Meloni: L’Europa di Ventotene non è la mia. E’ bufera alla Camera

Non so se questa è la vostra Europa ma certamente non è la mia”. Alla fine del suo intervento alla Camera, in una mattinata piuttosto tesa, Giorgia Meloni legge alcuni passaggi del manifesto di Ventotene, ne prende le distanze e nell’Aula si scatena l’inferno. Le opposizioni fischiano, urlano “vergogna”, i banchi diventano ring, a destra si applaude, a sinistra si grida. La seduta viene sospesa due volte.

Le frasi del testo scritto nel 1941 da Altiero Spinelli e Ernesto Rossi richiamano a una rivoluzione europea “socialista“, in cui “la proprietà privata deve essere abolita, limitata, corretta, estesa caso per caso”. Ogni frase scandita tra sguardi e pause. “Nelle epoche rivoluzionarie, in cui le istituzioni non debbono già essere amministrate, ma create, la prassi democratica fallisce clamorosamente – prosegue la premier leggendo il testo -. Nel momento in cui occorre la massima decisione e audacia, i democratici si sentono smarriti, non avendo dietro di sé uno spontaneo consenso popolare, ma solo un torbido tumultuare di passioni”. Tra gli scranni risuona l’ira delle opposizioni, Meloni si interrompe, il presidente della Camera Lorenzo Fontana richiama all’ordine, tutto viene spostato di qualche ora, al primo pomeriggio, per rimettere in ordine le idee e il bon ton istituzionale.

E comunque, prima della bufera, in sede di replica, la premier accarezza già l’argomento dell’Europa, che deve occuparsi di “meno cose” e “meglio”. Meloni si prepara al Consiglio europeo di domani bollando come un errore la “pretesa” di affidare a Bruxelles “qualsiasi materia di riferimento”, comprese quelle sulle quali gli stati nazionali sarebbero un valore aggiunto. La prima ministra cerca una via d’uscita per rispondere ai dazi di Donald Trump senza apparire debole o suddita di certe dinamiche.

Ma se, a cascata, l’ombrello della difesa degli Stati Uniti dovesse chiudersi definitivamente per il Vecchio Continente, non ci troverebbe ancora pronti. Per questo, l’invito è quello di riflettere su una risposta che non danneggi noi, prima che gli americani. “Non c’è dubbio che per noi siano un problema”, ribadisce. L’Italia è una nazione esportatrice, la quarta al mondo. Al momento, c’è un surplus commerciale nei confronti degli Stati Uniti nei beni e gli Stati Uniti hanno nei nostri confronti un surplus commerciale nei servizi. Potrebbe essere una carta da giocare per cercare una soluzione che eviti una guerra commerciale.

Sulla difesa, il punto è capire come pagare gli 800 miliardi per il Piano proposto da Ursula von der Leyen. L’Italia ha chiesto e ottenuto lo scorporo delle spese della difesa dal calcolo del patto di stabilità. Ma Meloni va oltre e domanda l’intervento dei privati. “Non possiamo non porre il problema che l’intero piano si basa quasi completamente sul debito nazionale degli Stati”, chiosa in Aula. E’ la ragione per la quale con il ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti sta elaborando una proposta che ricalca quello che accade attualmente con InvestEU: “garanzie europee per gli investimenti privati”.

I fondi di Coesione, in Italia, non saranno toccati, garantisce. Resta da chiarire cosa si intenda per spese di difesa. Per questo il governo ha posto la questione: “Io penso che Rearm Europe confonda i cittadini”, sottolinea. La maggioranza sull’investimento nelle armi è spaccata. Oggi da Bruxelles lo stesso Matteo Salvini lancia un avvertimento chiaro alla premier: “Giorgia Meloni ha mandato per difendere l’interesse nazionale italiano, punto. Non penso che quello di cui sta parlando qualcuno a Bruxelles corrisponda all’interesse nazionale italiano, e neanche all’interesse dei cittadini europei”, mette in chiaro. Ma la presidente del Consiglio allarga il perimetro del dominio della sicurezza, “molto più ampio del banale acquisto di armi”, spiega. “Nel tempo in cui viviamo – ripete – riguarda le materie prime critiche, riguarda le infrastrutture strategiche, riguarda la cyber sicurezza, riguarda la difesa dei confini, riguarda la lotta ai trafficanti, riguarda la lotta al terrorismo, sono spesso materie che non si fanno, che non si affrontano comprando armi. Quando mi occupo di cyber sicurezza non lo faccio con le armi, lo faccio per esempio con l’intelligenza artificiale”.

Ucraina, telefonata Trump-Putin: Stop ai raid sulle infrastrutture per 30 giorni

Una prima tregua limitata alle infrastrutture energetiche in Ucraina, di soli 30 giorni. E’ il punto centrale dell’attesissima conversazione telefonica tra Donald Trump e Vladimir Putin, che si è conclusa senza una svolta decisiva verso un autentico accordo di cessate il fuoco tra Mosca e Kiev. Una telefonata iniziata intorno alle 16 italiane e durata circa tre ore, in cui il presidente americano e il suo omologo russo hanno concordato di avviare “immediatamente” i negoziati, che si svolgeranno in Medio Oriente, su una possibile pausa graduale della guerra innescata nel febbraio 2022 dall’invasione russa. Come fanno sapere sia il Cremlino sia la Casa Bianca, la conversazione è stata “dettagliata e schietta”. Trump ha elogiato “l’immenso vantaggio” di una “migliore relazione bilaterale” tra Stati Uniti e Russia, con il potenziale per “enormi accordi economici”. “La mia conversazione telefonica di oggi con il Presidente russo Putin è stata molto buona e produttiva. Abbiamo concordato un immediato cessate il fuoco su tutte le centrali energetiche e le infrastrutture, con l’intesa che lavoreremo rapidamente per avere un cessate il fuoco completo e, in definitiva, la fine di questa orribile guerra tra Russia e Ucraina“, ha scritto  Trump sul suo social Truth. “Questa guerra non sarebbe mai iniziata se fossi stato il Presidente! Sono stati discussi molti elementi di un accordo per la pace, incluso il fatto che migliaia di soldati vengono uccisi, e sia il Presidente Putin sia il Presidente Zelensky vorrebbero vederla finire”. “Quel processo – ha continuato – è ora in pieno vigore ed effetto e, si spera, per il bene dell’umanità, porteremo a termine il lavoro” 

Secondo quanto diffuso dal Cremlino, il presidente russo ha affermato di essere pronto a collaborare con i suoi partner americani per “un esame approfondito dei possibili modi per raggiungere un accordo, che dovrebbe essere globale, stabile e duraturo”. Di fatto Putin ha accettato di sospendere gli attacchi alle infrastrutture energetiche dell’Ucraina per 30 giorni. E anzi,  ne ha ordinato “immediatamente” l’attuazione. Infatti, il leader russo “ha reagito positivamente” all’iniziativa del presidente degli Stati Uniti e “ha immediatamente impartito un ordine corrispondente all’esercito russo”. Di contro, ha dettato le sue condizioni, “riguardanti il ​​controllo efficace di un possibile cessate il fuoco lungo l’intera linea di contatto, la necessità di porre fine alla mobilitazione forzata in Ucraina e il riarmo delle forze armate ucraine”. Inoltre, Putin ha chiesto a Trump di “sospendere completamente” gli aiuti militari occidentali e la condivisione di informazioni di intelligence con l’Ucraina, quali condizioni “fondamentali” per impedire un’escalation del conflitto e “lavorare” così “alla sua risoluzione attraverso mezzi politici e diplomatici”. Da domani, poi,  Russia e Ucraina si scambieranno 175 prigionieri di guerra ciascuno.

Secondo la Casa Bianca, oltre alla sospensione degli attacchi al settore energetico ucraino, sono previsti “negoziati tecnici sull’istituzione di un cessate il fuoco marittimo nel Mar Nero, un cessate il fuoco globale e una pace duratura”. Da quando è tornato al potere il 20 gennaio, Trump ha avviato uno spettacolare riavvicinamento con la Russia, mentre il suo predecessore democratico Joe Biden aveva tagliato i ponti e si era concentrato sull’assistenza all’Ucraina. Nei resoconti pubblicati dalle due capitali non si fa menzione di alcuna possibile ripartizione territoriale, dopo che il presidente americano si era detto pronto a parlare di “spartizione” tra Ucraina e Russia, cosa che aveva preoccupato Kiev.

A Kiev, infatti, come a Parigi e Berlino, si teme che il presidente americano, che affronta i negoziati diplomatici come se fossero contrattazioni commerciali, conceda troppa clemenza alla controparte russa, percepita come una minaccia su scala continentale. Domani il presidente ucraino Volodymyr Zelensky si recherà a Helsinki per colloqui sul “sostegno della Finlandia all’Ucraina e sulle misure per porre fine alla guerra di aggressione della Russia”. L’Ucraina, sotto la pressione di Washington, ha accettato l’idea di un cessate il fuoco incondizionato di 30 giorni.

Meloni cambia cliché: meno passionaria e più ‘istituzionale’ per mettere insieme Ue e Trump

Nel suo passaggio al Senato dopo due mesi e rotti di silenzio, in attesa di presentarsi alla Camera, Giorgia Meloni ha in qualche modo cambiato il suo cliché. Non ha usato toni perentori, non ha quasi mai alzato la voce, è stata molto dialogante, si è prodigata per far capire “ai colleghi” che sbarcherà a Bruxelles per trovare un punto di caduta che non trasformi gli Stati Uniti in nemici e non riduca l’Europa a una comparsa. Il feeling con Trump e i buoni rapporti con von der Leyen, lei nel mezzo la ‘semplificatrice’ di una situazione complessa e delicassima.

Insomma, una premier assolutamente ‘istituzionale’, che non ha parlato solo di Ucraina (Non è immaginabile costruire garanzie di sicurezza efficaci e durature dividendo l’Europa e gli Usa. E’ giusto che l’Europa si attrezzi per svolgere la propria parte, ma è folle pensare che oggi possa fare da sola senza la Nato”) e di Difesa (L’Italia non intende distogliere un solo euro dal fondo di Coesione, spero che almeno su questo saremo tutti d’accordo) ma ha cominciato dalla competitività (“Non è una parola astratta”) per lanciarsi sulla desertificazione industriale, per planare successivamente sulla decarbonizzazione (che deve essere sostenibile per imprese e cittadini), per sfiorare il costo fuori controllo dell’energia elettrica fino ad atterrare sui dazi (ai quali non bisogna rispondere con altri dazi, serve reciproco rispetto) e sull’Europa che a rischio di regole e regolamenti rischia di non farcela. Argomenti prevedibili, così come i contenuti.

Meloni ha espresso le posizioni del suo governo mentre Ursula von der Leyen raccontava in Danimarca come la sua Ue debba attrezzarsi per non finire schiacciata stile sandwich da Stati Uniti e Russia e poco dopo che Mario Draghi, sempre in Senato, aveva toccato gli stessi temi con l’autorevolezza che lo accompagnala. In sintesi, l’ex presidente del Consiglio ha detto che la Difesa comune è un passaggio obbligato, che gli 800 miliardi previsti per riarmare l’Europa non basteranno, che il Rapporto sulla competitività non è obsoleto e va attuato con urgenza, che la questione energetica è prioritaria, dal disaccoppiamento di gas fino al costo delle bollette. In fondo, si finisce per andare sbattere sempre lì e da lì bisogna trovare la migliore via d’uscita.

La premier non ha cercato una sponda in Senato, questo no, ma è stata abbastanza accondiscendente quando ha sostenuto che l’etichetta di Rearm al piano di von der Leyen è inaccettabile e dunque va cambiata perché è necessaria la Difesa comune ma “senza tagliare sanità e sociale”. Un refrain già sentito su un’altra sponda.

Trump cancella Biden: adesso negli Stati Uniti inquinare si può

Mercoledì il governo del presidente Donald Trump ha annunciato la revoca di una serie di misure ambientali adottate dall’amministrazione democratica di Joe Biden, che miravano in particolare a ridurre le emissioni delle automobili e delle centrali a carbone.

Il capo dell’Agenzia statunitense per la protezione dell’ambiente (Epa), Lee Zeldin, ha parlato del “giorno di deregolamentazione più importante e più significativo nella storia degli Stati Uniti”, promettendo di “liberare l’energia americana” e di “rivitalizzare l’industria automobilistica” del suo Paese.
Tra le circa trenta misure annunciate, il governo americano intende in particolare annullare una norma del 2024 che imponeva alle centrali a carbone di eliminare quasi tutte le loro emissioni di CO2, pena la chiusura, grazie alle tecnologie di cattura del carbonio, una pietra miliare della politica climatica di Joe Biden.

Salutata dalle organizzazioni ambientaliste come “una decisione colossale”, questa regola – che riguardava anche le centrali a gas da costruire in futuro – doveva essere applicata a partire dal 2032. Il governo precedente riteneva che avrebbe permesso di evitare l’emissione di quasi 1,4 miliardi di tonnellate di CO2 entro il 2047, l’equivalente delle emissioni annuali di 328 milioni di automobili.

Le aziende inquinanti sono ora felici perché l’Epa di Trump ha appena autorizzato loro a emettere inquinamento climatico illimitato, senza preoccuparsi delle conseguenze”, ha reagito Charles Harper, dell’associazione ambientalista Evergreen. Donald Trump, noto scettico del clima, definisce regolarmente ‘una truffa’ la transizione energetica. Il suo governo ha licenziato centinaia di dipendenti dell’Agenzia americana per l’osservazione degli oceani e dell’atmosfera (Noaa), che svolge un ruolo di primo piano nella ricerca sul clima negli Stati Uniti. Sono attesi anche licenziamenti di massa all’Epa, il cui budget dovrebbe essere ridotto del 65%.

Mercoledì l’agenzia ha dichiarato la sua volontà di rivedere gli standard relativi alle emissioni inquinanti delle automobili che dovevano entrare in vigore nel 2027 e che Donald Trump aveva criticato. Intende inoltre ridefinire il perimetro del Clean Water Act, che vieta di scaricare inquinanti nei “corpi idrici navigabili degli Stati Uniti”, pena una multa.
L’agenzia ritiene che l’amministrazione di Joe Biden non abbia tenuto conto di una decisione del 2023 della Corte Suprema, secondo la quale solo le “masse d’acqua relativamente permanenti, stagnanti o a flusso continuo”, come torrenti, fiumi, laghi e oceani, dovevano essere protette da questa legge.

L’associazione ambientalista Earthjustice ha avvertito che ciò esclude milioni di ettari di zone umide, ecosistemi vitali che filtrano l’acqua e forniscono protezione contro le inondazioni, nonché milioni di chilometri di piccoli corsi d’acqua che forniscono, tra le altre cose, acqua potabile. Lee Zeldin ha anche confermato la decisione di chiudere i servizi responsabili delle missioni di giustizia ambientale all’interno dell’agenzia, ponendo fine a decenni di sforzi federali per combattere l’inquinamento che colpisce le popolazioni svantaggiate negli Stati Uniti. “Il presidente Trump vuole che contribuiamo a inaugurare un’età dell’oro in America per tutti gli americani, indipendentemente dalla razza, dal sesso e dall’origine”, ha dichiarato Zeldin ai giornalisti.
Per Matthew Tejada, dell’ONG Natural Resources Defense Council, “l’Epa di Trump ci riporta a un’epoca di inquinamento senza restrizioni nel paese, esponendo ogni americano a sostanze chimiche tossiche, aria sporca e acqua contaminata”.

L’Ue risponde agli Usa: dazi sui prodotti per 26 miliardi. Trump: “Vinceremo noi”

Bruxelles risponde di primo mattino a Washington. Nel giorno di entrata in vigore dei dazi Usa del 25% su acciaio e alluminio, la presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, annuncia “misure pesanti ma proporzionate”. Da oggi rientrano non solo in vigore le tariffe imposte dalla prima amministrazione Trump nel 2018, su diversi tipi di prodotti semilavorati e finiti, come tubi in acciaio, filo metallico e fogli di stagno, ma anche su altri prodotti derivati come articoli per la casa, pentole o infissi e diversi macchinari, alcuni elettrodomestici o mobili. Interesseranno un totale di 26 miliardi di euro delle esportazioni europee, circa il 5% del totale dell’export Ue negli Usa.

La Commissione Ue, intanto, calcola che gli importatori americani pagheranno fino a 6 miliardi di euro la mossa di Trump. E per fonti Ue, i dazi Usa “non sono intelligenti” perché “danneggeranno davvero la loro economia”.

Due gli elementi di risposta, duque: la reimposizione delle misure di riequilibrio del 2018 e del 2020 – che erano state sospese fino al 31 marzo prossimo e che ora rientreranno automaticamente in vigore dal primo aprile – e un nuovo pacchetto di misure aggiuntive che colpiranno circa 18 miliardi di euro di beni e che saranno poi applicate con le misure reimposte dal 2018. Per il ministro delle Imprese e del Made in Italy, Adolfo Urso, però, “non basta difendersi sul piano commerciale, occorre una nuova politica industriale che restituisca competitività alle nostre imprese. Occorre agire, non solo reagire”. Per definire i prodotti del nuovo pacchetto, la Commissione ha avviato oggi le consultazioni di due settimane con le parti interessate dell’Ue.

Si mira a beni industriali e agricoli: da quelli in acciaio e alluminio ai tessili, dalla pelletteria agli elettrodomestici, dagli utensili per la casa alle materie plastiche e i prodotti in legno; dal pollame al manzo, da alcuni frutti di mare alle noci, dalle uova ai latticini, dallo zucchero alle verdure. Come spiegato da fonti Ue, la Commissione sta “cercando di colpire gli Stati Uniti in settori importanti per loro – ma che non costeranno tanto all’Ue” – e in particolare i beni rilevanti per gli Stati a maggioranza repubblicana. I Paesi Ue saranno invitati, poi, ad approvare le misure proposte prima della loro adozione e partenza previste per metà aprile. Ma se Bruxelles, da un lato, restituisce il favore all’alleato d’oltreoceano, allo stesso tempo prova a tenere aperto il dialogo. Precisa che “le misure possono essere revocate in ogni momento qualora si trovi una soluzione” e von der Leyen conferma al commissario europeo per il Commercio, Maros Sefcovic, l’incarico di “riprendere i colloqui” e aggiunge: “Rimarremo sempre aperti al negoziato”. Stesso messaggio del presidente del Consiglio europeo, Antonio Costa, secondo cui si deve “evitare un’escalation” e la situazione richiede “dialogo e negoziazione“. Non la pensa allo stesso modo Washington, secondo cui l’Ue è “fuori contatto con la realtà” e le sue “azioni punitive non tengono conto degli imperativi di sicurezza nazionale degli Stati Uniti e internazionale”. Non solo. In un incontro con il premier irlandese, Micheal Martin, Donald Trump dichiara: “Vinceremo noi questa battaglia finanziaria”. Lo scorso 10 febbraio, Washington aveva annunciato l’aumento dei dazi sulle importazioni di acciaio, alluminio e prodotti derivati dall’Ue. Da quel giorno, è partito il dialogo tra le due parti che ha visto anche Sefcovic volare negli Usa per provare a “evitare il dolore inutile” della guerra commerciale. Ma, proprio lunedì scorso, Sefcovic aveva annunciato che l’amministrazione Usa “non sembra impegnata a trovare un accordo” con l’Ue.

Il centrodestra vince le elezioni in Groenlandia. Volano i nazionalisti

L’opposizione di centrodestra ha vinto le elezioni legislative in Groenlandia, segnando una forte spinta dei nazionalisti che chiedono la rapida indipendenza dell’isola artica, ambita da Donald Trump. Secondo gli ultimi risultati ufficiali pubblicati mercoledì, il partito Democratici, formazione autoproclamata “social-liberale” favorevole all’indipendenza a termine, ha ottenuto il 29,9% dei voti, più del triplo del risultato ottenuto nelle precedenti elezioni del 2021.

I nazionalisti di Naleraq, la forza più attivamente impegnata a far sì che il territorio autonomo danese interrompa i legami rimanenti con Copenaghen, si sono piazzati al secondo posto con il 24,5% dei voti. La coalizione uscente composta da Inuit Ataqatigiit (IA, sinistra ecologista) e dai socialdemocratici di Siumut è stata ampiamente punita dagli elettori che si sono recati alle urne in massa. IA ha perso 15,3 punti e Siumut 14,7 rispetto a quattro anni fa.

Mai prima d’ora le elezioni in Groenlandia avevano avuto un tale impatto internazionale, conseguenza delle mire del presidente americano che vuole mettere le mani sul territorio agitando alternativamente la carota e il bastone. Convinto di poter conquistare “in un modo o nell’altro” la Groenlandia, Trump ha cercato fino all’ultimo minuto di influenzare le elezioni. L’affluenza è stata altissima e ha superato il 70%.

“Rispettiamo il risultato delle elezioni”, ha risposto su KNR il primo ministro uscente, Mute Egede, capo di IA. Poiché nessuna delle parti è in grado di ottenere la maggioranza dei 31 seggi in Parlamento, saranno ora necessari dei negoziati per formare un’alleanza. Quest’ultima dovrà in particolare delineare le modalità e un calendario che porti all’indipendenza, come desidera la stragrande maggioranza dei 57.000 abitanti. “Democratici è aperto alla discussione con tutti i partiti e alla ricerca dell’unità, soprattutto con ciò che sta accadendo all’estero”, ha dichiarato il suo giovane leader di 33 anni, Jens-Frederik Nielsen, ex campione di badminton della Groenlandia.

Con quasi il 90% di inuit, i groenlandesi si lamentano di essere stati storicamente trattati come cittadini di seconda classe dall’ex potenza coloniale, accusata di aver soffocato la loro cultura, di aver effettuato sterilizzazioni forzate e di aver sottratto i bambini alle loro famiglie. I principali partiti groenlandesi desiderano tutti l’indipendenza, ma divergono sulla tabella di marcia. Naleraq la vuole molto rapidamente. “Possiamo farlo nello stesso modo in cui abbiamo lasciato l’Unione Europea (nel 1985, ndr). Ci sono voluti tre anni. La Brexit è durata tre anni. Perché impiegare più tempo?”, ha dichiarato il capo del partito, Pele Broberg, all’AFP.

Ricoperto per l’80% di ghiaccio, il territorio dipende economicamente dalla pesca, che rappresenta la quasi totalità delle sue esportazioni, e dagli aiuti annuali di circa 530 milioni di euro versati da Copenaghen, pari al 20% del prodotto interno lordo locale. Secondo Naleraq, la Groenlandia potrebbe volare con le proprie ali grazie alle sue risorse minerarie, ma il settore minerario rimane per ora in fase embrionale, ostacolato dagli elevati costi di esercizio.

Dopo aver già lanciato l’idea di prendersi la Groenlandia durante il suo primo mandato, ricevendo un rifiuto dalle autorità danesi e groenlandesi, Donald Trump ribadisce la sua volontà di mettere le mani – senza escludere la forza – sul territorio ritenuto importante per la sicurezza americana. Secondo un sondaggio pubblicato a gennaio, circa l’85% dei groenlandesi esclude questa possibilità. Ma Naleraq vede nell’interesse americano per l’isola una leva nelle future trattative con la Danimarca.

Musk e Tesla nel mirino degli anti-Trump. E il presidente ne acquista una

Musk chiama? Trump risponde. Tesla a picco? Il presidente Usa si mette al volante. Poco dopo il forte calo del prezzo delle azioni della casa automobilistica fondata dal suo più stretto consigliere e mentre gli oppositori del governo repubblicano lanciano appelli al boicottaggio, il repubblicano ha invitato i suoi sostenitori a un’azione di “soccorso” .“Domani mattina comprerò una Tesla nuova di zecca in segno di fiducia e sostegno a Elon Musk”, ha annunciato Trump. “Ai repubblicani, ai conservatori e a tutti i grandi americani, Elon Musk si mette in prima linea per aiutare la nostra nazione, e sta facendo un lavoro fantastico”, ha scritto sul suo account Truth Social. “Grazie presidente”, gli ha risposto il miliardario su X.

Consigliere di Trump, Musk è un elemento essenziale dell’amministrazione Usa e guida in particolare il lavoro della Commissione incaricata di ridurre drasticamente le spese del governo federale (il Doge). “I pazzi della sinistra radicale, come spesso fanno, stanno cercando di boicottare illegalmente Tesla, uno dei più grandi produttori di automobili al mondo e il ‘bambino’ di Elon, per attaccarlo e danneggiarlo per tutto ciò che rappresenta”, ha accusato Trump. Il miliardario, che è anche proprietario del social network X, è diventato un capro espiatorio per gli oppositori di Trump, che lo accusano, tra le altre cose, di aver fatto il saluto nazista, di aver oltrepassato i suoi doveri di consigliere e di mettere a rischio il funzionamento delle attività pubbliche federali.

Il sostegno da parte di Trump arriva in un momento difficile per il costruttore. Lunedì, le azioni del pioniere dei veicoli elettrici sono calate di oltre il 15% alla Borsa di New York, a causa del crollo delle vendite e di un netto calo del settore tecnologico a Wall Street. Il suo valore di mercato è stato dimezzato da dicembre.
Le prese di posizione di Elon Musk hanno raffreddato alcuni acquirenti, anche se è ancora difficile valutare quanto il miliardario e il suo sostegno all’estrema destra europea possano aver spaventato potenziali clienti di Tesla. Nelle ultime settimane, invece, sono stati lanciati appelli al boicottaggio.

“Tesla è in caduta libera. I suoi prodotti sono attaccati. I suoi clienti sono derisi”, ha reagito su X l’influencer tecnologico e scrittore Robert Scoble. “Ho visto diversi adesivi per paraurti nella Silicon Valley” contro Musk. “Anch’io continuo a subire le critiche della mia famiglia e dei miei amici perché sono pro-Elon. Mi aspetto che la situazione peggiori per gli investitori e i fan di Tesla”.

Martedì, la casa automobilistica sudcoreana Kia ha dichiarato di non aver approvato una campagna pubblicitaria ostile a Elon Musk, trasmessa in Norvegia, che mostrava un’auto Kia con un adesivo che diceva “L’ho comprata dopo che Elon è impazzito”. Su diverse piattaforme anarchiche francofone circolano appelli a prendere di mira le Tesla e persone che si dichiarano appartenenti a un collettivo anarchico ne hanno bruciato una dozzina all’inizio di marzo a Tolosa. Negli Stati Uniti, le autorità stanno indagando sulle cause dell’incendio di quattro veicoli Tesla a Seattle (Ovest) domenica sera, come riporta il New York Times, ricordando che diverse stazioni di ricarica erano state precedentemente incendiate vicino a Boston. Inoltre, sempre lunedì, Elon Musk ha dichiarato che X ha subito un “massiccio attacco informatico”, dopo ore di problemi di accesso alla piattaforma segnalati da migliaia di utenti.

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La politica energetica di Trump sotto i riflettori della conferenza di Houston

Diversi membri del governo di Trump sono attesi questa settimana a Houston, in Texas, per precisare gli orientamenti del nuovo presidente americano in materia di energia, in particolare il suo impatto sulle energie rinnovabili.

Appena entrato in carica, il 20 gennaio, Donald Trump ha firmato un decreto intitolato ‘Unleashing American Energy’ (Liberare l’energia americana), destinato a segnare il suo secondo mandato.
Il programma prevede deregolamentazione e liberalizzazione, con misure favorevoli all’estrazione di energie fossili e altre volte a limitare o annullare i vincoli ambientali, nonché sussidi e incentivi fiscali per la transizione energetica.

Di conseguenza, l’Agenzia per la protezione dell’ambiente (EPA) statunitense ha tentato di costringere la California, un modello in materia di transizione energetica, a revocare il divieto di circolazione dei veicoli a combustione interna entro il 2035. L’iniziativa è stata tuttavia bloccata giovedì dal Government Accountability Office, un osservatorio indipendente che monitora il Congresso americano.

Tre funzionari del governo Trump hanno annunciato la loro partecipazione alla conferenza CERAWeek, il più importante raduno mondiale in materia di energia, che si aprire oggi. Il ministro dell’Energia, Chris Wright, interverrà in apertura. Fondatore della società Liberty Energy, che fornisce attrezzature all’industria del gas e del petrolio di scisto, questo imprenditore è noto per il suo sostegno all’estrazione di energie fossili. Durante la sua audizione di conferma al Senato, si è detto favorevole alla crescita dell’offerta energetica americana, anche per quanto riguarda le energie fossili.
Chris Wright sarà seguito, nel corso della settimana, dal ministro dell’Interno Doug Burgum, responsabile della gestione dei terreni federali, alcuni dei quali sono affittati a privati del settore energetico. Un altro ospite, Lee Zeldin, avvocato scettico sul clima a capo dell’EPA. Questi tre emissari potrebbero chiarire la struttura della politica energetica di Donald Trump, in particolare per quanto riguarda le fonti rinnovabili.

Il presidente americano ha già promesso di bloccare qualsiasi nuovo progetto eolico negli Stati Uniti durante il suo mandato e di annullare gli incentivi fiscali per la costruzione di parchi eolici, anche se questi dipendono dal Congresso e non dall’esecutivo.
Regna l’incertezza sulla propensione del governo a cambiare la traiettoria energetica degli Stati Uniti, fermamente impegnati nella transizione verso fonti a basse emissioni di carbonio sotto la guida di Joe Biden. Questo contesto dovrebbe “rendere il 2025 un anno bianco, durante il quale ci saranno esitazioni nel portare avanti qualsiasi progetto di decarbonizzazione”, ritiene Dan Pickering, dello studio Pickering Energy Partners.

Per quanto riguarda i combustibili fossili, al momento nulla indica che il segnale inviato da Donald Trump abbia avuto un effetto sulla produzione di petrolio, che era già a livelli record prima dell’investitura del miliardario repubblicano. Il settore del gas, invece, si è animato, con l’annuncio, venerdì, dell’ampliamento del terminale GNL (gas naturale liquefatto) di Plaquemines, a sud di New Orleans, da parte dell’operatore Venture Global, che investirà altri 18 miliardi di dollari.

Siamo già diventati il primo esportatore mondiale” di gas naturale, ha ricordato giovedì Chris Wright su Bloomberg Television. “E penso che nei prossimi anni le esportazioni aumenteranno di oltre il doppio”. Il decreto presidenziale del 20 gennaio ha revocato il moratorio sull’autorizzazione di nuovi terminali di esportazione decretato un anno prima da Joe Biden, che aveva parlato di ‘minaccia’ climatica.

L‘Europa è di gran lunga il primo mercato di esportazione del GNL americano, che “ha svolto un ruolo importantissimo” nell’aiutare il Vecchio continente a ridurre la sua dipendenza dal gas russo dopo l’invasione dell’Ucraina, ricorda Jonathan Elkind, ricercatore presso il centro di riflessione sulle politiche energetiche mondiali dell’Università di Columbia.
Il grande sconvolgimento diplomatico avviato da Donald Trump in queste ultime settimane, caratterizzato da un riavvicinamento alla Russia e da divergenze con l’Europa sulla questione ucraina, solleva tuttavia interrogativi sull’impegno degli Stati Uniti a rifornire l’Europa di energia. “È difficile dire se Donald Trump sia un partner o un avversario”, osserva Jonathan Elkind. ‘”E questo – ammette – è uno shock dopo 70 anni di stretta alleanza”.

Da Trump ‘guerra commerciale’: Cina, Canada e Messico preparano contromisure a dazi

E’ di fatto una guerra commerciale quella avviata da Donald Trump: Pechino, Ottawa e Messico hanno lanciato misure di ritorsione contro i dazi doganali punitivi imposti da Washington, descritti come una decisione “stupida” dal premier canadese Justin Trudeau. I nuovi dazi del governo degli Stati Uniti stanno facendo aumentare notevolmente i prezzi dei beni che attraversano il confine, dagli avocado alle magliette alle automobili. Le importazioni dal Canada e dal Messico sono ora tassate al 25% mentre salgono al 10% gli idrocarburi canadesi. I prodotti cinesi saranno colpiti da dazi doganali aggiuntivi del 20% rispetto alla tassazione in vigore prima del ritorno di Trump alla Casa Bianca.

Il Canada ha risposto “immediatamente” applicando tariffe mirate del 25% su alcuni prodotti americani, la cui portata verrà ampliata nel corso del mese, ha spiegato Trudeau ricordando che la misura americana avrebbe danneggiato entrambe le economie e in particolare i portafogli degli americani. “L’obiettivo di Trump è quello di far crollare l’economia canadese” e poi “parlare di annettere” il Paese, ha aggiunto Trudeau. Dal social Truth gli ha risposto Trump:  “Per favore spiegate al governatore Trudeau che se decide dazi di ritorsione contro gli Stati Uniti, le nostre tariffe reciproche aumenteranno immediatamente dello stesso ammontare”.

Risposte arrivano anche da Pechino che ha annunciato tariffe del 10 e del 15 percento su una serie di prodotti agricoli provenienti dagli Stati Uniti, che vanno dal pollo alla soia. Questa risposta, tuttavia, resta di poco inferiore all’offensiva americana, che riguarda tutti i prodotti cinesi che entrano negli Stati Uniti. Pechino ha comunque presentato un nuovo reclamo all’Organizzazione mondiale del commercio (Wto) contro gli Stati Uniti. “Le misure fiscali unilaterali degli Stati Uniti violano gravemente le norme del Wto e minano le fondamenta della cooperazione economica e commerciale tra Cina e Stati Uniti”, ha affermato il Ministero del Commercio cinese in una nota, aggiungendo di essere “fortemente insoddisfatto e fermamente contrario” ai dazi. “La Cina, in conformità con le norme del Wto, proteggerà fermamente i suoi legittimi diritti e interessi e sosterrà l’ordine economico e commerciale internazionale”, ha aggiunto la dichiarazione del Ministero del Commercio.

Dal Messico la presidente Claudia Sheinbaum ha promesso ritorsioni “doganali e non doganali” per la decisione di Donald Trump. La leader ha intenzione di chiarirne il contenuto domenica e di parlare prima con il presidente americano, “probabilmente giovedì”.

Donald Trump – che può giustificare l’imposizione di nuovi dazi doganali solo per decreto con un’emergenza legata alla sicurezza nazionale – accusa i tre Paesi di non combattere a sufficienza il traffico di fentanyl, una droga dagli effetti devastanti negli Stati Uniti. Ma “se le aziende si stabiliscono negli Stati Uniti, non avranno dazi doganali!!!”, ha affermato ancora Trump.

Dal canto suo l’Unione europea “deplora profondamente” la decisione degli Stati Uniti con dazi che “rischiano di perturbare il commercio mondiale” e “minacciano la stabilità economica su entrambe le sponde dell’Atlantico”. “L’Ue si oppone fermamente alle misure protezionistiche che minano il commercio aperto ed equo. Chiediamo agli Stati Uniti di riconsiderare il loro approccio e di lavorare per una soluzione cooperativa e basata su regole che vadano a vantaggio di tutte le parti”, ha dichiarato Olof Gill, portavoce della Commissione europea per il commercio. Questi fazi “rischiano di perturbare il commercio mondiale, danneggiare i principali partner economici e creare inutili incertezze in un momento in cui la cooperazione internazionale è più cruciale che mai”, ha risposto Olof Gill. “Il Messico e il Canada non sono solo alleati stretti dell’Ue, ma anche partner economici vitali”, ha sottolineato. “Questi Dazi minacciano le catene di approvvigionamento profondamente integrate e i flussi di investimenti”, ha aggiunto il portavoce.

Per il momento, l’inquilino della Casa Bianca non ha intenzione di fermarsi qui, nonostante i crescenti timori negli Stati Uniti circa l’impatto sulle imprese e sul potere d’acquisto delle famiglie. Sono in programma altre tasse sulle importazioni statunitensi, in particolare su acciaio e alluminio. “Poi arrivano le automobili, i farmaci, i semiconduttori, i prodotti forestali e agricoli e, più in generale, tutti i paesi esportati dall’Unione Europea… Come ha indicato il presidente durante la campagna, potrebbero esserci variazioni di prezzo nel breve termine, ma nel lungo termine saranno completamente diversi”, ha dichiarato il Segretario al Commercio americano, Howard Lutnick, sul canale CNBC. “Avremo la migliore America possibile, un bilancio in pareggio, i tassi di interesse crolleranno”, ha assicurato.

Dazi boomerang in Usa: colpiranno le economie dei singoli Stati americani

Entro una settimana entreranno in vigore i dazi alle importazioni annunciati dal presidente americano Donald Trump, a meno di un’altra proroga, concessa un mese fa per spingere Messico, Canada e Cina a scendere a compromessi. Nonostante le potenziali misure ritorsive, l’aumento probabile dell’inflazione e le trattative ancora in corso. Al di là dei benefici ipotizzati dalla Casa Bianca, tuttavia, le tariffe avranno effetti su ogni singolo Stato americano. E per alcuni, come Montana e New Mexico, le conseguenze sono potenzialmente significative.

Un’analisi della CNBC evidenzia il grado di esposizione dei primi 10 Stati in relazione all’origine dei prodotti importati. “Messico, Canada e Cina sono i nostri principali partner commerciali, quindi le importazioni statunitensi da questi Paesi non si limitano a una manciata di prodotti – ha spiegato William George, direttore Ricerca di ImportGenius -. I beni provenienti da questi Paesi possono essere trovati su qualsiasi scaffale di un nostro negozio e utilizzati in qualsiasi settore immaginabile. Stiamo parlando di petrolio, elettronica e beni per auto che dominano le importazioni statunitensi”.

I primi 10 Stati che importano dal Canada sono Montana (92%), Maine (69,4%), Vermont (68%), North Dakota (64%), Wyoming (55%), Oklahoma (51%), West Virginia (44%), South Dakota (41%), Minnesota (38%) e Colorado (31%). “Per tutti gli stati, l’energia è stata la voce di spesa più importante per le importazioni”, spiega il reportage. I 10 Stati la cui quota maggiore di importazioni proviene dal Messico sono invece Nuovo Messico (41%), Michigan (40,3%), Texas (37,3%), Arizona (33,2%), Utah (26,2%), Alabama (22%), Iowa (21%), Louisiana (18,4%), Missouri (18%) e Connecticut (16%). Infine i 10 Stati con la percentuale più alta di importazioni dalla Cina sono California (27%), Nuovo Messico (26,4%), Nevada (22%), Illinois (20,3%), Tennessee (19%), Distretto di Columbia (19%), Washington (18%), Virginia (17%), Pennsylvania (16%) e Missouri (16%).

Nei singoli settori, emerge la forte dipendenza di Montana e Oklahoma dai beni energetici, soprattutto petrolio, del Canada. Solo per avere un riferimento, il Montana importa greggio e prodotti petroliferi per 4,9 miliardi di dollari. La Cina è invece il principale partner commerciale per l’elettronica in Nuovo Messico e le importazioni di componenti per auto come le batterie per veicoli elettrici sono preponderanti in Texas e California, dove Tesla ha una grande presenza. Solo nel 2023, spiega l’analisi di CNBC, la società di Elon Musk ha importato nei due Stati oltre 12.000 container di batterie.

Gli Usa dovranno però prepararsi a possibili contromisure ai dazi statunitensi (le famigerate ritorsioni). Anche in questo caso l’esposizione varia a seconda dei singoli Stati. Secondo i dati di LendingTree, quelli che affrontano il rischio tariffario più elevato, con almeno due terzi delle loro esportazioni dirette in Canada, Messico e Cina, sono Dakota del Nord (88%), Nuovo Messico (79%) e Dakota del Sud (72%). Il Dakota del Nord esporta grandi volumi di greggio in Canada: rappresentano l’80% dell’export complessivo. Il Nuovo Mexico è invece più legato al Messico per i componenti da computer (1,7 miliardi di dollari in valore, 70% del totale delle esportazioni). Considerando i primi 10 Stati che esportano in Canada, il Dakota del Nord è dunque in cima alla lista (82%), seguito da Maine (49%), Montana (46%), Dakota del Sud (44%), Michigan (43%), Ohio (39%), Virginia Occidentale (38%), Idaho (37%), Missouri (37%) e Vermont (34%). Le principali esportazioni includono l’agricoltura soia, mais, carne di manzo viva e congelata, maiali, pesce e pollame. I primi 10 Stati che esportano in Messico sono invece Nuovo Messico (70%), Texas (29%), Arizona (28%), Oregon (24%), Michigan (23%), Missouri (22%), Dakota del Sud (21%), Kansas (20%), California (19%) e Nebraska (18%). Tra gli Stati che esportano maggiormente in Cina ci sono Alaska (22%), Washington (18%), Oregon (15%), Carolina del Nord (14%), Louisiana (14%), Alabama (13,6%), Carolina del Sud (10,4%), California (9,4%), Massachusetts (9,4%) e Virginia Occidentale (9,3%).

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