La Cop è stata un flop, forse conviene cambiare format per il Brasile

Non è stata un successo, la Cop 29. E, onestamente, era facile immaginarlo. Pressappoco come le altre che l’hanno preceduta. Partito con la medaglietta di ‘Cop finanziaria’, l’appuntamento ‘verde’ più importante dell’anno ha registrato un rosario di defezioni importantissime (da Biden a Xi Jinping, da Macron a Lula, per finire con von der Leyen e con il premier australiano Anthony Albanese), distanze siderali tra la teoria e la pratica, cioè tra cosa si ipotizzava di raggiungere e gli accordi che sono stati messi su carta, una sostanziale insoddisfazione di fondo generata da uno scetticismo di base assai diffuso. Baku, insomma, non si è rivelato un punto di svolta e nemmeno un punto di raccolta fondi. Perché, in concreto, la bozza finale sui denari da investire di qui al 2035 ha scontentato tutti: i Paesi in via di sviluppo e quelli sviluppati. Con una superficialità quasi imbarazzante si è parlato per giorni di 1000-1300 miliardi all’anno da destinare per la finanza climatica, tralasciando il dettaglio che non ci sono soldi. E, non a caso, il contraddittorio si è acceso fino a diventare scontro.

C’era una volta il temerario Frans Timmermars, c’era John Kerry e c’erano i pasdaran del green, ora lo scenario si è impoverito e al di là di allarmi plastificati lanciati a macchia di leopardo sul cattivissimo stato di salute del Pianeta, all’atto pratico si tratta sempre e solo di chiacchiere, idee e progetti che rimangono appesi nell’aria inquinata. Perché si scontrano con interessi di campanile e mancanza di fondi. Del resto, se l’incipit della Cop è stata la dichiarazione del presidente Ilham Alyev sui combustibili fossili “come dono di Dio”, a cascata pareva complicato ipotizzare passi avanti. Anche la premier Giorgia Meloni, immergendosi nel realismo più assoluto, ha ricordato nel suo intervento in presenza – almeno la presidente del Consiglio in Azerbaigian è andata – che di gas e petrolio dovremo ancora campare per anni, senza trascurare però la tutela della Terra. E quindi? Quindi ‘adelante ma con juicio’, soprattutto avanti con il nucleare. Ma pure su questo tema non c’è unanimità di vedute.

Liofilizzando il concetto, la Cop29 non rimarrà scolpita nella memoria collettiva. In fondo, è nata male fin da subito, cioè in concomitanza con l’elezione di Donald Trump alla presidenza degli Stati Uniti, e si è incagliata nella recrudescenza dei conflitti e nelle ambasce finanziare degli Stati, America compresa. Appena eletto, il Tycoon ha annunciato che (ri)uscirà dagli accordi di Parigi e che riprenderà a trivellare in maniera forsennata per preservare gli interessi di patria. Non proprio un bello spot per i tavoli di discussione di Baku. Trump che, tra l’altro, all’ambiente ha designato un comprovato negazionista e sostenitore dei combustibili fossili, Christ Wright, giusto per fare capire a tutti quanto gli stia a cuore l’argomento.

Adesso l’orizzonte è quello della Cop 30 in Brasile. Lì il padrone di casa sarà Ignacio Lula da Silva che ha improntato la sua rielezione a presidente sulla salvaguardia dell’Amazzonia. Per evitare che anche le due settimane di Rio de Janeiro abbiano la consistenza di un pandoro, è indispensabile non ripetere Baku, Dubai, Sharm El Sheik. Alla ventinovesima edizione dell’appuntamento promosso dall’Onu, forse bisogna cambiare – come dire? – il format. Così è la fiera multietnica dell’inutilità, invece c’è bisogno di decarbonizzare, tutelare, coccolare il nostro Pianeta. Che non scoppia di salute. Magari è il caso di modificare approccio, di rovesciare la prospettiva visto che – ormai è conclamato – trovare un’intesa tra quasi 200 nazioni, ciascuna con ricadute diverse, è un esercizio impraticabile.

Usa, Musk ministro di Trump: la folle scommessa politica dell’uomo più ricco del mondo

È stata una delle scommesse più azzardate della storia economica e politica recente, e ha dato i suoi frutti: Elon Musk ha visto premiato il suo convinto sostegno a Donald Trump con un posto di ministro per l”Efficacia di governo’. Il Presidente eletto ha annunciato che intende nominare il capo di Tesla, Space X e X, insieme all’uomo d’affari repubblicano Vivek Ramaswamy, in questo nuovissimo ministero.

La sua missione è quella di “mandare onde d’urto attraverso il sistema” deregolamentando tutto e operando tagli drastici al bilancio federale. Verrà pubblicata una “classifica delle spese più spaventosamente stupide”, che “sarà allo stesso tempo estremamente tragica e divertente”, ha annunciato Musk su X dopo l’annuncio della sua futura nomina. Resta da vedere come due personalità come Elon Musk e Donald Trump andranno d’accordo a lungo termine.

Nato il 28 giugno 1971 in Sudafrica da un padre ingegnere e una modella canadese, l’uomo più ricco del mondo – naturalizzato americano – è diventato la figura più controversa del neocapitalismo. Condivide le sue ambizioni extraplanetarie e le sue idee tecno-libertarie con oltre 200 milioni di follower sulla piattaforma che ha acquistato nel 2022, cambiandone il nome da “Twitter” a “X”. Elon Musk, 53 anni, nelle ultime settimane si è buttato a capofitto nella campagna elettorale di Donald Trump.

Le immagini del multimiliardario – Forbes stima la sua fortuna a più di 300 miliardi di dollari – che salta sul palco durante un comizio repubblicano in Pennsylvania sono diventate virali. Il suo comitato di sostegno ha organizzato una lotteria che offriva un milione di dollari al giorno agli elettori registrati negli Stati chiave che avessero accettato di firmare una petizione conservatrice a favore della libertà di espressione e del diritto di portare armi. Ha investito oltre 100 milioni di dollari nella campagna elettorale del Presidente eletto e ha usato il suo social network, su cui posta ininterrottamente, come cassa di risonanza. Oggi è ministro, oltre a essere a capo di Tesla, il principale produttore di veicoli elettrici al mondo, e di SpaceX, la sua azienda spaziale.

Elon Musk è a capo di una serie di altri progetti che illustrano la sua visione tecno-futuristica di un’umanità potenziata dalla scienza, destinata a prosperare su altri pianeti. Tra questi, Neuralink, una start-up che mira a collegare il cervello umano direttamente al computer. Diventato milionario prima dei 30 anni dopo aver venduto una società di software online creata insieme al fratello, Elon Musk ha poi fondato X.com, che si è poi fusa con PayPal ed è stata acquistata da eBay nel 2002. La sua linea libertaria e apertamente maschilista e la sua virulenta critica all’immigrazione lo hanno reso sempre più popolare nella destra americana. Ha conquistato Donald Trump, che lo ha definito un “super genio” nel suo discorso di vittoria. Musk è anche appassionato di teorie cospirative: quest’anno, ad esempio, ha affermato che il Partito Democratico starebbe “importando deliberatamente immigrati clandestini” per aumentare la propria base elettorale. A luglio ha annunciato a gran voce che avrebbe spostato la sede di SpaceX e X in Texas, per protestare contro l’approvazione di una legge sugli studenti transgender in California, uno Stato che i repubblicani criticano costantemente per le sue politiche progressiste.

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Usa 2024, Meloni sente Musk: “Amico Elon risorsa importante”. Ma aleggia spettro dazi

Il giorno dopo la vittoria di Donald Trump alle presidenziali americane, Giorgia Meloni sente anche “l‘amico Elon Musk” che, dopo essere stato cruciale in campagna elettorale, nell’amministrazione del tycoon dovrebbe ricoprire un ruolo di primo piano. “Sono convinta che il suo impegno e la sua visione potranno rappresentare un’importante risorsa per gli Stati Uniti e per l’Italia, in uno spirito di collaborazione volto ad affrontare le sfide future“, scrive la premier su X, il social del patron di Tesla. La frase fa da commento a una foto in cui i due sorridono e si abbracciano, in una delle visite di Musk a Palazzo Chigi.

Occhi puntati sui dazi ai prodotti italiani per il vicepremier Antonio Tajani, che continua a dirsi sicuro dell’amicizia con gli Stati Uniti: “Il governo italiano e la nuova amministrazione americana sapranno lavorare insieme per proteggere i nostri popoli“, scandisce sulle colonne del Corriere della Sera, mentre è impegnato nel viaggio in Cina con il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella.
La partnership tra i due Paesi non cambieranno, garantisce, perché “i rapporti fra Stati Uniti e Italia sono talmente profondi, complessi e importanti che nulla potrebbe indebolirli“. Trump però, ammette il vicepremier, ha vinto la sua sfida con messaggi che “promettono un cambiamento radicale“.

L’incubo dei dazi aleggia, perché con questi l’imprenditore vorrebbe ridurre il deficit commerciale degli Stati Uniti con l’estero, alzandoli del 10% o addirittura del 20. Con la Cina si è parlato anche di dazi del 60% su tutti i loro prodotti. Ma anche per Paesi europei esportatori netti (Germania, Francia, Italia, Olanda) la nuova amministrazione vorrebbe queste penalizzazioni. “Dovremo evitare uno scontro“, chiosa il ministro degli Esteri, che punta al dialogo, perché l’interscambio Ue-Usa nel 2023 ha sfiorato gli 850 miliardi di euro, con un saldo commerciale a favore dell’Europa di 156 miliardi di euro.

La sola Italia ha avuto nel 2023 un saldo positivo di 40 miliardi di euro: “L’export è la vita stessa dell’Italia – ricorda Tajani -. Trump ha sempre dimostrato di guardare con occhio attento all’Italia, già in passato ha fatto scelte diverse per noi rispetto ad altri Paesi“.

L’elezione di Trump è una sfida di “alto profilo” per quanto riguarda la politica industriale e commerciale per l’Europa, fa eco il ministro delle Imprese, Adolfo Urso, perché prevede “accentuerà quello che ha già fatto Biden nei confronti della Cina“. Se Biden ha aumentato i dazi alle auto elettriche cinesi al 100%, osserva Urso “verosimilmente questo accadrà sempre più in altri settori“, costringendo nel contempo l’Europa a riesaminare da subito la sua politica industriale e commerciale “come a nostro avviso deve fare”.

Da Pechino arriva l’invito di Xi Jinping alla collaborazione e al “rispetto reciproco” e quello, ancora più esplicito, della portavoce del ministero degli Esteri Mao Ning: “Come questione di principio – avverte -, vorrei ribadire che non ci sarebbero vincitori in una guerra commerciale, che non sarebbe nemmeno positiva per il mondo”.

Se a Trump il rapporto con l’Europa interessa poco o nulla

Donald Trump ha vinto le elezioni americane ed è nuovamente presidente degli Stati Uniti d’America.

La vittoria è stata netta in tutti gli stati chiave e anche in termini di numero di votanti Trump ha superato di larga misura la Harris (quasi 71 milioni di voti contro 66). Trump ha preso più voti in tutte le classi sociali, in tutte le classi di età.

Grazie alla schiacciante vittoria Trump avrà la maggioranza sia al Congresso che al Senato, dove la maggioranza degli eletti è fatta da senatori “trumpiani” di stretta osservanza, e ciò attribuisce al nuovo Presidente poteri quasi assoluti se si considera che controlla anche la Corte Suprema. Io non ricordo, nella più importante democrazia del mondo, una situazione di concentrazione di poteri simile con il venir meno dei classici balance.

Ci sarà tempo e modo per analizzare e comprendere la dimensione e le determinanti di questo voto a partire dalla debolezza e dalla mancanza di leadership della candidata democratica. Una consistente maggioranza di cittadini americani ha votato per un signore molto discusso, sul quale pendono ancora giudizi penali, che non ha mai riconosciuto di aver perso le elezioni precedenti, che ha appoggiato se non ispirato una sedizione popolare contro la vittoria di Biden sfociata nell’assalto a Capitol Hill.

Bisognerà capire il perché di tutto ciò e chiedersi se, al di là di Trump che in definitiva è un uomo in carne e ossa come tutti noi, di 78 anni, provato da anni di vicende difficili e che perde qualche colpo come si è visto in campagna elettorale, la sua vittoria sia il segno di un cambiamento epocale nella storia della democrazia statunitense.

Ma bisognerà anche chiedersi come abbia pesato su questo voto il concentrarsi della proposta dei democratici Usa e di Kamala Harris prevalentemente sui diritti civili con una sempre più scarsa attenzione ai diritti sociali, al tema del lavoro e a quello della tutela delle categorie più colpite (ceto medio e classe operaia) dai venti impetuosi della globalizzazione e alle loro richieste di benessere, stabilità e sicurezza.

Nel frattempo è lecito chiedersi che cosa la vittoria di Trump significhi per gli europei, per l’Europa e per la nostra Italia e quali saranno le conseguenze per il mondo intero della nuova Presidenza. Si tratta di questioni difficili sulle quali dico la mia opinione con molta umiltà e dal mio punto di vista di operatore economico internazionale ma molto concentrato sui temi dell’industria europea e italiana.

Ho detto e scritto più volte che probabilmente l’ultimo Presidente Usa con un po’ di sensibilità atlantica è stato Biden. A Trump il rapporto con l’Europa interessa poco o nulla essendo totalmente concentrato sulla confrontation con la Cina nell’area pacifica.

Ciò ha una serie di conseguenze che potrebbero essere non positive per l’Europa a meno che non diventino dei veri e propri shock destinati finalmente a far comprendere all’Unione Europea quali sono le sfide che le stanno dinanzi, a farle cambiare l’attitudine da prima della classe che, sul piano economico e del confronto con gli Usa e con la Cina, è stata fino ad oggi disastrosa. Un atteggiamento che in venti anni ha fatto perdere all’Europa un terzo del suo PIL nei confronti di quello statunitense e che la vede superata in tutti i settori di punta e innovativi dagli Usa e dalla Cina.

Vediamo rapidamente quali potrebbero essere le conseguenze dell’elezione di Trump.

È molto probabile che ci sarà da parte americana un ulteriore indurimento delle politiche protezionistiche e di protezione dell’industria nazionale che, per la verità, anche la presidenza Biden ha mantenuto. Si parla di dazi monstre sulle auto elettriche cinesi e ciò significa che le esportazioni cinesi, spinte dalla sovra capacità produttiva in tutti i settori industriali di quel Paese, si riverserà nelle aree più aperte, quali appunto l’Europa, mettendo ancora più in crisi i nostri sistemi industriali.

Trump continuerà con tutte le politiche finanziarie e di supporto ai sistemi economici e produttivi statunitensi, allenterà le politiche contro il climate change e la transizione aumentando ulteriormente l’asimmetria con le politiche europee di transizione e ciò causerà ulteriore svantaggio competitivo  per le nostre imprese industriali.

Probabilmente ci sarà negli USA una nuova fase di deregulation finanziaria molto pericolosa tenuto conto dell’importanza delle banche e dei fondi americani e dell’enorme liquidità da questi raccolta.

Ci sarà poi, quasi sicuramente, la richiesta del nuovo Presidente americano ai Paesi europei di aumentare le loro spese per la difesa e la loro contribuzione annuale alle spese Nato così da consentire agli Usa di ridurre il loro contributo che oggi è preponderante. Ciò obbligherà l’Europa a vere decisioni sul tema della difesa comune e della sicurezza strategica, decisioni che impatteranno i bilanci dei Paesi europei con il rischio di un’ulteriore compressione della spesa sociale e sanitaria.

Più in generale c’è il rischio di un indebolimento della solidarietà occidentale per disimpegno statunitense da tutti i teatri che non siano il Pacifico e il confronto con la Cina.

Fa bene Ursula Von der Leyen a rilanciare la necessità di un rinnovato patto atlantico che leghi ancora di più Usa ed Europa. Ma questo appello, fatto dopo la vittoria di Trump, rischia di essere tardivo e di apparire strumentale.

Infine ci sono i due grandi punti interrogativi relativi alle due guerre in corso e sul confronto prossimo venturo con la Cina.

Trump ha detto che farà terminare le due guerre  in pochi giorni e che mai ci sarà una nuova guerra nel corso del suo mandato.

A proposito della aggressione russa all’Ucraina cosa significa questo? Minore aiuto militare a Kiev? Concessioni a Putin sulle sue richieste territoriali e di “finlandizzazione” dell’Ucraina? Ma è possibile che il Presidente degli Stati Uniti d’America faccia vincere Putin? Difficile crederlo ma vedremo.

In Medio Oriente l’appoggio a Israele invece sarà mantenuto e addirittura potenziato nella difesa del suo diritto all’esistenza e nel contenimento delle politiche di destabilizzazione dell’area da parte dell’Iran. Non bisogna dimenticare che gli accordi di Abramo firmati nel 2020 da Israele, Emirati Arabi Uniti, Bahrain, Marocco e Sudan e che, prima dell’assalto di Hamas ad Israele del 7 ottobre 2023, stavano per essere firmati anche dall’Arabia Saudita furono probabilmente il maggior successo diplomatico della prima amministrazione Trump.

Infine la confrontation con la Cina. I legami economici e finanziari e l’interscambio (nonostante i dazi) tra le prime due potenze del mondo sono talmente importanti che ci si chiede fino a dove potrà spingersi questa confrontation. Quanti Apple vengono venduti in Cina ogni anno? Quanti billions del debito americano sono sottoscritti dalla Cina?

La vittoria di Trump apre tutti questi interrogativi. Il tempo ci aiuterà a comprendere quella che a tutti gli effetti appare come una svolta epocale nei destini del mondo.

Per destra e sinistra Trump non frenerà transizione eco. Ma ora Ue “se la intesti”

Il voto negli Stati Uniti è stato netto, ha vinto Donald Trump. Eppure, Oltreoceano restano i dubbi su quello che accadrà una volta che il tycoon tornerà allo Studio Ovale della Casa Bianca. In particolare che fine potrà fare la transizione ecologica, visto che il presidente eletto, in campagna elettorale, ha annunciato che uscirà di nuovo dagli accordi di Parigi sul clima, imporrà dazi anche all’Europa e, soprattutto, conferma di non credere nelle teorie sulla crisi climatica.

GEA ha chiesto a diversi responsabili di settore dei partiti italiani, di maggioranza e opposizione, se ci sono rischi che questo processo si interrompa bruscamente in America, con effetti a cascata tutti da verificare e quantificare anche in Europa. Il risultato è quasi sorprendente, perché da destra a sinistra nessuno crede che il ritorno di Trump alla guida degli Usa sarà un colpo mortale alla transizione. “Sicuramente c’è un problema serio che abbiamo difronte a noi”, risponde il deputato di Avs e portavoce nazionale di Europa Verde, Angelo Bonelli, perché la vittoria di Trump “imprimerà almeno uno stop a un Paese importante come gli Stati Uniti nella transizione ecologica globale”. Inoltre, “preoccupa molto la posizione assolutamente contro la scienza di Trump, che nega la crisi climatica e adesso, come abbiamo visto, anche sulla pandemia”. In questo quadro resta da capire “che ruolo Europa e Cina possono giocare insieme” perché i dazi imporrebbero “un cambio di scenario strategico dal punto di vista della politica estera dell’Unione europea, che a mio avviso deve cominciare a capire di dover interloquire con Pechino”.

Non sono rosee nemmeno le previsione di un’altra esponente del centrosinistra, l’eurodeputata Pd, Annalisa Corrado, ma almeno “la transizione ecologica non si ferma qui” così come “la decarbonizzazione è andata avanti malgrado il primo Trump e non si è arrestata come, invece, lui avrebbe voluto”. La responsabile Clima e Conversione ecologica della segreteria dem prevede piuttosto un “rallentamento” perché “in tanti ormai hanno capito che questa è la strada”. Semmai è “urgente e necessario che sia l’Ue a intestarsi” la Transizione: “Ne va della sicurezza e della serenità dell’Europa. Bisogna riacquistare un profilo autonomo”.

Sulla possibilità che la Cina diventi il nuovo interlocutore privilegiato, però, Corrado non si sbilancia: “Il multilateralismo dovrà trovare nuovi equilibri” e dunque “un’alleanza con chi traina il settore potrebbe essere interessante”, ma a suo parere “l’Europa non deve arretrare minimamente sulla conversione. Anzi, mi verrebbe da dire: leader cercasi, non solo dal punto di vista industriale ma anche sulla decarbonizzazione”.

Dalla Lega è Alberto Gusmeroli a rispondere alla domanda di GEA, ma il presidente della commissione Attività produttive della Camera conferma le posizioni già note: “Tutti vogliamo la transizione ecologica, ma che sia sostenibile economicamente e socialmente”.

Non vede particolari rischi nemmeno Luca Squeri, deputato e responsabile Energia di Forza Italia, che ricorda quale sia l’obiettivo finale: “L’emancipazione dal fossile”. Ragion per cui “al di là della necessità ambientale, che noi riconosciamo essere valida” la transizione “ci dà la possibilità di perseguire una indipendenza energetica, perlomeno a livello europeo, con le rinnovabili e il nucleare, che è un traguardo da raggiungere. E’ chiaro che se l’America prende una direzione addirittura contrastante – riconosce – non facilita l’obiettivo complessivo, perché in Europa rappresentiamo il 7-8% delle emissioni”. Ma l’impressione è che non creda a questa ipotesi. Così come sono tanti i dubbi a rinforzare la partnership tra Ue e Cina per contrastare l’eventuale virata Usa: “Dobbiamo interloquirci come con tutti gli altri continenti e potenze economiche e geopolitiche”, ma “quando abbiamo a che fare con un continente che sta realizzando decine di centrali a carbone non lo prenderei come esempio”.

‘Make Europa great again’ perché Bruxelles non può più dormire

Non ce ne vorrà il 47esimo presidente degli Stati Uniti d’America, Donald Trump, se prendiamo a prestito il claim della sua campagna elettorale e lo adattiamo a questioni di casa nostra. Perché mai come adesso che è ri-diventato il capo della nazione più potente del pianeta, è indispensabile un risveglio da parte di chi a Bruxelles sta nella stanza dei bottoni. Eccoci dunque alla composizione del ‘Make Europa great again’, che è quasi un obbligo per non soccombere nel futuro prossimo e per ridare forza gravitazionale e non posticcia al Vecchio Continente.

Ancorché appesantita dalla crisi di Germania e Francia, ancorché mai veramente unita ma troppo spesso divisa da interessi di campanile, l’Europa deve tornare a essere importante senza la spocchia di sentirsi la migliore di tutti perché è tristemente svanito quel tempo dorato. Va sempre ricordato che mentre a Washington si scuciono e ricuciono i destini del mondo, in contemporanea a Bruxelles si tiene l’audizione del commissario alla pesca. Che, con tutto il rispetto, ci proietta in una dimensione quasi grottesca. La sensazione, infatti, è che mentre il vice-presidente (non nominato e non eleggibile perché sudafricano ma sostanzialmente designato dal tycoon) Elon Musk spara razzi sulla Luna e pensa alla conquista di Marte, qualcuno giocherella ancora con procedure burocratiche da ‘ancien regime’. Dicevano i latini, che proprio stupidi non erano: ‘dum differtur vita transcurrit’, che sarebbe un altro claim azzeccatissimo non avesse però un’accessibilità culturale di pochi. In sintesi, mentre rinvii, il tempo scorre.

Dunque: l’Europa deve destarsi dal Grande Sonno e deve farlo perché il nuovo inquilino della Casa Bianca non ci considera alleati ma sostanzialmente concorrenti. E, come tali, verremo trattati nei prossimi quattro anni, a cominciare dai dazi che intende applicare a stretto giro fino alle politiche energetiche che tengono in ostaggio l’Unione europea e, di conseguenza, le nostre industrie. Dal Gnl al petrolio, sulla base delle prevedibili connessioni commerciali con la Russia dell’amico Putin, che fine farà l’Europa? Bella domanda, che resta per il momento senza risposta ma che non può trovare Bruxelles ancora intorpidita dal sonno e dalle audizioni con il commissario sulla pesca. Tanto per capirsi, il dollaro vola, gli indici Dow Jones e Nasdaq viaggiano in positivo: sono le conseguenze dell’effetto Trump.

Sul tema climatico pare poi non ci sia possibilità di mediazione, The Donald è un negazionista per interesse di patria: ha già anticipato la ri-uscita dagli accordi di Parigi del 2015 e guarda alla prossima Cop29 come una inutile kermesse ideologica. Il paradosso è che il suo principale sponsor elettorale, Musk, è il paladino/produttore dell’auto elettrica, la Tesla. Tesla che ha come secondo mercato di vendita la Cina e che viene prodotta anche nella gigafactory di Shanghai. Paradossi, sì, e giochi ad incastri, con la fortuna per l’Italia del rapporto speciale tra la premier Giorgia Meloni e il visionario Musk. Metterà una buona parola, Elon?

Transizione ecologica e decarbonizzazione non possono essere terminologie che riguardano solo i 27 paesi membri dell’Unione ma devono essere ‘esportati’ anche al di là dell’Oceano. E a Pechino. E in India. Ma con lungimiranza e buonsenso, senza ideologie. Trump ne riderebbe. O riderà.

Usa, Leonardo favorita con successo Trump. Enel e Stellantis in pole se vince Harris

Domani mattina conosceremo chi guiderà gli Stati Uniti per i prossimi 4 anni. E secondo gli analisti, se vincerà Kamala Harris o Donald Trump le presidenziali americane, cambieranno le prospettive economiche delle aziende italiane, nonché delle materie prime agricole e ovviamente dell’euro.


Un successo di Trump potrebbe portare vantaggi a certe aziende italiane, in particolare quelle attive nel settore della difesa. Secondo Filippo Diodovich, senior market strategist di IG Italia, Donald ha storicamente promosso un forte incremento della spesa militare, anche durante il suo mandato (2017-2021). In caso di sua vittoria, ci si aspetta che intensifichi la pressione sui paesi europei per rispettare gli impegni finanziari verso la Nato, portando addirittura a un possibile aumento delle spese militari, dal 2% al 3% del Pil. Le tensioni geopolitiche, come la guerra in Ucraina, le crisi in Medio Oriente e le relazioni con la Cina, potrebbero giustificare questa spinta. In questo scenario, dunque, la Leonardo potrebbe beneficiare di un aumento degli investimenti nel comparto. Tuttavia, Diodovich avverte che politiche protezionistiche come i dazi, promosse da Trump, potrebbero avere effetti negativi su altri settori italiani, come il lusso e l’agroalimentare, che hanno una forte esposizione al mercato statunitense.


Una vittoria di Kamala Harris, vicepresidente uscente, favorirebbe – secondo lo strategist di Ig Italia – invece aziende italiane nei settori delle energie rinnovabili e dell’automotive elettrico. Harris ha espresso un forte impegno verso le politiche green e la transizione energetica, e se fosse eletta, le aziende italiane come Enel, Erg, e A2a potrebbero beneficiare di un potenziamento degli investimenti e delle collaborazioni nell’ambito delle energie rinnovabili negli Stati Uniti. Nel settore automobilistico, con il crescente focus sulla sostenibilità e la riduzione delle emissioni, le politiche di Harris potrebbero incentivare l’adozione di veicoli elettrici, dando una spinta a tutto il comparto. In particolare, aziende italiane come Ferrari e Stellantis, che stanno investendo notevolmente nell’elettrificazione dei propri veicoli, potrebbero trarre vantaggio da un mercato statunitense più favorevole alla mobilità sostenibile.


Anche i mercati finanziari potrebbero risentire delle elezioni presidenziali. Per Diodovich, una vittoria di Trump potrebbe far aumentare le pressioni inflazionistiche, portando la Fed a un atteggiamento più “hawkish” (più orientato all’aumento dei tassi d’interesse), con un conseguente rialzo dei rendimenti dei Treasuries e una discesa dei prezzi dei titoli di stato. I Btp italiani, quindi, potrebbero essere influenzati negativamente, con un aumento dei rendimenti e una diminuzione dei prezzi. Al contrario, con la vittoria di Kamala Harris, non si prevedono movimenti significativi sui mercati obbligazionari.


Un settore cruciale per gli Stati Uniti e per l’Italia è poi l’agricoltura, soprattutto per quanto riguarda le esportazioni statunitensi di mais, soia e grano. Negli ultimi anni, i prezzi delle materie prime agricole sono scesi drasticamente, e il nuovo presidente dovrà affrontare un contesto di bassi prezzi e redditi agricoli in calo. Sebbene le proiezioni di esportazione per la stagione 2024-2025 siano in aumento, esistono incertezze legate alle politiche protezionistiche, in particolare per quanto riguarda le forniture alla Cina, che è uno dei principali partner commerciali per le esportazioni agricole statunitensi. Trump ha già sostenuto l’introduzione di tariffe più elevate e il Trump Reciprocal Trade Act, che darebbe priorità ai produttori statunitensi. Le fonti di mercato prevedono che un suo ritorno alla Casa Bianca possa comportare il ritorno di dazi e controdazi dalla Cina, con un impatto diretto sul commercio agricolo.


Kamala Harris, invece, pur mantenendo una linea dura contro le “pratiche commerciali sleali” di paesi come la Cina, ha promesso di diversificare i mercati di esportazione degli Stati Uniti. Entrambi i candidati, inoltre, hanno espresso sostegno per i biocarburanti, un settore che potrebbe beneficiare di politiche favorevoli, ma Harris ha dimostrato una visione più orientata alla sostenibilità, proponendo investimenti per promuovere pratiche agricole “climate-smart”.


Le elezioni americane, infine, avranno un impatto anche sull’Europa. Elliot Hentov di State Street Global Advisors sottolinea che una vittoria di Trump potrebbe portare a un apprezzamento del dollaro, mentre la vittoria di Harris potrebbe favorirne un deprezzamento. Se i repubblicani dovessero vincere anche al Congresso, l’effetto sul dollaro potrebbe essere decisivo, con ripercussioni sul commercio e sulla competitività dell’Europa. In particolare, un dollaro forte potrebbe risultare vantaggioso per l’Europa, se i negoziati commerciali con gli Stati Uniti dovessero portare a un accordo.

Con almeno 130 morti, l’uragano Hélène entra nella campagna elettorale Usa

Con un bilancio provvisorio di 130 morti e la devastazione del sud-est degli Stati Uniti, l’uragano Hélène è entrato nella campagna presidenziale, con Donald Trump che ha attaccato la gestione del disastro da parte dell’amministrazione Biden. L’entità dei danni causati dall’uragano, che ha colpito la Florida giovedì sera prima di attraversare altri Stati, rimane difficile da stabilire. Diverse aree rimangono inaccessibili e prive di rete telefonica ed elettrica. Centinaia di persone risultano ancora disperse in seguito al maltempo, seguito da inondazioni improvvise. La Georgia e la Carolina del Nord, due Stati particolarmente colpiti da questa catastrofe naturale, sono tra i sette Stati cardine che potrebbero influenzare le elezioni presidenziali del 5 novembre.

Donald Trump ha visitato lunedì Valdosta, una comunità colpita dal disastro in Georgia. Il candidato repubblicano alle elezioni presidenziali di novembre si è impegnato a “portare molte forniture di soccorso, tra cui carburante, attrezzature e acqua” a chi ne ha bisogno. Ha annunciato di aver chiesto a Elon Musk, il capo di SpaceX a cui è molto legato, di distribuire il suo servizio internet satellitare Starlink nella regione. “Lo Stato federale non è reattivo”, ha sbottato l’ex presidente, che in precedenza aveva accusato il governo e le autorità democratiche della Carolina del Nord di “non aiutare deliberatamente le persone nelle aree repubblicane”. “Sta mentendo”, ha replicato un virulento Joe Biden. “Quello che mi fa arrabbiare è che insinua che non stiamo facendo tutto il possibile. Non è vero ed è irresponsabile”.

Il presidente uscente Joe Biden ha messo da parte le critiche dei repubblicani sulla sua gestione della crisi. “Ho passato almeno due ore al telefono ieri, come il giorno prima”, ha replicato, assicurando che le autorità federali sarebbero state “presenti per tutto il tempo necessario“. Il democratico ha anche annunciato che mercoledì si recherà in North Carolina. In precedenza aveva indicato che non avrebbe viaggiato fino a quando questo avrebbe potuto disturbare le operazioni di soccorso.

Indossando il suo solito berretto rosso, Donald Trump ha anche preso di mira direttamente la sua rivale democratica Kamala Harris, criticandola per essere “fuori città, in campagna elettorale”, prima di affermare lui stesso che non era il momento “di parlare di politica”. Tuttavia, la vicepresidente ha cancellato gli eventi della campagna elettorale per tenere un incontro sul disastro lunedì e ha annunciato che si sarebbe recata sul posto a breve.

Negli Stati colpiti, i soccorritori continuano a lavorare duramente per cercare di trovare i sopravvissuti e portare cibo alle persone colpite dal disastro, alcune delle quali sono state tagliate fuori dal resto del mondo. Nei monti Appalachi meridionali, Hélène ha causato inondazioni improvvise, con danni impressionanti. Le immagini di Asheville, nella Carolina del Nord, mostrano quartieri cancellati dalla mappa e strade distrutte dal fiume in piena. Non essendo possibile accedere alle strade, le autorità stanno inviando aiuti, acqua e cibo per via aerea. Almeno 130 persone hanno perso la vita, di cui 57 in North Carolina, 29 in South Carolina, 25 in Georgia e 14 in Florida, secondo un rapporto compilato dall’AFP sulla base delle dichiarazioni delle autorità locali.

Per Joe Biden, “non c’è dubbio” che questa devastazione sia dovuta al cambiamento climatico che, riscaldando le acque del mare, rende più probabile una rapida intensificazione delle tempeste e aumenta il rischio di uragani più potenti, secondo gli scienziati. Lunedì sera, più di 1,6 milioni di case e aziende erano ancora senza elettricità, secondo il sito web dedicato ai blackout. “Questa è una tempesta senza precedenti”, ha dichiarato il governatore democratico della Carolina del Nord, Ray Cooper, descrivendo il “tributo emotivo e materiale indescrivibile”. Ha smentito le accuse di Donald Trump secondo cui le vittime repubblicane sarebbero state trascurate: “Se avete bisogno di aiuto, ve lo forniremo”, ha assicurato. “Se mai c’è stato un momento per unirsi e mettere da parte la politica, è questo”.