sia al Congresso che al Senato, dove la maggioranza degli eletti è fatta da senatori “trumpiani” di stretta osservanza, e ciò attribuisce al nuovo Presidente poteri quasi assoluti se si considera che controlla anche la Corte Suprema. Io non ricordo, nella più importante democrazia del mondo, una situazione di concentrazione di poteri simile con il venir meno dei classici balance.

Ci sarà tempo e modo per analizzare e comprendere la dimensione e le determinanti di questo voto a partire dalla debolezza e dalla mancanza di leadership della candidata democratica. Una consistente maggioranza di cittadini americani ha votato per un signore molto discusso, sul quale pendono ancora giudizi penali, che non ha mai riconosciuto di aver perso le elezioni precedenti, che ha appoggiato se non ispirato una sedizione popolare contro la vittoria di Biden sfociata nell’assalto a Capitol Hill.

Bisognerà capire il perché di tutto ciò e chiedersi se, al di là di Trump che in definitiva è un uomo in carne e ossa come tutti noi, di 78 anni, provato da anni di vicende difficili e che perde qualche colpo come si è visto in campagna elettorale, la sua vittoria sia il segno di un cambiamento epocale nella storia della democrazia statunitense.

Ma bisognerà anche chiedersi come abbia pesato su questo voto il concentrarsi della proposta dei democratici Usa e di Kamala Harris prevalentemente sui diritti civili con una sempre più scarsa attenzione ai diritti sociali, al tema del lavoro e a quello della tutela delle categorie più colpite (ceto medio e classe operaia) dai venti impetuosi della globalizzazione e alle loro richieste di benessere, stabilità e sicurezza.

Nel frattempo è lecito chiedersi che cosa la vittoria di Trump significhi per gli europei, per l’Europa e per la nostra Italia e quali saranno le conseguenze per il mondo intero della nuova Presidenza. Si tratta di questioni difficili sulle quali dico la mia opinione con molta umiltà e dal mio punto di vista di operatore economico internazionale ma molto concentrato sui temi dell’industria europea e italiana.

Ho detto e scritto più volte che probabilmente l’ultimo Presidente Usa con un po’ di sensibilità atlantica è stato Biden. A Trump il rapporto con l’Europa interessa poco o nulla essendo totalmente concentrato sulla confrontation con la Cina nell’area pacifica.

Ciò ha una serie di conseguenze che potrebbero essere non positive per l’Europa a meno che non diventino dei veri e propri shock destinati finalmente a far comprendere all’Unione Europea quali sono le sfide che le stanno dinanzi, a farle cambiare l’attitudine da prima della classe che, sul piano economico e del confronto con gli Usa e con la Cina, è stata fino ad oggi disastrosa. Un atteggiamento che in venti anni ha fatto perdere all’Europa un terzo del suo PIL nei confronti di quello statunitense e che la vede superata in tutti i settori di punta e innovativi dagli Usa e dalla Cina.

Vediamo rapidamente quali potrebbero essere le conseguenze dell’elezione di Trump.

È molto probabile che ci sarà da parte americana un ulteriore indurimento delle politiche protezionistiche e di protezione dell’industria nazionale che, per la verità, anche la presidenza Biden ha mantenuto. Si parla di dazi monstre sulle auto elettriche cinesi e ciò significa che le esportazioni cinesi, spinte dalla sovra capacità produttiva in tutti i settori industriali di quel Paese, si riverserà nelle aree più aperte, quali appunto l’Europa, mettendo ancora più in crisi i nostri sistemi industriali.

Trump continuerà con tutte le politiche finanziarie e di supporto ai sistemi economici e produttivi statunitensi, allenterà le politiche contro il climate change e la transizione aumentando ulteriormente l’asimmetria con le politiche europee di transizione e ciò causerà ulteriore svantaggio competitivo  per le nostre imprese industriali.

Probabilmente ci sarà negli USA una nuova fase di deregulation finanziaria molto pericolosa tenuto conto dell’importanza delle banche e dei fondi americani e dell’enorme liquidità da questi raccolta.

Ci sarà poi, quasi sicuramente, la richiesta del nuovo Presidente americano ai Paesi europei di aumentare le loro spese per la difesa e la loro contribuzione annuale alle spese Nato così da consentire agli Usa di ridurre il loro contributo che oggi è preponderante. Ciò obbligherà l’Europa a vere decisioni sul tema della difesa comune e della sicurezza strategica, decisioni che impatteranno i bilanci dei Paesi europei con il rischio di un’ulteriore compressione della spesa sociale e sanitaria.

Più in generale c’è il rischio di un indebolimento della solidarietà occidentale per disimpegno statunitense da tutti i teatri che non siano il Pacifico e il confronto con la Cina.

Fa bene Ursula Von der Leyen a rilanciare la necessità di un rinnovato patto atlantico che leghi ancora di più Usa ed Europa. Ma questo appello, fatto dopo la vittoria di Trump, rischia di essere tardivo e di apparire strumentale.

Infine ci sono i due grandi punti interrogativi relativi alle due guerre in corso e sul confronto prossimo venturo con la Cina.

Trump ha detto che farà terminare le due guerre  in pochi giorni e che mai ci sarà una nuova guerra nel corso del suo mandato.

A proposito della aggressione russa all’Ucraina cosa significa questo? Minore aiuto militare a Kiev? Concessioni a Putin sulle sue richieste territoriali e di “finlandizzazione” dell’Ucraina? Ma è possibile che il Presidente degli Stati Uniti d’America faccia vincere Putin? Difficile crederlo ma vedremo.

In Medio Oriente l’appoggio a Israele invece sarà mantenuto e addirittura potenziato nella difesa del suo diritto all’esistenza e nel contenimento delle politiche di destabilizzazione dell’area da parte dell’Iran. Non bisogna dimenticare che gli accordi di Abramo firmati nel 2020 da Israele, Emirati Arabi Uniti, Bahrain, Marocco e Sudan e che, prima dell’assalto di Hamas ad Israele del 7 ottobre 2023, stavano per essere firmati anche dall’Arabia Saudita furono probabilmente il maggior successo diplomatico della prima amministrazione Trump.

Infine la confrontation con la Cina. I legami economici e finanziari e l’interscambio (nonostante i dazi) tra le prime due potenze del mondo sono talmente importanti che ci si chiede fino a dove potrà spingersi questa confrontation. Quanti Apple vengono venduti in Cina ogni anno? Quanti billions del debito americano sono sottoscritti dalla Cina?

La vittoria di Trump apre tutti questi interrogativi. Il tempo ci aiuterà a comprendere quella che a tutti gli effetti appare come una svolta epocale nei destini del mondo.

Per destra e sinistra Trump non frenerà transizione eco. Ma ora Ue “se la intesti”

Il voto negli Stati Uniti è stato netto, ha vinto Donald Trump. Eppure, Oltreoceano restano i dubbi su quello che accadrà una volta che il tycoon tornerà allo Studio Ovale della Casa Bianca. In particolare che fine potrà fare la transizione ecologica, visto che il presidente eletto, in campagna elettorale, ha annunciato che uscirà di nuovo dagli accordi di Parigi sul clima, imporrà dazi anche all’Europa e, soprattutto, conferma di non credere nelle teorie sulla crisi climatica.

GEA ha chiesto a diversi responsabili di settore dei partiti italiani, di maggioranza e opposizione, se ci sono rischi che questo processo si interrompa bruscamente in America, con effetti a cascata tutti da verificare e quantificare anche in Europa. Il risultato è quasi sorprendente, perché da destra a sinistra nessuno crede che il ritorno di Trump alla guida degli Usa sarà un colpo mortale alla transizione. “Sicuramente c’è un problema serio che abbiamo difronte a noi”, risponde il deputato di Avs e portavoce nazionale di Europa Verde, Angelo Bonelli, perché la vittoria di Trump “imprimerà almeno uno stop a un Paese importante come gli Stati Uniti nella transizione ecologica globale”. Inoltre, “preoccupa molto la posizione assolutamente contro la scienza di Trump, che nega la crisi climatica e adesso, come abbiamo visto, anche sulla pandemia”. In questo quadro resta da capire “che ruolo Europa e Cina possono giocare insieme” perché i dazi imporrebbero “un cambio di scenario strategico dal punto di vista della politica estera dell’Unione europea, che a mio avviso deve cominciare a capire di dover interloquire con Pechino”.

Non sono rosee nemmeno le previsione di un’altra esponente del centrosinistra, l’eurodeputata Pd, Annalisa Corrado, ma almeno “la transizione ecologica non si ferma qui” così come “la decarbonizzazione è andata avanti malgrado il primo Trump e non si è arrestata come, invece, lui avrebbe voluto”. La responsabile Clima e Conversione ecologica della segreteria dem prevede piuttosto un “rallentamento” perché “in tanti ormai hanno capito che questa è la strada”. Semmai è “urgente e necessario che sia l’Ue a intestarsi” la Transizione: “Ne va della sicurezza e della serenità dell’Europa. Bisogna riacquistare un profilo autonomo”.

Sulla possibilità che la Cina diventi il nuovo interlocutore privilegiato, però, Corrado non si sbilancia: “Il multilateralismo dovrà trovare nuovi equilibri” e dunque “un’alleanza con chi traina il settore potrebbe essere interessante”, ma a suo parere “l’Europa non deve arretrare minimamente sulla conversione. Anzi, mi verrebbe da dire: leader cercasi, non solo dal punto di vista industriale ma anche sulla decarbonizzazione”.

Dalla Lega è Alberto Gusmeroli a rispondere alla domanda di GEA, ma il presidente della commissione Attività produttive della Camera conferma le posizioni già note: “Tutti vogliamo la transizione ecologica, ma che sia sostenibile economicamente e socialmente”.

Non vede particolari rischi nemmeno Luca Squeri, deputato e responsabile Energia di Forza Italia, che ricorda quale sia l’obiettivo finale: “L’emancipazione dal fossile”. Ragion per cui “al di là della necessità ambientale, che noi riconosciamo essere valida” la transizione “ci dà la possibilità di perseguire una indipendenza energetica, perlomeno a livello europeo, con le rinnovabili e il nucleare, che è un traguardo da raggiungere. E’ chiaro che se l’America prende una direzione addirittura contrastante – riconosce – non facilita l’obiettivo complessivo, perché in Europa rappresentiamo il 7-8% delle emissioni”. Ma l’impressione è che non creda a questa ipotesi. Così come sono tanti i dubbi a rinforzare la partnership tra Ue e Cina per contrastare l’eventuale virata Usa: “Dobbiamo interloquirci come con tutti gli altri continenti e potenze economiche e geopolitiche”, ma “quando abbiamo a che fare con un continente che sta realizzando decine di centrali a carbone non lo prenderei come esempio”.