Effetto Trump su petrolio e Gnl: il greggio cala, il gas ritorna a 50 euro

Il giorno il giuramento di Trump e il giorno dopo le promesse del neo presidente degli Stati Uniti su petrolio e gas – “trivelleremo, baby, trivelleremo” e “esporteremo il nostro gas in tutto il mondo” – i mercati navigano a vista. Greggio e gas prendono direzioni opposte, ma il sottofondo non è dei più accomodanti. C’è come la sensazione che tutto possa succedere.

I contratti futures sul petrolio Brent hanno registrato oscillazioni intorno ai 79 dollari al barile, in calo dell’1% dopo la discesa di ieri, a seguito dell’annuncio di Trump riguardo l’intenzione di aumentare la produzione di petrolio e gas negli Stati Uniti, dichiarando un’emergenza nazionale. Un’importante misura proposta da Trump prevede l’introduzione di tariffe del 25% sulle importazioni provenienti da Canada e Messico, che entreranno in vigore il 1° febbraio. Questa proposta ha contribuito a smorzare le aspettative di un rallentamento nelle politiche commerciali, ma la decisione di rimandare l’introduzione di imposte sulle importazioni cinesi ha mantenuto i mercati in un’incertezza relativa. Oltre alle tariffe commerciali, gli investitori seguono con attenzione anche la possibilità che l’amministrazione Trump imponga nuove sanzioni contro importanti esportatori di petrolio come Russia, Iran e Venezuela. Parallelamente, comunque, un calo del rischio geopolitico ha contribuito a contenere le oscillazioni dei prezzi, soprattutto dopo il cessate il fuoco tra Israele e Hamas, che ha portato a un accordo sul rilascio degli ostaggi.

Sul fronte del gas naturale, i prezzi in Europa sono tornati con un balzo di quasi il 3% fino a 50 euro per megawattora. I flussi di gas naturale russo attraverso l’Ucraina sono stati interrotti all’inizio dell’anno, dopo che i due governi non sono riusciti a raggiungere un accordo, ma sebbene l’International Energy Agency abbia osservato che questa interruzione non rappresenti un rischio immediato per la sicurezza dell’approvvigionamento dell’Ue, si prevede un aumento delle importazioni di Gnl in Europa, con stime che indicano un incremento di oltre il 15% nel 2025. Attualmente, i livelli di stoccaggio del gas dell’Ue si aggirano intorno al 60% della capacità totale, con gli esperti che suggeriscono che la situazione potrebbe comportare una maggiore dipendenza dalle importazioni di Gnl nei prossimi anni. Anche perché, come ha riportato Bloomberg, Trump ha invitato l’Europa ad acquistare il suo gas, o saranno dazi.
Sul fronte americano, va infine specificato, che per i trader la revoca della moratoria sulle nuove licenze per le esportazioni di gas naturale liquefatto potrebbe aprire la strada a nuovi permessi, con un impatto potenzialmente positivo sulla domanda di Gnl da parte dell’Europa e dell’Asia. Magari a prezzi più bassi.

 

Von der Leyen

L’Ue accelera sulla competitività, ma l’ombra dei dazi Usa si allunga sui 27

La “rivalità geostrategica” è “spietata” e l’Europa “deve cambiare marcia se vuole mantenere la sua crescita nei prossimi 25 anni”, anche alla luce del fatto che “le principali economie mondiali si contendono l’accesso alle materie prime, alle nuove tecnologie e alle rotte commerciali globali”. Insomma, “dall’Artico al Mar Cinese Meridionale, la gara è aperta”. Da Davos, in Svizzera, dove si svolge il World Economic Forum, la presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, preme sull’acceleratore e cerca di scuotere il continente di fronte “all’intensificarsi della concorrenza” e spinge i 27 a “lavorare insieme” per “evitare una corsa al ribasso”.

Il ritorno di Donald Trump alla Casa Bianca non è affare da poco e von der Leyen lo sa. L’Unione europea, assicura, sarà “pragmatica” con gli Stati Uniti, e si impegnerà “nel dialogo senza indugio”, ben consapevole degli “interessi comuni” e pronta “a negoziare”. Allo stesso tempo, però, serve una spinta forte e per questo la Commissione europea la prossima settimana presenterà una “tabella di marcia, che guiderà i nostri sforzi nei prossimi cinque anni”. Una roadmap che vede il suo fil rouge nel rapporto sulla competitività firmato da Mario Draghi. Quattro gli obiettivi indicati da von der Leyen: aumentare la produttività “colmando le lacune dell’innovazione”, sviluppare un piano comune per la decarbonizzazione e la competitività, “affrontare le carenze di competenze e di manodopera e ridurre la burocrazia”. Una strategia, dice la leader dell’esecutivo Ue, che “mira a garantire una crescita più rapida, più pulita e più equa”.

Sullo sfondo, però, l’ombra dei dazi annunciati da Trump smorza gli entusiasmi. Il presidente Usa ha già annunciato che dal 1° febbraio punta ad aumentare del 25% le tasse doganali sui prodotti provenienti dai vicini Canada e Messico, mentre gli effetti delle nuove politiche protezionistiche nei confronti dell’Europa hanno contorni non ancora ben definiti.

Da Strasburgo il ministro delle Imprese e del Made in Italy, Adolfo Urso, prova a gettare acqua sul fuoco: “Di per sé i dazi non significano nulla – dice – e dobbiamo raccogliere una sfida competitiva dando una risposta adeguata”. Insomma la presidenza Trump può rappresentare “una grande opportunità per l’Europa, perché ci costringe a rispondere con altrettanta assertività”. Anche il cancelliere tedesco Olaf Scholz invita alla calma: l’Europa, dice a Davos, deve “difendere il libero scambio”, ma è necessario “mantenere il sangue freddo” e puntare su “cooperazione e comprensione reciproca”. Un tema, quello dei dazi, in cui la Cina non può che entrare dalla porta principale: “il protezionismo non porta da nessuna parte e non ci sono vincitori nelle guerre commerciali”, assicura il vice premier Ding Xuexiang. A margine dei lavori dell’Ecofin, anche la Svezia chiede prudenza. “Certamente ci sono preoccupazioni per dazi, ma ancora non siamo in questa situazione quindi restiamo calmi”, dice la ministra delle Finanze, Elisabeth Svantesson.

Meno diplomatico, ca va sans dire, il primo ministro canadese Justin Trudeau, che si dice pronto “ad affrontare tutti gli scenari” e a tutelare gli interessi nazionali se tra 10 giorni le nuove tariffe doganali entreranno ufficialmente in vigore. Già, perché seppur dimissionario, Trudeau spera ancora di convincere Trump a fare dietrofront. Gli economisti sostengono che l’imposizione di dazi innescherebbe una profonda recessione nel Paese, dove il 75% dei beni e servizi esportati è destinato agli Stati Uniti.

Giovedì Trump è atteso in videocollegamento a Davos e il tema degli scambi commerciali con l’Europa potrebbe essere uno dei piatti messi sul tavolo. Il volume tra Usa e Ue ammonta a 1,5 trilioni di euro, pari al 30% del commercio mondiale. “La posta in gioco per entrambe le parti – assicura von der Leyen – è enorme”.

Dazi, clima e Groenlandia: i primi annunci di Trump dopo il suo insediamento

Stato di emergenza al confine con il Messico e “milioni” di deportazioni promesse, ritiro dall’accordo di Parigi sul clima, indulti per centinaia di aggressori di Capitol Hill. Appena inaugurato come presidente degli Stati Uniti, Donald Trump ha firmato lunedì una raffica di ordini esecutivi per segnare il suo ritorno al potere. Tuttavia, alcune di queste misure spettacolari saranno probabilmente difficili da attuare e promettono di essere ferocemente contestate nei tribunali. Alcune sembrano addirittura violare la Costituzione degli Stati Uniti.

RITIRO DALL’ACCORDO SUL CLIMA DI PARIGI E DALL’OMS. Il ritiro degli Stati Uniti dall’Accordo di Parigi è in corso: Donald Trump lo ha messo in scena facendone uno dei suoi primi decreti firmati, su una scrivania installata proprio sul palco della grande sala di Washington in cui erano riuniti circa 20.000 dei suoi sostenitori. Questa misura, proveniente dal secondo più grande inquinatore del mondo dopo la Cina, mette a rischio gli sforzi globali per combattere il cambiamento climatico. Dovrebbe entrare in vigore tra un anno. Gli Stati Uniti avevano già lasciato per breve tempo l’accordo internazionale durante il primo mandato del miliardario americano, prima che Joe Biden ne annunciasse il ritorno. Donald Trump, noto scettico del clima, ha anche firmato un ordine esecutivo che dichiara lo “stato di emergenza energetica” per incrementare la produzione di petrolio e gas negli Stati Uniti. “Trivelleremo come pazzi”, ha ripetuto, una frase che è diventata uno degli slogan della sua campagna elettorale (”We will drill, baby, drill“). Altro decreto a sorpresa: il ritiro degli Stati Uniti dall’Organizzazione Mondiale della Sanità.

DAZI DA FEBBRAIO.Imporremo tariffe e tasse ai Paesi stranieri per arricchire i nostri cittadini”, ha promesso il 47esimo presidente degli Stati Uniti nel suo discorso inaugurale. Dallo Studio Ovale, in serata, ha specificato di prevedere “circa il 25% su Messico e Canada”. A partire da quando? “Dal 1° febbraio”, ha stimato. I vicini più prossimi degli Stati Uniti sono teoricamente protetti da un accordo di libero scambio firmato durante il suo primo mandato.

CANALE DI PANAMA E GROENLANDIA.Ci riprenderemo” il Canale di Panama, ha detto il nuovo presidente. Costruito dagli Stati Uniti, il controllo del canale è stato trasferito a Panama nel 1999, a seguito di un accordo firmato nel 1977. “Un regalo senza senso”, ha stigmatizzato Donald Trump. “Lo scopo del nostro accordo e lo spirito del nostro trattato sono stati totalmente violati”, ha detto. “Le navi americane sono gravemente sovraccaricate (…) E soprattutto, la Cina gestisce il Canale di Panama, e noi non lo abbiamo regalato alla Cina”. “Il canale appartiene e continuerà ad appartenere a Panama”, ha risposto il presidente panamense José Raul Mulino. Sull’altra questione territoriale del momento, la Groenlandia, di cui vuole assumere il controllo, il presidente americano si è detto “sicuro che la Danimarca si abituerà all’idea” che gli Stati Uniti “ne hanno bisogno per la sicurezza internazionale”.

OFFENSIVA ANTI-IMMIGRAZIONE. L’offensiva anti-immigrazione promessa da Donald Trump ha preso forma nel suo discorso di insediamento di mezzogiorno. “Tutti gli ingressi illegali saranno fermati immediatamente e inizieremo a rimandare milioni e milioni di stranieri criminali da dove sono venuti”, ha ribadito il presidente repubblicano. “Invierò truppe al confine meridionale per respingere la disastrosa invasione del nostro Paese”. In serata, dalla Casa Bianca, ha firmato il decreto che dichiara lo stato di emergenza al confine con il Messico. Donald Trump intende anche attaccare il diritto d’asilo e il diritto di sbarco. Il primo effetto concreto è arrivato lunedì, quando la piattaforma per la richiesta di asilo lanciata dall’amministrazione Biden ha smesso di funzionare. “Gli appuntamenti esistenti sono stati cancellati”, si legge sul sito del servizio.

GRAZIE PER GLI ASSALITORI DEL CAMPIDOGLIO. Più di 1.500 partecipanti all’assalto al Campidoglio del 6 gennaio 2021 sono stati graziati non appena è tornato al potere l’uomo che li aveva mandati su tutte le furie sostenendo che l’elezione di Joe Biden era stata “truccata”. Per le altre quattordici persone condannate, la pena sarà commutata in pena già scontata. “Speriamo che vengano rilasciati stasera”, ha dichiarato Donald Trump. Anche le accuse ancora pendenti contro diverse centinaia di persone sono state ritirate. Un “insulto al sistema giudiziario americano”, ha dichiarato l’ex presidente democratica della Camera dei Rappresentanti, Nancy Pelosi.

QUESTIONI DI GENERE.Porre fine all’illusione transgender” è stato un altro dei suoi impegni in campagna elettorale. “D’ora in poi, la politica ufficiale del governo degli Stati Uniti sarà quella di dire che ci sono solo due sessi, maschio e femmina”, definiti alla nascita, ha affermato lunedì Donald Trump. Anche il sostegno federale ai programmi per la diversità è stato preso di mira.

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Clima, dazi, immigrazione: arriva la ‘rivoluzione’ di Trump

Immigrazione, diritti dei transgender, ambiente, commercio internazionale e dazi, Ucraina… L’insediamento di Donal d Trump alla Casa Bianca si porta dietro una serie di misure promesse dal nuovo presidente degli Stati Uniti, molte delle quali saranno adottate per decreto. Si tratta, molto spesso, di decisioni radicali che metteranno subito alla prova il suo margine di manovra istituzionale. Ecco una panoramica delle decisioni che potrebbero essere adottate.

IMMIGRAZIONE. “Non appena avrò prestato giuramento, lancerò il più grande programma di espulsione della storia americana”, aveva promesso il repubblicano durante la sua campagna elettorale. Fin dal primo giorno, il presidente vuole anche porre fine al diritto di sbarco, che considera “ridicolo”. Secondo il Wall Street Journal, oggi Donald Trump dichiarerà lo stato di emergenza al confine con il Messico. Si stima che circa 11 milioni di persone vivano illegalmente negli Stati Uniti. Il presidente degli Stati Uniti può prendere immediatamente alcune decisioni con un semplice decreto e gli esperti si aspettano che abolisca un’applicazione utilizzata dai richiedenti asilo, o un programma specificamente progettato per i migranti provenienti da Haiti, Cuba, Nicaragua e Venezuela. Ma il suo potere ha dei limiti. Il diritto alla terra, ad esempio, è garantito dalla Costituzione e qualsiasi programma di espulsione potrebbe essere impugnato.

DAZI DOGANALI. “Il 20 gennaio, in uno dei miei primi ordini esecutivi, firmerò tutti i documenti necessari per imporre dazi doganali del 25% su tutti i prodotti che entrano negli Stati Uniti”, aveva annunciato Trump alla fine di novembre. Questa minaccia di una guerra commerciale con i Paesi vicini – a cui Washington è legata da un accordo di libero scambio – è realistica o è un bluff prima dei negoziati, come le ripetute provocazioni sull’annessione del Canada e la ‘conquista’ della Groenlandia? Trump giustifica questo progetto come una misura di ritorsione contro l’ingresso di droga e immigrati illegali negli Stati Uniti. Il presidente ha anche minacciato la Cina di aumentare i dazi doganali del 10%, oltre a quelli già imposti su alcuni prodotti durante il suo primo mandato.

GRAZIA AI CONDANNATI PER L’ASSALTO A CAPITOL HILL. Il 6 gennaio 2021, una folla di sostenitori di Donald Trump ha preso d’assalto il Campidoglio per impedire la certificazione della vittoria di Joe Biden, e quasi 1.270 persone sono state condannate. Da tempo Trump parla della possibilità di graziare alcune di loro e domenica, durante un comizio, ha assicurato ai suoi sostenitori che saranno “molto felici” della decisione che prenderà oggi in merito.

GUERRA E DIPLOMAZIA. Prima dell’accordo tra Israele e Hamas, il presidente eletto aveva detto che il movimento palestinese avrebbe passato “l’inferno” se non avesse liberato gli ostaggi detenuti a Gaza. Ha anche promesso a Israele un sostegno incondizionato al conflitto che dura da 15 mesi. Ma non ha specificato esattamente cosa intendesse dire. Trump vuole anche porre fine alla guerra in Ucraina, scatenata nel febbraio 2022 dall’invasione russa, secondo un calendario non proprio lineare: dopo aver detto voler porre fine alle ostilità in 24 ore, più recentemente ha parlato di un periodo di sei mesi.

CLIMA. “Drill baby, drill”: lo slogan a favore delle trivellazioni petrolifere è stato ripetuto più volte da Donald Trump, che punta da subito a incrementare l’estrazione di combustibili fossili. Ha assicurato che annullerà “immediatamente” la recente decisione di Joe Biden di imporre un ampio divieto allo sviluppo di petrolio e gas offshore. Non è detto, però, che riuscirà a farlo senza passare dal Congresso. Il repubblicano ha anche espresso la sua forte opposizione ai veicoli elettrici, nonostante la sua alleanza con il boss di Tesla Elon Musk.

DIRITTI CIVILI. “Con una firma, dal primo giorno, metteremo fine all’illusione dei transgender”, ha dichiarato di recente il presidente eletto, che ha promesso di escluderli dall’esercito e dalle scuole. Domenica ha ribadito il suo desiderio di porre fine alle “ideologie woke della sinistra radicale”.

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Musk e Trump protagonisti della conferenza di Meloni. Schlein: “Sembra portavoce Usa”

Stati Uniti al centro della conferenza stampa annuale di Giorgia Meloni con i giornalisti parlamentari: dai rapporti tra la premier ed Elon Musk, al giallo dell’accordo con SpaceX, passando per i rischi della politica annunciata da Donald Trump, protezionista sul fronte commerciale e aggressiva su quello geopolitico, con le minacce alla Groenlandia e al canale di Panama. Ma nelle tre ore di incontro si è parlato anche della liberazione della giornalista Cecilia Sala, di lavoro, di Piano Mattei. La premier glissa invece sull’aumento massiccio dei costi dell’energia in Italia: “Non è una questione su cui si può rispondere in 20 secondi, quindi per rispetto ai colleghi mi fermo qui“, risponde. Per l’esecutivo nessun pericolo di rimpasto, giura: “E’ già il settimo governo per longevità della storia nazionale, procediamo a grandi falcate per scalare la classifica“. Il sogno di Matteo Salvini all’Interno entro fine legislatura? Spezzato senza lasciare spazio a equivoci: “Sarebbe un ottimo ministro dell’Interno, ma anche Piantedosi lo è e lo voglio ringraziare”.

La presidente del Consiglio smentisce categoricamente le voci sull’accordo per Starlink, derubricandole a “fake news” e difende Musk sul quale dice di non voler vedere addosso una “lettera scarlatta” solo per la reciproca vicinanza. Nessun “favore agli amici“, garantisce, assicurando di prendere decisioni valutando i problemi “solo con la lente nazionale“. Il punto è mettere in sicurezza alcune comunicazioni molto sensibili per la Difesa e SpaceX, ricorda Meloni, è tecnologicamente il soggetto più avanzato per fare questo lavoro perché al momento “non ci sono alternative pubbliche“. Il problema esiste ed è, ribadisce, un tema di sicurezza nazionale: “Tutto il resto è dibattito buono per opposizioni a corto di argomenti, ma è un altro tema“.

Quanto alle presunte ingerenze politiche del patron di Tesla, Meloni confessa di considerare “più pericoloso” George Soros che, accusa, “si trincera dietro una campagna antisemita che nessuno fa” mentre è “molto più ingerente di quanto non lo sia Musk”. Gli Stati Uniti restano al centro delle domande, che evocano lo spettro dei dazi promessi da Trump. Sarebbero un problema, ammette la prima ministra, ma “gli scogli si devono superare con il dialogo” e poi ricorda: “Non è una novità che le amministrazioni americane pongano la questione dell’avanzo commerciale. Il protezionismo non è un approccio che riguarda solo l’amministrazione di Trump“. La ricetta è dunque discuterne perché, confida, “delle soluzioni si possono trovare“. Nessun timore invece sulle minacce di annessione della Groenlandia con la forza: “Lo escludo“, scandisce, ipotizzando che le sue dichiarazioni del Tycoon siano un messaggio ad altri player mondiali: “La Groenlandia è un territorio particolarmente strategico, anche grosso, ricco di materie prime. La mia idea è che queste dichiarazioni rientrino nel dibattito a distanza tra grandi potenze, un modo energico per dire che gli Stati Uniti non rimarranno a guardare di fronte alla previsione che altri grandi player globali muovano in zone che sono di interesse strategico per gli Stati Uniti“.

Spostando lo sguardo a Sud, Meloni si dice fiera degli apprezzamenti incassati con il Piano Mattei. Nei primi nove Paesi del piano i progetti sono tutti già avviati. Le due grandi sfide per il 2025 saranno internazionalizzarlo e ampliarlo. Per allargarlo sono stati individuati cinque nuovi Paesi con cui stringere accordi: Angola, Ghana, Mauritania, Tanzania e Senegal. Perché il Piano vada in porto, però, servirà anche la stabilizzazione della Libia. Qui la trama si complica, perché la Russia aveva una forte presenza in Siria, con la sua flotta sul Mediterraneo. Con la caduta di Assad, avverte la premier, “è ragionevole che Mosca cerchi altri sbocchi e che uno di questi possa essere la Cirenaica”. La stabilizzazione definitiva della Libia, confessa, è “una delle questioni più complesse che mi sia trovata ad affrontare”. Ma quello della presenza russa in Africa è un tema che lei stessa pone da due anni: “Qualcosa si muove – registra -, lo abbiamo visto sia al G7 dei leader che al vertice Nato“.

Dopo le tre ore di conferenza, le opposizioni salgono sulle barricate: “Si è conclusa la conferenza della portavoce di Trump e Musk, aspettiamo quella della presidente del Consiglio d’Italia”, risponde su Instagram la segretaria del Pd, Elly Schlein. Di “conferenza propaganda” parla il deputato di Avs Nicola Fratoianni: “Tra battutine, difesa a spada tratta di Trump e Musk e risposte stizzite alle domande più scomode, la presidente del consiglio continua a millantare grandi successi al governo. Ma la cosa davvero insopportabile è il silenzio di sui veri problemi del Paese: stipendi troppo bassi, costo della vita troppo alto, incertezza per il futuro e mancanza di servizi“, osserva. “Meloni continua a dichiararsi pronta ad affidare a Elon Musk un servizio delicatissimo su cui passano informazioni riservate per il paese e dice ma perché dobbiamo mettergli una lettera scarlatta? Perché una persona che dice che vuole rovesciare il governo inglese e mandare il premier in galera, che ha sospeso la fornitura dei satelliti all’Ucraina dalla mattina alla sera è pericolosa e inaffidabile“, fa eco il leader di Azione, Carlo Calenda. Non accetta il dribbling sulle bollette la capogruppo del M5S in Attività produttive della Camera, Emma Pavanelli: “Ha detto che non ha tempo per parlare dei rincari, che non è una questione sulla quale si può rispondere in 20 secondi. Certo, come no. Lo vada a raccontare ai milioni di italiani che dovranno affrontare rincari assurdi già dall’inizio di quest’anno”, tuona, ricordando le continue richieste al governo di interventi strutturali: “Cara presidente Meloni, non ci vogliono 20 secondi, ci vuole impegno e subito!”.

Los Angeles in fiamme, almeno due morti e decine di migliaia di evacuati. La sindaca: “Situazione incendi in peggioramento”

Los Angeles brucia e almeno 100mila residenti sono stati raggiunti da un ordine di evacuazione immediato o a breve termine. Al momento il conteggio delle vittime è di due morti e diversi feriti. Tre diversi incendi, infatti, stanno devastando la città, in modo particolare nella zona collinare. Il primo rogo è scoppiato nella tarda mattinata di martedì nel quartiere di Pacific Palisades, sede di ville multimilionarie sulle montagne a nord-ovest della città che ha già devastato quasi 2921 acri. La fuga dalle fiamme è avvenuta di fretta: i bambini sono stati fatti uscire dalle scuole e i residenti sono riusciti a portare via soltanto gli animali domestici e pochi effetti personali. L’incendio è scoppiato nel momento peggiore per Los Angeles, spazzata da violente raffiche di vento. Si prevede che l’aria calda di Santa Ana, tipica degli inverni californiani, raggiungerà una velocità fino a 160 km/h nella regione, secondo il servizio meteorologico nazionale statunitense (NWS). Questo potrebbe diffondere le fiamme molto rapidamente e rappresentare un “pericolo mortale”.

Gli altri due incendi sono l’Eaton Fire e l’Hust Fire , che hanno rispettivamente già distrutto 2227 e 500 acri. Secondo quanto riferisce il Department of Forestry and Fire Protection, complessivamente sono bruciati 5742 acri di terreno e la percentualmente di contenimento è pari a zero. Il Dipartimento segnala anche un nuovo rogo nella contea di Riverside, in prossimità di Coachella, località molto conosciuta per il celebre festival musicale che si svolge ogni anno. Qui al momento sono almeno 15 gli acri distrutti dalle fiamme.

Anche tutti i residenti di La Cañada Flintridge, zona collinare intorno a Los Angeles, dovranno essere evacuati. Lo ha annunciato il Dipartimento dello sceriffo della contea di Los Angeles. La decisione, si legge su X, è stata presa “a causa del forte vento e dell’incendio in corso nell’area. I residenti nelle zone interessate devono evacuare immediatamente”. In quest’area si trova anche il Jet Propulsion Laboratory della NASA, leader nell’esplorazione robotica dello spazio, centro di ricerca che ha progettato il primo satellite degli Stati Uniti, l’Explorer 1, lanciato nel 1958. Qui, inoltre, sono nati tutti i rover inviati su Marte.

“Si consiglia agli abitanti di Los Angeles di tenere presente che la tempesta di vento dovrebbe peggiorare nel corso della mattinata e di prestare attenzione agli avvertimenti locali, di restare vigili e di stare al sicuro”, ha scritto su X la sindaca di Los Angeles, Karen Bass.

Il governatore della California, Gavin Newsom, durante un briefing con la stampa, ha spiegato che “numerose strutture che sono già state distrutte”. “Non siamo affatto fuori pericolo”, ha aggiunto il democratico, che ha chiesto ai californiani di “rispettare gli ordini di evacuazione”, che non sempre vengono seguiti negli Stati Uniti. Complessivamente, la California ha schierato 1400 vigili del fuoco e centinaia di risorse preposizionate “per combattere questi incendi senza precedenti. Funzionari di emergenza, vigili del fuoco e soccorritori fanno tutto il possibile per proteggere vite”, ha detto ancora Newsom.

Il presidente degli Stati Uniti, Joe Biden, ha approvato gli aiuti federali destinati alla città – la seconda più grande degli Usa – per far fronte al maxi incendio. Il presidente uscente si trova proprio in California per annunciare la creazione di due “monumenti nazionali”, cioè vaste aree protette nel sud dello Stato.  Donald Trump, che tra pochi giorni succederà a Biden alla Casa Bianca, a settembre aveva minacciato di tagliare gli aiuti federali che la California riceve abitualmente per combattere gli incendi boschivi.

“Ci aspettiamo che questo sia l’evento di vento più forte in questa regione dal 2011”, ha avvertito Daniel Swain, specialista di eventi estremi dell’Università UCLA. Ma secondo lui il rischio di incendio è “molto più alto” di allora. Questo perché, dopo due anni molto umidi che hanno rinvigorito la vegetazione, la California meridionale sta vivendo “l’inizio inverno più secco mai registrato”. In altre parole, tutto ciò che è ricresciuto abbondantemente sta ora fungendo da combustibile per gli incendi.

 

Usa, i dazi di Trump potrebbero portare ad un crollo del Pil fino a -3,6%

Decine di istituti e centri studi internazionali stanno mettendo in guardia il presidente eletto Donald Trump dopo l’annuncio su imminenti dazi alle importazioni di beni negli Stati Uniti. Le stime, comprese quelle di Moody’s, Ubs e Fmi, mostrano che avranno “un effetto dannoso sull’economia americana” poichè “riducono il commercio, distorcono la produzione e abbassano lo standard di vita” degli americani. Lo segnala una recente analisi di Tax Foundation, think tank con sede a Washington, che ricorda che “le tariffe aumentano il prezzo dei beni prodotti all’estero, incentivando i consumatori a passare a beni prodotti a livello nazionale e offrendo ai produttori locali la possibilità di aumentare i prezzi”. I benefici sarebbero dunque rilevabili per le aziende statunitensi mentre a farne le spese sarebbe il consumatore finale. I dazi, inoltre, nonostante le rassicurazioni del prossimo consulente senior al Commercio di Trump, Peter Navarro, potrebbero avere “un impatto inflazionistico” e “causare una recessione economica nel breve periodo”, a seconda che la Federal Reserve adotti misure di allentamento della politica monetaria.

Le stime di decine di istituti internazionali, messe in fila da Tax Foundation, prevedono perdite del Pil fino al 3,61% entro il 2028 (Moody’s), considerando anche l’eventualità di rappresaglie dai Paesi colpiti di dazi. Per il Fondo Monetario Internazionale, la perdita sarebbe più lieve, tra -0,4% e -0,6% mentre per il Peterson Institute for International Economics il range decennale, dal 2025, stabilisce un minimo di -0,21% a-0,43%. Fitch calcola un range cha arriva fino a -1,1% nel caso di rappresaglie commerciali mentre la Royal Bank of Canada stima una perdita di Pil Usa dell’1,5% a due anni dall’entrata in vigore. Tax Foundation si pone nel mezzo di tali stime, da un minimo di -1,3% ad un massimo di -1,7%.

Secondo Erica York, analista di Tax Foundation, “nel lungo periodo le tariffe colpiscono l’economia riducendo lavoro e investimenti”, “perché aumentano i prezzi relativi dei beni importati e di quelli nazionali”, intaccando il reddito disponibile delle famiglie e dunque il livello dei consumi. Un effetto a cascata che causerebbe una frenata dei consumi e dunque la riduzione degli investimenti delle aziende con successiva perdita di produzione. “Creando un mercato interno protetto, si attenuano le pressioni competitive che costringono le aziende a rimanere innovative – sottolinea York -. Invece di dover cercare costantemente modi per migliorare i processi e soddisfare le richieste dei consumatori, le aziende potrebbero dunque smettere di investire per godersi i maggiori profitti e spingere per un protezionismo anche più aggressivo”.

L’inflazione risale e per la Fed il taglio dei tassi diventa un rebus

L’inflazione non molla negli Usa disorientando ulteriormente la Fed che invece ha iniziato un percorso di riduzione tassi. Secondo i dati del Dipartimento del Commercio americano, l’indice dei prezzi delle spese per consumi personali (Pce), il principale indicatore di inflazione secondo la Federal Reserve, ha registrato un tasso annuale del 2,3%. Un dato in linea con le previsioni di consenso, ma superiore al 2,1% di settembre. Escludendo cibo ed energia, la cosiddetta inflazione ‘core’ ha mostrato segnali ancora più marcati, con un incremento mensile dello 0,3% e un tasso annuale del 2,8%. Entrambi i numeri sono risultati conformi alle aspettative e superiori a quelli del mese precedente. A guidare l’aumento del carovita sono stati i prezzi dei servizi, che sono saliti dello 0,4%, mentre i prezzi dei beni sono scesi dello 0,1%. I costi energetici sono diminuiti dello 0,1%, mentre quelli alimentari sono rimasti sostanzialmente invariati.

Nonostante il lieve aumento dell’inflazione complessiva, i mercati hanno reagito con una previsione positiva di nuovi tagli ai tassi da parte della Fed, con il 66% degli operatori che puntano a una riduzione di un quarto di punto percentuale già a dicembre, secondo i dati del Cme Group, nonostante l’inflazione sia ancora lontana dall’obiettivo del 2% fissato dalla Fed. I dati suggeriscono che, sebbene l’inflazione sia rallentata rispetto ai picchi registrati nel 2022, il costo della vita rimane un problema importante, soprattutto per le famiglie con redditi più bassi. Nonostante un rallentamento rispetto ai tassi di crescita rapidi del 2022, gli effetti cumulativi dell’inflazione continuano a incidere pesantemente sui consumatori, tema fra l’altro centrale nella recente campagna elettorale per le presidenziali Usa. E in effetti c’è stato un incremento delle spese correnti dello 0,4% a ottobre, ma il ritmo di crescita ha mostrato un lieve rallentamento rispetto a settembre. Eppure il reddito personale è salito dello 0,6%, ben oltre le stime degli analisti, però il tasso di risparmio è sceso al 4,4%, il livello più basso dall’inizio del 2023. Segno dunque che i prezzi mangiano i guadagni.

Sebbene la Federal Reserve abbia avviato una serie di aumenti dei tassi di interesse per contenere l’inflazione, gli analisti restano così divisi su quanti ulteriori interventi saranno necessari. A settembre e novembre, la Fed ha già ridotto i tassi di interesse per un totale di tre quarti di punto percentuale, e i funzionari continuano a seguire attentamente i segnali economici, mantenendo un atteggiamento cautamente ottimista riguardo al raggiungimento dell’obiettivo di inflazione del 2%. I numeri però stanno andando in un’altra direzione, senza contare che – secondo Goldman Sachs – l’effetto Trump sui dazi potrebbe valere un +1% dell’inflazione. L’atterraggio morbido, teorizzato dalla Federal Reserve, non è ancora così morbido…

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Trump lancia offensiva commerciale contro Cina, Canada e Messico: “Aumento dei dazi anche del 200%”

A poche settimane dalla sua rielezione e a un mese e mezzo dal suo insediamento alla Casa Bianca, Trump lancia l’offensiva commerciale contro la Cina, il Canada e il Messico, con l’obiettivo di aumentare i dazi. “Il 20 gennaio, in uno dei miei primi ordini esecutivi, firmerò tutti i documenti necessari per imporre tariffe del 25% su tutti i prodotti che entrano negli Stati Uniti da Messico e Canada”, scrive il presidente eletto in un post sul social network Truth. “Questa tassa rimarrà in vigore fino a quando le droghe, in particolare il fentanyl, e tutti gli immigrati clandestini non fermeranno questa invasione del nostro Paese”, aggiunge.

In un altro post, annuncia un aumento del 10% delle tasse doganali, oltre a quelle già in vigore e a quelle aggiuntive che potrebbe decidere, su “tutti i numerosi prodotti che arrivano negli Stati Uniti dalla Cina”. Trump sottolinea di aver spesso sollevato il problema dell’afflusso di droga, in particolare del fentanyl – uno dei principali responsabili della crisi degli oppiacei negli Stati Uniti – con i leader cinesi, che avevano promesso di punire severamente i “trafficanti”, “fino alla pena di morte”. “Ma non hanno mai dato seguito alla promessa”, accusa il presidente eletto.

Le ragioni di sicurezza nazionale possono essere invocate per derogare alle regole stabilite dall’Organizzazione mondiale del commercio (WTO), ma i Paesi sono generalmente cauti nell’utilizzare questa eccezione come strumento regolare di politica commerciale.

L’aumento dei dazi doganali, che durante la campagna elettorale ha spesso descritto come la sua “espressione preferita”, è una delle chiavi della futura politica economica di Trump, che non teme di rilanciare le guerre commerciali, in particolare con la Cina, iniziate durante il suo primo mandato. All’epoca, aveva giustificato questa politica con il deficit commerciale tra i due Paesi e con quelle che considerava pratiche commerciali sleali, accusando Pechino di “rubare” la proprietà intellettuale. E la Cina si è vendicata con tariffe che hanno avuto conseguenze dannose soprattutto per gli agricoltori americani. L’amministrazione di Joe Biden ha mantenuto alcuni dazi sui prodotti cinesi e ne ha imposti di nuovi su altre.

E poco dopo le dichiarazioni di Trump, è arrivata la replica di Pechino. “Nessuno vincerà una guerra commerciale”, sottolinea il portavoce della diplomazia cinese Liu Pengyu. “La Cina ritiene che il commercio e la cooperazione economica tra Cina e Stati Uniti siano per natura reciprocamente vantaggiosi”.

Non è mancata nemmeno la reazione del Canada. Il governo di Justin Trudeau assicura che le relazioni tra i due Paesi sono “equilibrate e reciprocamente vantaggiose, soprattutto per i lavoratori americani”, anche se non manca un velato avvertimento: il Canada, ricorda a Trump l’esecutivo, è “essenziale per l’approvvigionamento energetico” degli Stati Uniti. Qui, dove il 75% delle esportazioni è destinato proprio agli Usa, le parole di Trump agitano gli animi. Il premier del Québec, François Legault, definisce l’annuncio “un rischio enorme” per l’economia canadese. Il suo omologo della Columbia Britannica, David Eby, ritiene che “Ottawa debba rispondere con fermezza”. Il Messico, invece, “non ha motivo di preoccuparsi”, assicura (e rassicura) la presidente Claudia Sheinbaum. I tre Paesi sono legati da trent’anni da un accordo di libero scambio, rinegoziato su pressione di Donald Trump durante il suo primo mandato.

Wendy Cutler, vicepresidente dell’Asia Society Policy Institute, un think tank americano, ritiene che la capacità dei due vicini degli Usa “di ignorare le minacce del presidente eletto sia limitata”, tanto sono dipendenti da lui. Ma l’analista William Reinsch sottolinea che il loro accordo sarà comunque rinegoziato nel 2026: “questa è una classica mossa di Trump, minacciare e poi negoziare”.

La nomina a Segretario al Commercio di Howard Lutnick, amministratore delegato della banca d’affari Cantor Fitzgerald e critico nei confronti della Cina, avvenuta la scorsa settimana, conferma la volontà del presidente eletto di cercare di piegare i partner commerciali per ottenere accordi migliori e delocalizzare la produzione negli Stati Uniti.

Per quanto riguarda la Cina, Trump ha promesso tariffe fino al 60% su alcuni prodotti e addirittura del 200% sulle importazioni di veicoli assemblati in Messico. Punta anche a reintrodurre dazi doganali del 10-20% su tutti i prodotti che entrano negli Stati Uniti e l’Unione Europea si è già detta “pronta a reagire” in caso di nuove tensioni commerciali.

La Cop è stata un flop, forse conviene cambiare format per il Brasile

Non è stata un successo, la Cop 29. E, onestamente, era facile immaginarlo. Pressappoco come le altre che l’hanno preceduta. Partito con la medaglietta di ‘Cop finanziaria’, l’appuntamento ‘verde’ più importante dell’anno ha registrato un rosario di defezioni importantissime (da Biden a Xi Jinping, da Macron a Lula, per finire con von der Leyen e con il premier australiano Anthony Albanese), distanze siderali tra la teoria e la pratica, cioè tra cosa si ipotizzava di raggiungere e gli accordi che sono stati messi su carta, una sostanziale insoddisfazione di fondo generata da uno scetticismo di base assai diffuso. Baku, insomma, non si è rivelato un punto di svolta e nemmeno un punto di raccolta fondi. Perché, in concreto, la bozza finale sui denari da investire di qui al 2035 ha scontentato tutti: i Paesi in via di sviluppo e quelli sviluppati. Con una superficialità quasi imbarazzante si è parlato per giorni di 1000-1300 miliardi all’anno da destinare per la finanza climatica, tralasciando il dettaglio che non ci sono soldi. E, non a caso, il contraddittorio si è acceso fino a diventare scontro.

C’era una volta il temerario Frans Timmermars, c’era John Kerry e c’erano i pasdaran del green, ora lo scenario si è impoverito e al di là di allarmi plastificati lanciati a macchia di leopardo sul cattivissimo stato di salute del Pianeta, all’atto pratico si tratta sempre e solo di chiacchiere, idee e progetti che rimangono appesi nell’aria inquinata. Perché si scontrano con interessi di campanile e mancanza di fondi. Del resto, se l’incipit della Cop è stata la dichiarazione del presidente Ilham Alyev sui combustibili fossili “come dono di Dio”, a cascata pareva complicato ipotizzare passi avanti. Anche la premier Giorgia Meloni, immergendosi nel realismo più assoluto, ha ricordato nel suo intervento in presenza – almeno la presidente del Consiglio in Azerbaigian è andata – che di gas e petrolio dovremo ancora campare per anni, senza trascurare però la tutela della Terra. E quindi? Quindi ‘adelante ma con juicio’, soprattutto avanti con il nucleare. Ma pure su questo tema non c’è unanimità di vedute.

Liofilizzando il concetto, la Cop29 non rimarrà scolpita nella memoria collettiva. In fondo, è nata male fin da subito, cioè in concomitanza con l’elezione di Donald Trump alla presidenza degli Stati Uniti, e si è incagliata nella recrudescenza dei conflitti e nelle ambasce finanziare degli Stati, America compresa. Appena eletto, il Tycoon ha annunciato che (ri)uscirà dagli accordi di Parigi e che riprenderà a trivellare in maniera forsennata per preservare gli interessi di patria. Non proprio un bello spot per i tavoli di discussione di Baku. Trump che, tra l’altro, all’ambiente ha designato un comprovato negazionista e sostenitore dei combustibili fossili, Christ Wright, giusto per fare capire a tutti quanto gli stia a cuore l’argomento.

Adesso l’orizzonte è quello della Cop 30 in Brasile. Lì il padrone di casa sarà Ignacio Lula da Silva che ha improntato la sua rielezione a presidente sulla salvaguardia dell’Amazzonia. Per evitare che anche le due settimane di Rio de Janeiro abbiano la consistenza di un pandoro, è indispensabile non ripetere Baku, Dubai, Sharm El Sheik. Alla ventinovesima edizione dell’appuntamento promosso dall’Onu, forse bisogna cambiare – come dire? – il format. Così è la fiera multietnica dell’inutilità, invece c’è bisogno di decarbonizzare, tutelare, coccolare il nostro Pianeta. Che non scoppia di salute. Magari è il caso di modificare approccio, di rovesciare la prospettiva visto che – ormai è conclamato – trovare un’intesa tra quasi 200 nazioni, ciascuna con ricadute diverse, è un esercizio impraticabile.