‘Make Europa great again’ perché Bruxelles non può più dormire

Non ce ne vorrà il 47esimo presidente degli Stati Uniti d’America, Donald Trump, se prendiamo a prestito il claim della sua campagna elettorale e lo adattiamo a questioni di casa nostra. Perché mai come adesso che è ri-diventato il capo della nazione più potente del pianeta, è indispensabile un risveglio da parte di chi a Bruxelles sta nella stanza dei bottoni. Eccoci dunque alla composizione del ‘Make Europa great again’, che è quasi un obbligo per non soccombere nel futuro prossimo e per ridare forza gravitazionale e non posticcia al Vecchio Continente.

Ancorché appesantita dalla crisi di Germania e Francia, ancorché mai veramente unita ma troppo spesso divisa da interessi di campanile, l’Europa deve tornare a essere importante senza la spocchia di sentirsi la migliore di tutti perché è tristemente svanito quel tempo dorato. Va sempre ricordato che mentre a Washington si scuciono e ricuciono i destini del mondo, in contemporanea a Bruxelles si tiene l’audizione del commissario alla pesca. Che, con tutto il rispetto, ci proietta in una dimensione quasi grottesca. La sensazione, infatti, è che mentre il vice-presidente (non nominato e non eleggibile perché sudafricano ma sostanzialmente designato dal tycoon) Elon Musk spara razzi sulla Luna e pensa alla conquista di Marte, qualcuno giocherella ancora con procedure burocratiche da ‘ancien regime’. Dicevano i latini, che proprio stupidi non erano: ‘dum differtur vita transcurrit’, che sarebbe un altro claim azzeccatissimo non avesse però un’accessibilità culturale di pochi. In sintesi, mentre rinvii, il tempo scorre.

Dunque: l’Europa deve destarsi dal Grande Sonno e deve farlo perché il nuovo inquilino della Casa Bianca non ci considera alleati ma sostanzialmente concorrenti. E, come tali, verremo trattati nei prossimi quattro anni, a cominciare dai dazi che intende applicare a stretto giro fino alle politiche energetiche che tengono in ostaggio l’Unione europea e, di conseguenza, le nostre industrie. Dal Gnl al petrolio, sulla base delle prevedibili connessioni commerciali con la Russia dell’amico Putin, che fine farà l’Europa? Bella domanda, che resta per il momento senza risposta ma che non può trovare Bruxelles ancora intorpidita dal sonno e dalle audizioni con il commissario sulla pesca. Tanto per capirsi, il dollaro vola, gli indici Dow Jones e Nasdaq viaggiano in positivo: sono le conseguenze dell’effetto Trump.

Sul tema climatico pare poi non ci sia possibilità di mediazione, The Donald è un negazionista per interesse di patria: ha già anticipato la ri-uscita dagli accordi di Parigi del 2015 e guarda alla prossima Cop29 come una inutile kermesse ideologica. Il paradosso è che il suo principale sponsor elettorale, Musk, è il paladino/produttore dell’auto elettrica, la Tesla. Tesla che ha come secondo mercato di vendita la Cina e che viene prodotta anche nella gigafactory di Shanghai. Paradossi, sì, e giochi ad incastri, con la fortuna per l’Italia del rapporto speciale tra la premier Giorgia Meloni e il visionario Musk. Metterà una buona parola, Elon?

Transizione ecologica e decarbonizzazione non possono essere terminologie che riguardano solo i 27 paesi membri dell’Unione ma devono essere ‘esportati’ anche al di là dell’Oceano. E a Pechino. E in India. Ma con lungimiranza e buonsenso, senza ideologie. Trump ne riderebbe. O riderà.

Assovetro, Ravasi: Ridurre consumi energia è missione, obiettivo net zero tra 2040-2050

“Siccome siamo un settore energivoro consumiamo l’1,5% del metano nazionale e l’1% di elettricità nazionale, l’obiettivo è quello di ridurre significativamente i consumi energetici. Ma soprattutto è una missione”. Lo dice il presidente di Assovetro, Marco Ravasi, a margine del convegno ‘La transizione ecologica del vetro. Innovazioni e tecnologie per decarbonizzare l’intera filiera produttiva’. “Negli ultimi venticinque anni li abbiamo già ridotti del 50% passando dal gasolio al metano, efficientando i nostri impianti – aggiunge -. Ora bisogna veramente fare un salto utilizzando idrogeno e tecnologie quali la carbon capture, quindi la cattura della Co2 emessa dai nostri fumi. L’obiettivo finale è essere net zero tra il 2040 e il 2050. Cioè, non avere emissioni di Co2”.

Nucleare, Pichetto: “A inizio 2025 in Parlamento il disegno di legge”. Il Governo valuta l’uso degli impianti esistenti per le scorie

La road map è chiara: entro fine ottobre i risultati del lavoro della Piattaforma nazionale per un nucleare sostenibile, poi entro la fine del 2024 una bozza di testo per la legge-delega che possa abilitare la produzione da fonte nucleare tramite le nuove tecnologie nucleari sostenibili e, nei primi mesi del 2025, il vaglio del Parlamento proprio sul testo. Nel mezzo, lo studio del quadro giuridico, avanti con la ricerca e l’ipotesi di “ammodernare le strutture esistenti, eventualmente ampliandole”, per il deposito delle scorie radioattive. Senza dimenticare la valutazione della “necessità di istituire un soggetto attuatore nazionale, in grado di mettere a sistema il lavoro sin qui sviluppato”.

DECARBONIZZAZIONE AL 2050. L’audizione presso le Commissioni riunite Ambiente e Attività produttive della Camera è l’occasione per il ministro dell’Ambiente e della Sicurezza energetica, Gilberto Pichetto Fratin, per fare il punto sul ruolo dell’energia nucleare nella transizione energetica. E su questo il titolare del Mase non ha dubbi: “sarà centrale anche in un’ottica di decarbonizzazione al 2050” in modo “sostenibile, sicuro e competitivo”, senza “preconcetti ideologici o politici” e “abilitando tutte le tecnologie, sia quelle esistenti sia quelle future”. Buone sarebbero anche “le ricadute sul Pil”, perché produrre energia nucleare in Italia consentirebbe di “aumentare l’occupazione”, e di rappresentare “un motore per il settore industriale nazionale”, capace anche di ridurre la dipendenza dalla Cina, leader nei settori “del fotovoltaico e dei sistemi di accumulo elettrochimici”. Inoltre, “non produce emissioni di CO2” e “tutela il paesaggio” perché richiede uno scarso consumo di suolo.

PICCOLI IMPIANTI MODULARI. Pichetto garantisce che non si sta ragionando per “riaprire le centrali nucleari di grandi dimensioni della prima o seconda generazione”, ma solo sui “piccoli impianti modulari, i cosiddetti Small Modular Reactor, che presentano livelli di sicurezza molto superiori alla grande maggioranza” delle strutture esistenti. Nucleare di terza o quarta generazione, dunque, da integrare – come ricorda “la letteratura scientifica” – con le rinnovabili “non programmabili (eolico e fotovoltaico)”, per arrivare a una quota tra l’11% e il 22% del totale dell’energia richiesta al 2050. “In base ai dati tecnici forniti dalla Piattaforma nazionale per un nucleare sostenibiledice Pichettoè stato possibile prevedere anche una piccola quota di energia da fusione a ridosso dell’anno 2050″.

IL GRUPPO DI LAVORO.  Il lavoro da fare, però, è tanto. Entro la fine del mese la Piattaforma nazionale per un nucleare sostenibile presenterà i suoi risultati che “rappresenteranno una base oggettiva di dati e valutazioni tecniche, non politiche” per tracciare la strada del governo. La Piattaforma è stata istituita presso il Mase in collaborazione con Enea e Rse ed è articolata in sette gruppi di lavoro. Collaborano aziende, industrie, università, enti regolatori, istituti di ricerca e associazioni di categoria. La scelta del nucleare, ricorda Pichetto, non solo è “sostenibile”, ma anche economicamente vantaggiosa. In uno scenario al 2050, integrare il nucleare con le fonti rinnovabili consentirebbe di risparmiare almeno 17 miliardi di euro.

GLI ASPETTI GIURIDICI. Il governo sta lavorando anche sugli aspetti giuridici legati all’utilizzo di questa forma di energia, perché “è necessario un quadro legislativo e normativo chiaramente definito”. Nell’ambito della Piattaforma per il nucleare sostenibile, ha ricordato Pichetto, “sono già state definite una serie di proposte di revisione di aspetti essenzialmente autorizzativi, ma serve un riordino complessivo della normativa del settore, integrandola in un quadro unificato”. Il primo passo del gruppo di esperti, ha annunciato il ministro, è la presentazione entro la fine del 2024 una bozza di testo per la legge-delega che possa abilitare “la produzione da fonte nucleare tramite le nuove tecnologie nucleari sostenibili come gli SMR, AMR e microreattori”. Questo disegno di legge-delega “sarà quindi sottoposto al vaglio parlamentare nei primi mesi del 2025”.

DEPOSITO DELLE SCORIE NUCLEARE. Tasto dolente è quello del Deposito nazionale delle scorie radioattive, la cui mancata definizione è già costata all’Italia una procedura di infrazione da parte della Commissione europea. Ma il processo è lungo, perché per le 51 aree idonee per la costruzione del Deposito serve il completamento della procedura di Valutazione Ambientale Strategica. passaggi burocratici che si uniscono anche alle proteste dei territori. Ma, dice Pichetto, si tratta di una questione “cruciale “per il nostro futuro, che dobbiamo affrontare con la massima serietà e trasparenza”. Ecco perché, annuncia, “negli ultimi tempi stiamo anche valutando soluzioni alternative, con pari livello di sicurezza”, che è quella di “ammodernare le strutture esistenti, eventualmente ampliandole, sfruttando la possibilità di farlo in località potenzialmente già idonee alla gestione in sicurezza di rifiuti radioattivi, anche nell’ottica del rientro dall’estero dei rifiuti ad alta attività che lì si trovano per riprocessamento da diversi anni”. Si tratta di 100 depositi su 22 siti, distribuiti su tutto il territorio nazionale “perché in Italia di producono dai 300 ai 500 metri cubi di rifiuti medicali di bassa e media attività all’anno”. “Spesso si tratta di strutture, presenti al Sud, al Centro e al Nord, isole comprese – ricorda – con le quali il territorio convive da molti anni e che in alcuni casi necessitano semplicemente di un ammodernamento in termini strutturali e tecnologici”.

LA REPLICA DELL’OPPOSIZIONE. Per Angelo Bonelli, portavoce di Europa Verde e parlamentare di Avs, Pichetto “non ha risposto” in merito agli “impatti economici che graveranno sulla finanza pubblica” e “ha omesso di sottolineare che i reattori SMR sono ancora solo prototipi e che gli Stati Uniti hanno abbandonato il progetto Nuscale a causa dei costi eccessivi”. Sul piede di guerra anche il Movimento 5 Stelle. “La narrazione del ministro Pichetto Fratin sugli scenari del nucleare in Italia non ha alcun supporto tecnico”, attacca il deputato Enrico Cappelletti, secondo il quale effettivamente resta il nodo dei costi. “Alcune stime –dice – parlano di 50 miliardi di investimenti, e chi sarà a pagare l’ipotesi di riavviare la produzione di energia nucleare, consapevole che importanti istituti finanziari indicano questa tecnologia tra le più costose?”.

Per il Pd si tratta di “un progetto irrealizzabile, gravato da costi enormi e difficoltà tecniche insormontabili”, ma anche “di un percorso insostenibile sia dal punto di vista ambientale che economico, senza contare i tempi decisamente più lunghi rispetto a quanto finora dichiarato dal governo”, dicono i capigruppo democratici nelle commissioni Ambiente e Attività produttive della Camera, Marco Simiani e Vinicio Peluffo e i deputati Christian Di Sanzo e Augusto Curti.

 

 

 

 

costa rica - batterie -

Clima, l’Aie avverte: “Fare di più o rischio tensioni su forniture globali di materie prime”

L’Agenzia Internazionale dell’Energia (Aie) teme “tensioni” sulle forniture globali di minerali e metalli critici, essenziali per la transizione energetica, e incoraggia un aumento degli investimenti minerari se si vuole che il pianeta riesca a limitare il riscaldamento globale a 1,5 gradi entro la fine del secolo.

“Il calo dei prezzi di minerali critici come il rame, il litio e il nichel, utilizzati per condurre l’elettricità o nelle batterie per i veicoli elettrici, le turbine eoliche e i pannelli solari, ‘maschera il rischio di future tensioni sull’offerta’” afferma l’Aie nel suo secondo rapporto annuale sui metalli, ‘Global Critical Minerals Outlook 2024’. L’Agenzia stima che saranno necessari “800 miliardi di dollari” in investimenti minerari in tutto il mondo da qui al 2040 se il pianeta vuole raggiungere l’obiettivo fissato dall’accordo internazionale sul clima firmato a Parigi nel 2015 di limitare il riscaldamento globale a 1,5 gradi rispetto all’era preindustriale.

Lo scorso anno, il crollo del 75% del prezzo del litio e il calo dal 30% al 45% dei prezzi di cobalto, nichel e grafite hanno portato a una diminuzione media del 14% dei prezzi delle batterie, ma anche al rischio di un rallentamento degli investimenti nel settore minerario rispetto agli anni precedenti. In termini di volume, i due metalli più a rischio di “tensione” dell’offerta sono il litio e il rame, che mostrano un “divario significativo” tra produzione e prospettive di consumo, secondo il rapporto. Questo perché la domanda è in crescita. Nel 2023, le vendite delle sole auto elettriche sono aumentate del 35% e la diffusione dei pannelli solari e dell’energia eolica è cresciuta del 75%. Gli elettrolizzatori che producono l’idrogeno verde necessario per decarbonizzare l’industria pesante e i trasporti richiedono metalli come il nichel, il platino e lo zircone. Eppure le loro installazioni stanno crescendo in modo esponenziale: +360% entro il 2023, secondo il rapporto.

L’Aie richiama inoltre l’attenzione sulla necessità di diversificare le forniture per contrastare l’egemonia della Cina, in particolare nella produzione di due componenti chiave per le batterie per auto: gli anodi (il 98% della produzione proviene dalla Cina) e i catodi (90%). “Più della metà del processo di produzione del litio e del cobalto avviene in Cina. E il Paese domina l’intera catena di produzione della grafite”, utilizzata sia nelle batterie che nell’industria nucleare, secondo il rapporto.

“Non sarei sorpreso di vedere un interesse sempre maggiore per l’estrazione del litio” tra le major petrolifere, ha sottolineato Tim Gould, capo economista dell’Aie. L’americana Exxon Mobil, la più grande compagnia petrolifera del mondo, ha già annunciato investimenti in questo settore. Tuttavia, lo sviluppo di queste miniere comporta molti rischi sociali e ambientali per le comunità locali vicine, come hanno avvertito le Ong pochi giorni fa in vista di una riunione dell’Ocse sul tema a Parigi. La corsa ai minerali critici sta infliggendo “gravi costi” alle popolazioni indigene e alle loro terre tradizionali, spiega Galina Angarova, della tribù Buryat in Siberia, a capo di una coalizione di associazioni che difendono i diritti delle popolazioni indigene.

“Se continuiamo di questo passo, corriamo il rischio di distruggere la natura, la biodiversità e i diritti umani” in un’economia a basse emissioni di carbonio che si è allontanata da petrolio, gas e carbone, dice. “Siamo sulla soglia della prossima rivoluzione industriale… e dobbiamo fare le cose per bene”, aggiunge Angarova. Adam Anthony, dell’Ong Publish what you pay, sottolinea che i minatori si stanno precipitando in Africa senza che il continente benefici del valore aggiunto dell’estrazione di minerali e metalli. “Quando parliamo di minerali critici, dobbiamo chiederci per chi sono critici”, dice. “Non riceviamo alcun beneficio da questa estrazione”.

La Tanzania, ad esempio, estrae manganese e grafite, ma non produce nessuna delle apparecchiature – auto elettriche o batterie – che li utilizzano.

cina

Il lato oscuro della decarbonizzazione: i costi nascosti del net zero in Cina

Espropri, conversione dei terreni agricoli, compromessi ecologici e sociali, cambiamento degli ecosistemi. L’annuncio della Cina di voler raggiungere la neutralità delle emissioni di carbonio entro il 2060 potrebbe comportare costi nascosti e scelte ambientali difficili.

Il Paese emette il 27% dell’anidride carbonica globale e un terzo dei gas serra del mondo, ma sembra lanciato verso la decarbonizzazione. In un articolo pubblicato su Communications Earth & Environment, Stefano Galelli, professore associato presso la Cornell University’s School of Civil and Environmental Engineering, e colleghi hanno cercato di quantificare come la decarbonizzazione della China Southern Power Grid, che fornisce elettricità a più di 300 milioni di persone, avrà un impatto negativo sui bacini fluviali, la maggior parte dei quali scorre dalla Cina verso i Paesi a valle, e ridurrà la quantità di terreni coltivati. “Se pensiamo a qualsiasi grande cambiamento tecnologico, ha sempre dei costi e delle conseguenze indesiderate”, dice Galelli. “Prima ce ne rendiamo conto e le affrontiamo, più sostenibile ed equa sarà la transizione energetica. Dobbiamo farlo bene”.

La decarbonizzazione della rete entro il 2060 potrebbe essere tecnicamente fattibile, ma richiederebbe la costruzione di numerose dighe per la produzione di energia idroelettrica (circa 32 GW) e la conversione di circa 40.000 chilometri quadrati di terreni coltivati per sostenere la crescita del solare e dell’eolico La maggior parte delle dighe verrebbe collocata su fiumi transfrontalieri, cioè condivisi da due o più Paesi, con potenziali impatti ecologici negativi sia in Cina che nei Paesi a valle.

Due dei principali bacini fluviali transfrontalieri che subiranno un impatto sono il Salween e il Mekong, entrambi importanti hotspot di biodiversità. Il Salween è condiviso dalla Cina (a monte) e dal Myanmar; il Mekong dalla Cina (a monte), dal Myanmar, dalla Thailandia, dal Laos, dalla Cambogia e dal Vietnam. Le dighe bloccano il trasporto di sedimenti e nutrienti dal corso superiore alla foce del fiume, riducendo la produttività degli ecosistemi e della pesca. E se i sedimenti non raggiungono il delta, l’intrusione salina diventa un problema maggiore. Le dighe, poi, possono anche avere un impatto sulle specie ittiche migratorie.

La decarbonizzazione porterebbe anche a compromessi ecologici e sociologici in termini di utilizzo del territorio, spiega Galelli. “Escludendo i siti protetti – città e parchi nazionali, per esempio, ciò che rimane sono i terreni coltivati su cui costruire l’energia solare ed eolica”, osserva.

Le centrali a carbone sono state storicamente la fonte dominante di elettricità per la China Southern Power Grid, ma la costruzione di un numero sufficiente di impianti eolici e solari per sostituirle richiederà molto spazio. Che rischia di non essere equamente suddiviso. La ricerca mostra che il 43% del fabbisogno totale di terreni si concentrerebbe probabilmente nella provincia di Guangxi, dove le coltivazioni e i pascoli costituiscono la stragrande maggioranza delle attività sul territorio. Questo potrebbe essere un pesante fardello per la provincia e comportare costi ecologici, sociali e finanziari significativi per le comunità locali.

Cop28, Pichetto chiede uno sforzo per risultati ambiziosi. Le opposizioni attaccano

L’Italia chiede alla Cop28soluzioni costruttive che non siano ostaggio di posizioni estreme e ideologiche”. Mentre i negoziati sul documento finale è ancora work in progress, il nostro Paese, assieme ai partner europei e internazionali, spinge “perché prevalga un approccio concreto e pragmatico che consenta di giungere a una soluzione condivisa sull’obiettivo della decarbonizzazione, che tenga conto a livello globale delle esigenze legate alla sicurezza energetica e alla sostenibilità economica e sociale“, trapela da fonti del Mase.

A capo della delegazione italiana ci sono il ministro dell’Ambiente e della sicurezza energetica, Gilberto Pichetto Fratin, con il suo vice ministro, Vannia Gava. “Si può e si deve fare di più. Stiamo lavorando con i partner europei per migliorare la proposta della Presidenza emiratina”, dice il responsabile del dicastero di via Cristoforo Colombo al termine della riunione di coordinamento dei ministri dell’Unione europea. Sottolineando, però, che rispetto alla bozza circolata a Dubai “serve uno sforzo ulteriore per un testo più ambizioso”.

L’obiettivo italiano è, infatti, quello di far prevalere un approccio concreto e pragmatico che consenta di giungere a una soluzione condivisa sull’obiettivo della decarbonizzazione, che tenga conto a livello globale delle esigenze legate alla sicurezza energetica e alla sostenibilità economica e sociale. Mentre negli Emirati Arabi si continua a lavorare su un compromesso, non mancano le reazioni nel dibattito politico italiano. Soprattutto dopo le notizie circolate sul documento finale, che non menziona l’uscita dalle fonti fossili. “E’ la vittoria dei petrolieri che, con oltre 2500 lobbisti, hanno invaso la conferenza sul clima, ma principalmente è la vittoria di Putin, che pur non avendo partecipato alla Cop28, il 6 dicembre si è recato ad Abu Dhabi e Riad per concordare con i sauditi il fallimento della conferenza“, commenta Angelo Bonelli (Europa Verde). Che poi accusa: “In questo contesto è imbarazzante la posizione dell’Italia: a parole si dice allineata con la Ue, ma nella pratica ha dimostrato di sostenere le posizioni dei paesi produttori di petrolio”. Dal M5S è il vicepresidente della Camera, Sergio Costa, ad augurarsi che il nostro Paese “non si discosti dall’ambizione europea, e non remi contro. Non possono esserci compromessi – ribadisce l’ex ministro dell’Ambiente – quando è in gioco il futuro dell’umanità. Il Pianeta senza i Sapiens sopravvive, ma il genere umano senza il Pianeta no“. Negativa anche la reazione delle associazioni, come il Wwf: “La nuova bozza di testo è deludente e molto meno ambiziosa di quelle precedenti, se passasse com’è sarebbe un disastro, un fallimento per i Governi chiamati ad affrontare, finalmente, la causa della crisi climatica, i combustibili fossili“, dice la Responsabile Clima ed Energia, Mariagrazia Midulla. Che avvisa: “Nessuno pensi di tornare a casa con un testo del genere, bisogna fare gli straordinari. Anche per la presidenza sarebbe uno smacco, visto che cercava risultati ambiziosi“.

A Roma l’evento ‘I trasporti italiani ed europei e la sfida del 2035’. Urso: “La strada della decarbonizzazione è segnata”

Al via a Roma il convegno ‘I trasporti italiani ed europei e la sfida del 2035’, organizzato a Roma da Withub con la direzione editoriale di Gea, Eunews e Fondazione Art.49. In apertura, un messaggio inviato dal ministro delle Imprese e del Made in Italy, Adolfo Urso: “L’evoluzione dei Trasporti nel prossimo decennio è centrale nel dibattito europeo sulle politiche per il raggiungimento degli obiettivi ambientali derivanti dagli Accordi di Parigi. A livello nazionale il settore è responsabile per oltre un terzo del consumo finale energetico complessivo. Il contributo di gran lunga più importante, pari al 90%, è fornito dai prodotti petroliferi”, scrive il ministro, aggiungendo che “in linea con gli obiettivi europei, il governo condivide l’esigenza di un forte impegno per decarbonizzare il settore, in termini di efficientamento, di ottimizzazione dell’uso dei Trasporti e di aumento dell’uso delle fonti rinnovabili. Il percorso è segnato ma è da condurre tenendo sempre presenti le ricadute sul sistema produttivo in termini di imprese, occupazione e competitività”.

Secondo Urso “insieme possiamo vivere questo momento di cambiamenti come una grande occasione per crescere e costruire un futuro più green, anche grazie al contributo dei trasporti” e “il governo si è fatto promotore da subito di una nuova pragmatica postura in Europa e abbiamo ottenuto in pochi mesi risultati importanti: dopo l’apertura agli e-fuels nel regolamento veicoli leggeri, anche nei considerando del regolamento Euro 7 si va concretizzando la possibilità di immatricolare autovetture alimentate a Co2 Neutral Fuel”, inoltre “nella proposta di Regolamento Euro 7 sono stati confermati i test di emissioni del Regolamento Euro 6 così da concedere tempo e risorse alle imprese per investire sull’elettrico. Parallelamente, per sostenere la penetrazione dei veicoli elettrici siamo impegnati nello sviluppo delle infrastrutture di ricarica”. “Il Pnrr – continua Urso – ha previsto più di 700 milioni di euro per l’installazione di infrastrutture di ricarica sulle strade extraurbane e nelle città. Il Pniec riafferma questa linea, impegnandosi a sostenere colonnine di tecnologie di ricarica smart e il vehicle to grid, accompagnate da pannelli solari per l’autoproduzione di elettricità”. E, scrive ancora il ministro, “la scorsa settimana il Mimit ha aperto il bando per l’acquisto e la posa in opera di colonnine dedicate a privati e condomini: 80 milioni di euro destinati alla copertura dell’80% del prezzo di acquisto e posa delle infrastrutture di ricarica per le spese effettuate nel 2022 e nel 2023”.

Frans Timmermans

Gozzi: “Timmermans ha smesso di fare danni ma la sua eredità è pesante”

Frans Timmermans, olandese, socialista, Vice-Presidente della Commissione europea con delega al cosiddetto ‘Green Deal’, ha lasciato il suo incarico per candidarsi primo ministro dello schieramento di sinistra per le elezioni che si terranno prossimamente nel suo Paese.

Gli ultimi mesi della sua attività europea sono stati frenetici nel tentativo di far passare, nel complesso meccanismo legislativo comunitario (Commissione, Consiglio Europeo e Parlamento, il cosiddetto Trilogo), il maggior numero di norme e regolamenti riguardanti la transizione energetica e la lotta al climate change.

Timmermans, che parla un perfetto italiano e che è tutt’altro che un idealista sognatore ma, a detta di chi lo conosce bene, un politico scaltro e navigato che ha cavalcato l’onda ambientalista, è stato l’esempio e l’alfiere di un approccio ideologico ed estremista che ha pervaso tutta l’azione europea degli ultimi anni in tema di transizione, decarbonizzazione, emissioni di CO2. Un approccio fatto di obiettivi irraggiungibili in tema di decarbonizzazione (Fit for 55), di sovrana noncuranza per le conseguenze economiche, industriali e sociali delle scelte estremiste che hanno trasformato le politiche ambientali e la lotta al cambiamento climatico in una nuova religione pagana del nostro tempo, che demonizza il progresso economico e tecnologico e predica un futuro di sacrifici dolorosi oppure l’Apocalisse imminente.

In molti hanno salutato il suo ritiro dalla scena europea dicendo che “ha finito di fare danni”.

In particolare sembra finalmente farsi strada, all’interno del mondo industriale europeo, una più forte riflessione e consapevolezza sulle conseguenze e sui danni provocati da un approccio estremista alla transizione. Non stiamo parlando di posizioni negazioniste, ma al contrario di soggetti attivi che perseguono convintamente politiche di decarbonizzazione dei processi industriali, fatte però con razionalità e pragmatismo e senza fanatismi ideologici.

Alla Assemblea di Assolombarda tenutasi nel luglio scorso il presidente Alessandro Spada ha ad esempio affermato: “L’Unione Europea con i suoi ambiziosi obiettivi ambientali sta forzatamente intaccando la competitività delle imprese manifatturiere europee. E quello che è del tutto irragionevole è l’accelerazione impressa dalla Commissione Europea che con questi tempi e modalità sta dimostrando di voler scaricare sulle imprese i costi della transizione ecologica”.

Una riflessione matura sul tema apre molteplici interrogativi.

Quale è la ragione per la quale un’area del mondo, l’Europa, responsabile di meno dell’8% delle emissioni globali di CO2 deve adottare un atteggiamento così estremista e così negativo per il futuro economico, industriale e quindi sociale del continente quando a livello mondiale le emissioni crescono ogni anno soprattutto per la fame di energia e di crescita che caratterizza quelli che una volta si chiamavano paesi in via di sviluppo?

Se con un colpo di bacchetta magica l’industria europea, tutta l’industria europea, che è responsabile di meno della metà di quell’8%, chiudesse i battenti (con le conseguenze economiche e sociali facilmente immaginabili) a livello mondiale non cambierebbe praticamente niente in termini di emissioni di CO2.

Quale è la ragione per la quale l’Europa è l’unica tra le grandi aree del pianeta ad aver vietato dal 2035 la produzione di auto a combustione interna e per ridurre le emissioni ha scelto di puntare tutto sull’elettrico (senza peraltro dire come verrà prodotta tutta questa energia elettrica) anziché farlo anche attraverso l’uso di altri combustibili come biocarburanti, carburanti sintetici ecc.?

Le conseguenze di questa scelta, fatta sulla base di un postulato ideologico (rifiuto della neutralità tecnologica ma scelta di una sola tecnologia per la decarbonizzazione e cioè l’elettrico), sono l’aver creato una nuova gigantesca dipendenza dalla Cina, primo paese al mondo per la produzione di auto e di auto elettriche e quasi monopolista nel controllo di tutte le materie prime necessarie alla produzione di batterie (litio, cobalto, vanadio, nichel). Su queste basi il futuro è quello di una grave perdita di quote di mercato dell’industria dell’auto europea a favore di quella cinese.

Quale è la ragione per la quale l’Europa si appresta a perdere una parte consistente della sua produzione di acciaio fatto con gli altoforni e con il carbone quando questo acciaio, detto da ‘ciclo integrale’, è indispensabile alla produzione automobilistica?

E ancora: se perderemo quote importanti di produzione di acciaio, settore in cui l’Italia eccelle (perché applica per più dell’80% della sua produzione la tecnologia del forno elettrico che ha ridottissime emissioni di CO2) perché dobbiamo farlo a favore di Cina, India, Indonesia ecc. mettendoci in condizione di esportare lavoratori disoccupati e di importare CO2?

Abbiamo sostenuto più volte, anche da queste pagine, che l’applicazione delle direttive europee nei prossimi anni comporterà la desertificazione industriale del continente con la scomparsa e/o il ridimensionamento di settori strategici quali l’acciaio, la chimica, la carta, il cemento, il vetro, la ceramica.

Perché tutto questo? Ritorniamo alla domanda iniziale.

L’atteggiamento di Timmermans e della maggioranza della sinistra europea può essere spiegato con il fatto che, persa la rappresentanza della classe operaia e dei ceti produttivi (ad esempio, il 75% degli operai iscritti alla Fiom di Brescia, sulla base di un sondaggio coraggiosamente pubblicato dalla Fiom stessa, ha votato Lega) ha sposato l’ecologismo estremista come nuovo rifugio ideologico.

La sinistra radicale, che non ha mai vinto le elezioni in Europa, non può fare a meno di un nemico (i capitalisti che inquinano) e di un totem ideologico (la decrescita infelice).

Questo estremismo della sinistra, che purtroppo ha condizionato e talvolta improntato le politiche europee, nasce anche da un senso di colpa sui temi dell’ambiente che considerata la situazione dell’Europa è totalmente ingiustificato. Questo senso di colpa non tiene conto infatti degli importantissimi risultati positivi messi a segno, in questi anni, dalla UE sul fronte della difesa dell’ambiente.

Secondo l’indice di sviluppo umano delle Nazioni Unite, che tiene conto delle pressioni esercitate sull’ambiente da ogni singola nazione, l’Italia figura, nell’elenco dei virtuosi, terza al mondo dopo Regno UnitoSpagna e, tra i paesi che emettono meno CO2, sette sui primi dieci in classifica, tra cui anche Germania Francia oltreché l’Italia, appartengono all’Unione Europea.

Il perché di una posizione ambientalista radicale, astratta e ideologica della sinistra può dunque essere spiegato come sopra, anche se è in contraddizione con la tradizione di quello schieramento politico storicamente attento all’economia e ai problemi del mondo del lavoro.

Ma perché il Partito Popolare e le altre forze moderate, compreso Renew Europe di Macron, hanno seguito questo approccio in maniera quasi acritica? Mistero.

Un mistero che ha aperto spazi e consenso a movimenti populisti e sovranisti di destra cresciuti in molti paesi riscuotendo sostegno in fasce di popolazione che non si sono sentite rappresentate (gilets jaunes in Francia, il partito dei contadini in Olanda, AfD in Germania).

A me sembra che oggi si presenti l’occasione di rilanciare una nuova visione europeista, non sovranista né populista, che non neghi i problemi del climate change, che continui ad essere attenta ai problemi della transizione energetica, ma che lo faccia con gradualità e buon senso e con la consapevolezza che solo le tecnologie e le imprese possono essere i motori di questa transizione. Ciò significa mettere al centro dell’agenda europea la difesa dell’industria, la sua competitività, il suo accompagnamento e sostegno nel difficilissimo sentiero della transizione.

Tale visione deve essere comune a tutte le grandi famiglie politiche europee: Popolari, Liberal-democratici, e perfino i Verdi tedeschi che ultimamente sembrano riflettere sugli errori commessi seguendo l’approccio radicale alla Timmermans. Le recenti dichiarazioni della Presidente della Commissione Europea Ursula von der Leyen sembrano andare in questa direzione anche se non si può negare che l’appoggio dei verdi e dei socialisti alla sua presidenza l’abbia condizionata non poco.

Anche i socialisti dovrebbero adottare una visione più realistica e razionale invece di continuare ad assecondare la retorica ideologica degli ambientalisti estremisti di fatto nemici dell’Europa. Un aiuto più importante del Sindacato in questo senso forse aiuterebbe, richiamando la sinistra al fatto che senza economia e senza lavoro l’unica transizione è verso la miseria e sarebbero i ceti più deboli a pagarne le peggiori conseguenze.

Folgiero (Fincantieri): “Nel futuro metanolo e idrogeno, studiamo nucleare su grandi navi”

Transizione e decarbonizzazione sono due parole che segneranno il futuro non solo di case e auto, argomenti al centro delle cronache quotidiane, ma anche del trasporto marittimo, che vede l’Italia ponte naturale nel Mediterraneo e che vanta uno dei principali player nella cantieristica e non solo, a livello mondiale, come Fincantieri. Il gruppo ha chiuso il primo semestre con ricavi per 3,669 miliardi, +4,5 % rispetto allo stesso periodo del 2022, e un margine lordo di 185 milioni dai 90 di un anno fa. In un’intervista a GEA, l’amministratore delegato Pierroberto Folgiero indica i progressi del gruppo verso la sostenibilità e traccia le linee del percorso verso la decarbonizzazione.

Sostenibilità. Avete presentato un piano dettagliato con progetti e missioni da qua al 2027. Secondo lei sarà più impegnativa la transizione energetica nel trasporto marittimo rispetto a quello su strada?

“L’intero mondo della navigazione, che sia crocieristico, mercantile o militare, sta attraversando un processo evolutivo all’insegna dei principi della sostenibilità e dell’economia circolare. Nel quadro del nuovo Piano Industriale abbiamo presentato una chiara strategia per realizzare navi sempre più ecologiche, sicure e performanti, proiettandoci verso la nave del futuro, sostenibile e digitale. Si tratta di una sfida particolarmente ardua, perché tutte le problematiche dell’implementazione di tecnologie legate alla decarbonizzazione che si possono incontrare a terra, si moltiplicano in mare, dove peso e spazio costituiscono vincoli ineludibili. Questo non significa che ci lasciamo intimidire, anzi. Per Fincantieri questa traiettoria è una realtà già consolidata”.

Uno dei temi fondamentali è quello dei carburanti: idrogeno e Gnl quanto possono essere soluzioni realistiche e che tempistiche ci sono?

“L’impiego di combustibili alternativi, insieme a tematiche relative alla cattura di CO2 e alla capacità di riciclare i rifiuti prodotti a bordo – oggi le nostre navi raggiungono una quota del 90% – rivestono un ruolo primario nella riduzione dell’impatto ambientale. Il Gnl si presenta come il combustibile marino più pulito attualmente disponibile su larga scala e già il prossimo anno consegneremo la prima unità ad alimentazione duale diesel e Gnl, la Sun Princess del gruppo Carnival. La traiettoria verso il target net zero passerà per il metanolo, per cui abbiamo già ottenuto i primi ordini, l’ammoniaca e l’idrogeno: la prima è in sperimentazione nelle navi per l’offshore, mentre l’idrogeno è già una fonte ausiliaria nelle operazioni in porto delle navi da crociera, grazie all’esperienza della nostra nave-laboratorio Zeus, alimentata tramite fuel cell e prima nel suo genere al mondo”.

Recentemente avete siglato un accordo per studiare l’utilizzo dei propulsori nucleari: la garanzia di zero emissioni in questo caso ci sarebbe, cambierebbe qualcosa per la sicurezza del trasporto?

“Ciò che oscilla tra il potenziale di una tecnologia e la capacità degli operatori di estrarre quel potenziale, è il fulcro della questione. Le forze migliori devono collaborare per far emergere il percorso di sviluppo che condurrà il nostro settore al raggiungimento degli ambiziosi obiettivi che si è posto. È ciò che abbiamo fatto con l’accordo citato, attraverso cui studieremo applicazioni nucleari di IV generazione per navi di grandi dimensioni. Oltre a newcleo, che porta il know-how, abbiamo come partner il Rina, ente di classifica internazionale di primo livello, impegnato nella certificazione di ogni soluzione secondo i più alti standard richiesti, primo fra tutti quello della sicurezza”.

A livello di gruppo puntate a garantire l’utilizzo di energia elettrica al 100% da fonte rinnovabile entro il 2030. Da dove verrà questa energia? 

“I nostri sforzi per aumentare l’uso di energia rinnovabile sono costanti. Lo scorso anno abbiamo firmato un accordo con Renovit, uno dei principali operatori nazionali per le soluzioni innovative di efficienza energetica, per realizzare impianti fotovoltaici nel nostro network produttivo. Stiamo ultimando l’installazione di 22.000 pannelli fotovoltaici in diversi cantieri italiani, che avranno una potenza complessiva di circa 10 MW e, grazie all’autoconsumo dell’energia prodotta, stimabile tra il 75% e il 100%, ci permetteranno di ridurre il prelievo annuale di energia elettrica dalla rete nazionale di circa 11 GWh. La rotta è tracciata”.

Fincantieri è attiva anche nel mondo dell’eolico. Finora, causa aumento dei costi, la corsa all’offshore in Europa sembra rallentata. O non è così? E in Italia?

“L’eolico offshore può essere un grande volano di sviluppo per l’Italia, fornendo un contributo decisivo alla sicurezza e alla transizione energetiche. Il comparto ci vede protagonisti a livello mondiale, grazie a una forte expertise nella progettazione e costruzione di navi di supporto agli impianti eolici in mare aperto e dei campi eolici flottanti”.

Si parla molto di rischio deindustrializzazione. Secondo lei si può coniugare la transizione con la tenuta e il rilancio dell’industria made in Italy?

“Assolutamente. La transizione deve diventare uno dei canali di rilancio della nostra industria. Proprio in riferimento ai parchi eolici, uno sviluppo in questo senso significherebbe un impulso anche all’occupazione, creando posti di lavoro soprattutto al Sud, considerato che un impianto di produzione può impiegare dalle 200 alle 700 persone e che ci potranno volere, a tendere, diversi impianti. Una simile evoluzione rafforzerebbe anche la posizione dell’Italia quale hub energetico del Mediterraneo. Fincantieri è pronta ad agire come attivatore della transizione energetica, guardando al futuro del Paese”.

Decarbonizzare il trasporto marittimo costerà 3 trilioni di dollari. Ma la strada è tracciata

Tre trilioni di dollari. A tanto ammontano gli investimenti necessari ad arrivare alla totale decarbonizzazione dei trasporti marittimi. I tempi per la transizione green del settore, anche se si stanno facendo “importanti sforzi”, possono essere “lunghi e sono necessari enormi investimenti”. E’ quanto emerge dal decimo rapporto annuale ‘Italian Maritime Economy’ a cura di Srm (Centro Studi collegato al Gruppo Intesa Sanpaolo). Il trasporto marittimo, infatti, produce il 2,19% di CO2. Un valore “che non sembra particolarmente elevato se non fosse per tre elementi essenziali, che hanno la capacità di condizionare il mercato e trasformarlo: lo shipping a livello mondiale trasporta il 90% delle merci, è un settore capital intensive i cui investimenti di lungo periodo condizionano il futuro ed è fortemente concentrato, per cui le azioni dei big player hanno la possibilità di orientare i mercati”.

I CARBURANTI DEL FUTURO. Nel medio termine, per gli analisti, si può prevedere una progressiva sostituzione del Gnl con il biometano, ammoniaca e, a lungo termine, l’idrogeno “perché più sostenibili e dal minor impatto ambientale”. E anche se “non è ancora definita la scelta del carburante alternativo del futuro”, il settore marittimo è sulla strada giusta.

A luglio 2023 le navi in ordine (in termini di GT) con carburante Gnl rappresentano il 39% del portafoglio ordini; quelle a metanolo il 5,4%; a Lpg il 2,1%; ad altri carburanti alternativi (idrogeno, etano, biofuel, batterie), il 2,8%. Inoltre il 7,7% dell’orderbook riguarda navi ammonia ready (pronte cioè ad utilizzare l’ammoniaca non appena la tecnologia lo consentirà). L’individuazione del carburante alternativo, spiega il rapporto, “è determinante anche per i porti che già stanno realizzando investimenti in infrastrutture che potranno consentire il bunkeraggio”. Diventa questo “un vantaggio strategico perché in tal modo i porti saranno in grado di attrarre nuovi traffici”. Attualmente sono 169 i porti attivi per il bunkeraggio di Ggn (e 95 le strutture in progetto).

IN CINQUE ANNI ITALIA HUB MEDITERRANEO DEL GAS. La spinta verso la transizione ecologica e l’utilizzo di fonti alternative, è l’analisi del rapporto, “contribuirà in futuro a ridurre la domanda di prodotti petroliferi a vantaggio di forme green”. Per il nostro paese molte delle iniziative “devono tener conto dell’attività dei porti che possono diventare dei veri e propri “hub energetici” per lo stoccaggio e/o produzione di Gnl, biocarburanti, idrogeno”.  Si stimano 5 anni per fare dell’Italia il ponte Mediterraneo del gas attraverso 7 rigassificatori in prossimità dei porti e 5 gasdotti da sud volti a far transitare circa 50 miliardi di metri cubi di GNL e fino a 90 miliardi di gas (a pieno regime) per un totale di 140 mld.

LA DIGITALIZZAZIONE DEL SETTORE. Ma c’è un altro strumento “essenziale” per il raggiungimento degli obiettivi di sostenibilità, che è, secondo il rapporto, la digitalizzazione del settore“. Il World Economic Forum ha stimato l’impatto nei prossimi 10 anni dell’applicazione della tecnologia digitale nell’industria logistica che si può quantificare nella creazione di 2 milioni di occupati e nella riduzione delle emissioni di carbonio pari a 10 milioni di tonnellate. Il mercato globale della digitalizzazione marittima è stato valutato in 157,4 miliardi di dollari nel 2021 e si prevede che raggiungerà i 423,4 miliardi di dollari entro il 2031, con una crescita del 10,7% dal 2022 al 2031. È questo lo strumento, spiegano gli esperti, “per ottimizzare i risparmi e migliorare tempi e qualità”.