Ancora braccio di ferro Usa-Cina. Trump al mondo: “Isolare Pechino per dazi più leggeri”

Pechino e Washington continuano il braccio di ferro sui dazi, alimentando l’incertezza sull’esito di una guerra commerciale che potrebbe causare una crisi degli scambi nell’intero pianeta, avverte l’Organizzazione Mondiale del Commercio. Intanto, Donald Trump continua a dettare la linea: secondo quanto rivelato dal Wall Street Journal, il presidente americano sta utilizzando le trattative sui dazi per mettere i partner commerciali al muro: per alleggerire le tariffe, la Casa Bianca chiede di isolare Pechino, limitando i legami economici con i cinesi.

Se gli Stati Uniti vogliono davvero risolvere il problema attraverso il dialogo e la negoziazione, devono smettere di minacciare, ricattare e litigare con la Cina sulla base”, afferma Lin Jian, un portavoce del Ministero degli Affari Esteri cinese. Solo ieri, la portavoce della Casa Bianca Karoline Leavitt aveva affermato che la palla è ora “nel campo di Pechino. Trump “ha chiaramente affermato ancora una volta di essere aperto a un accordo con la Cina. Ma è la Cina che ha bisogno di un accordo con gli Stati Uniti” e non il contrario, ha spiegato alla stampa.

Intanto dal presidente della Federal Reserve, Jerome H. Powell, non arrivano buone notizie per la Casa Bianca: “Nonostante l’aumento dell’incertezza e dei rischi negativi, l’economia statunitense è ancora in una posizione solida“, ma i dati finora disponibili sul Pil “suggeriscono che nel primo trimestre la crescita è rallentata rispetto al solido ritmo dello scorso anno” e “le indagini condotte presso le famiglie e le imprese segnalano un forte calo del sentiment e un’elevata incertezza sulle prospettive, soprattutto a causa delle preoccupazioni legate alla politica commerciale“. Ovvero i dazi che, spiega Powell, potrebbero portare a un aumento dell’inflazione e un rallentamento della crescita.

L’incertezza sul commercio mondiale potrebbe in ogni caso “avere gravi conseguenze negative”, soprattutto per le economie più vulnerabili, commenta il direttore generale dell’Omc, Ngozi Okonjo-Iweala.

La sospensione temporanea dei dazi statunitensi più importanti attenua la contrazione degli scambi, ma il calo del commercio mondiale di merci potrebbe raggiungere fino all’1,5% in volume nel 2025, a seconda della politica protezionistica di Donald Trump, secondo le previsioni annuali dell’OMC.

Ma anche la Banca Mondiale stima che la guerra commerciale lanciata dal presidente degli Stati Uniti sta portando a un aumento “dell’incertezzache causerà un rallentamento della crescita rispetto a quella di qualche mese fa, ha detto il presidente dell’istituzione, Ajay Banga.

Inoltre, il Fitch Ratings ha drasticamente rivisto al ribasso le previsioni sulla crescita mondiale “in risposta alla recente escalation della guerra commerciale globale”. L’aggiornamento speciale del Global Economic Outlook trimestrale riduce la crescita mondiale nel 2025 di 0,4 punti e la crescita di Cina e Stati Uniti di 0,5 punti percentuali rispetto al report di marzo. Si prevede quindi che la crescita mondiale scenderà al di sotto del 2% quest’anno; escludendo la pandemia, questo sarebbe il tasso di crescita globale più debole dal 2009. Entrando nel dettaglio, la crescita annua degli Stati Uniti rimarrà positiva all’1,2% per il 2025, ma rallenterà lentamente nel corso dell’anno, attestandosi ad appena lo 0,4% su base annua nel quarto trimestre del 2025. Si prevede che la crescita della Cina scenderà al di sotto del 4% sia quest’anno che il prossimo, mentre la crescita nell’eurozona rimarrà ben al di sotto dell’1%.

Le nuove frontiere aperte da Donald Trump, che prendono di mira alcuni minerali e oggetti elettronici, pesano sulle borse mondiali, con i titoli tecnologici che soffrono in particolare delle restrizioni sui chip imposte al gigante americano del settore Nvidia.

La Borsa di New York ha aperto in ribasso, con il Dow Jones in calo dello 0,35%, il Nasdaq in calo dell’1,92% e l’indice S&P 500 in calo dell’1,01%. In Europa, nonostante una giornata in rosso, i mercati hanno chiuso per lo più in positivo, Francoforte ha guadagnato lo 0,27%, Londra lo 0,32% e Milano lo 0,62%. Parigi è rimasta in equilibrio (-0,07%). I mercati asiatici hanno invece chiuso in ribasso, come la borsa di Tokyo (-1,01%).

La Cina, che mercoledì ha pubblicato una crescita economica del 5,4% nel primo trimestre del 2025, più forte del previsto, ha inoltre sospeso la ricezione di tutti gli aerei prodotti dalla statunitense Boeing. Una mossa denunciata dal presidente americano, che ha affermato sul suo network Truth Social che la Cina si era ritirata per aerei che erano comunque “coperti da impegni fermi”. Secondo l’agenzia di stampa Bloomberg, Pechino ha anche chiesto alle compagnie aeree del paese “di interrompere qualsiasi acquisto di attrezzature e pezzi di ricambio per aerei da aziende americane”.

La Cina sembra anche determinata a colpire l’agricoltura americana: la federazione degli esportatori di carne americani ha confermato all’Afp che le licenze della maggior parte degli esportatori di carne bovina non sono state rinnovate da metà marzo.

Il presidente cinese Xi Jinping prosegue in Malesia il suo tour nel sud-est asiatico per cercare di organizzare una risposta coordinata ai dazi americani.

Washington ha imposto una tassa del 145% sui prodotti cinesi che entrano nel suo territorio, che si aggiungono a quelli esistenti prima del ritorno di Donald Trump alla Casa Bianca, per un totale che può quindi raggiungere il 245%. Pechino ha risposto con una sovrattassa che ora raggiunge il 125% per i prodotti americani. Il presidente americano ha tuttavia mitigato le minacce, esentando computer, smartphone e altri prodotti elettronici, nonché i semiconduttori, la maggior parte dei quali proviene dalla Cina.

Per tutti gli altri paesi, i dazi reciproci superiori a una soglia minima del 10% sono stati sospesi per 90 giorni, aprendo la porta ai negoziati da parte del presidente americano.

Il presidente americano ha inoltre annunciato che prenderà parte ai negoziati previsti mercoledì a Washington con il ministro inviato dal Giappone, Ryosei Akazawa, per trovare un accordo sui dazi doganali.

Nelle discussioni che si annunciano, l’Unione Europea è “in posizione di forza”, ha assicurato la presidente della Commissione Ue, Ursula von der Leyen, alla rivista tedesca Die Zeit, perché “noi europei sappiamo esattamente cosa vogliamo e quali sono i nostri obiettivi”.

Un altro paese nel mirino di Trump, il Canada, ha fatto una concessione ai costruttori automobilistici: si tratterebbe di lasciar loro importare un certo numero di veicoli fabbricati negli Stati Uniti in cambio del loro impegno a mantenere la produzione in Canada, senza dazi doganali. Ottawa ha imposto dazi del 25% su questi prodotti come rappresaglia per il 25% imposto da Washington sulle automobili consegnate negli Stati Uniti.

Oltre alle automobili, Donald Trump ha anche imposto dazi del 25% su acciaio e alluminio. Potrebbe fare lo stesso con i semiconduttori e i prodotti farmaceutici nelle prossime settimane.

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Dazi, Trump non cede: “Presto anche su farmaci e semiconduttori”. Missione di Xi in Vietnam

Photo credit: AFP

Incoraggiati dall’annuncio di Washington di esenzioni per i prodotti ad alta tecnologia, i mercati finanziari hanno registrato andamenti positivi, nonostante Donald Trump abbia continuato a esercitare pressioni sui partner commerciali degli Stati Uniti, primo fra tutti la Cina. Il presidente americano ha avvertito che nessun Paese è “fuori pericolo” di fronte alla sua offensiva doganale, “soprattutto non la Cina che, di gran lunga, ci tratta peggio”, ha tuonato sul suo social network Truth. L’avvertimento arriva all’indomani dell’esenzione dai dazi – fino al 145% per la Cina – concessa dalle autorità statunitensi su prodotti high-tech, in primis smartphone e computer, e sui semiconduttori. Il leader americano dichiara però che annuncerà “entro la settimana” nuove sovrattasse sui semiconduttori che entrano negli Stati Uniti, che “saranno in vigore in un futuro non troppo lontano”. Stesso discorso per i prodotti farmaceutici: “Andremo a produrre i nostri farmaci e le nostre industrie farmaceutiche dovranno battere posti come la Cina”. Per questo “io ho una timeline, in un futuro non troppo distante”, ha confermato parlando ai giornalisti durante un bilaterale alla Casa Bianca con l’omologo di El Salvador, Nayib Bukele.  Per quanto riguarda gli smartphone e gli altri dispositivi elettronici, “saranno annunciati molto presto, ne discuteremo, ma parleremo anche con le aziende”, ha aggiunto il leader, senza entrare nei dettagli, a bordo dell’Air Force One. “Sai, bisogna mostrare una certa flessibilità” per “certi prodotti”, ha aggiunto. In precedenza, il suo segretario al Commercio, Howard Lutnick, aveva accennato alle imminenti tariffe settoriali sui semiconduttori, “probabilmente tra un mese o due”, nonché sui prodotti farmaceutici. “Non possiamo contare sulla Cina per i beni fondamentali di cui abbiamo bisogno. I nostri medicinali e semiconduttori devono essere prodotti in America”, ha dichiarato Lutnick in un’intervista ad ABC. Annunci americani in contrasto con quanto richiesto dalla Cina, in un momento in cui il conflitto commerciale innescato dagli Stati Uniti sta facendo impazzire i mercati finanziari, con azioni che vanno su e giù come montagne russe, prezzi dell’oro ai massimi e il mercato del debito americano sotto pressione. Se il Ministero del Commercio cinese ha riconosciuto il “piccolo passo” fatto da Washington con la sua posizione ammorbidita sui prodotti high-tech, “esortiamo gli Stati Uniti a fare un grande passo per correggere i loro errori, annullare completamente la cattiva pratica dei dazi reciproci e tornare sulla retta via del rispetto reciproco”, ha dichiarato domenica un portavoce in un comunicato. Il protezionismo “non porta da nessuna parte”, ripete il presidente cinese Xi Jinping, in un discorso riportato lunedì dall’agenzia ufficiale China News. “I nostri due Paesi devono salvaguardare fermamente il sistema commerciale multilaterale, la stabilità delle catene industriali e di approvvigionamento globali e un ambiente internazionale di apertura e cooperazione”, ha sottolineato il leader, che lunedì ha iniziato una visita in Vietnam, prima di dirigersi in Malesia e Cambogia, per rafforzare le relazioni commerciali del suo Paese. Durante un colloquio con il leader vietnamita To Lam il presidente cinese ha invitato il Vietnam ad unirsi alla Cina per “opporsi congiuntamente alle prepotenze”. “Dobbiamo rafforzare le nostre relazioni strategiche, opporci congiuntamente alle intimidazioni e mantenere la stabilità del sistema globale di libero scambio, nonché delle catene industriali e di approvvigionamento”, ha detto Xi . In questo contesto di tensione, l’Organizzazione dei Paesi Esportatori di Petrolio (OPEC) ha leggermente rivisto al ribasso le sue previsioni di crescita della domanda di petrolio per il 2025, citando in particolare i dazi doganali statunitensi, secondo il suo rapporto mensile pubblicato lunedì. Pur continuando a colpire la Cina nel corso della settimana, il miliardario newyorkese sembra aver concesso un po’ di tregua agli altri partner commerciali degli Stati Uniti, esentandoli mercoledì per 90 giorni dalle tasse doganali annunciate poco prima e aggiungendo loro solo il 10% di dazi doganali. In una prima critica all’offensiva doganale di Donald Trump, il giorno prima, Pechino si era posta a difesa dei paesi poveri rendendo pubblico un appello con il direttore generale dell’Organizzazione mondiale del commercio (OMC) Ngozi Okonjo-Iweala, durante il quale la Cina aveva messo in guardia contro “i gravi danni” che questi dazi avrebbero causato ai paesi in via di sviluppo, “in particolare a quelli meno sviluppati”. Secondo il ministro del Commercio cinese Wang Wentao, “potrebbero persino scatenare una crisi umanitaria”. Nonostante queste forti tensioni commerciali tra le due principali potenze economiche mondiali, venerdì Trump ha dichiarato di essere “ottimista” su un accordo commerciale con Pechino. Secondo i dati di Pechino, gli Stati Uniti assorbono il 16,4% delle esportazioni cinesi totali, per un totale di scambi di 500 miliardi di dollari, con un ampio deficit per gli Stati Uniti.

Trump torna indietro: pausa 90 giorni per tariffe reciproche. Solo a Cina dazi al 125%

Come ha abituato il mondo, con una giravolta improvvisa il presidente americano Donald Trump ha bloccato tutti i dazi ‘reciproci’ in vigore da sabato scorso “per 90 giorni”. Per tutti i Paesi che “gli hanno chiesto un negoziato“. Tranne per la Cina, contro cui le nuove tariffe saliranno al 125% “con effetto immediato”. In una giornata che aveva sancito l’avvio di una guerra commerciale globale, con l’entrata in vigore dei nuovi dazi imposti dagli Stati Uniti su prodotti provenienti da decine di Paesi, la massiccia risposta della Cina, e una contromossa più sofisticata dell’Europa. E soprattutto, con i mercati globali in forte sofferenza.

Lo stesso Trump aveva invitato a “mantenere la calma” esortando i cittadini ad approfittare del calo del mercato azionario per “acquistare”. Di fronte al panico dei mercati azionari,  il presidente aveva promesso infatti “accordi su misura, non prêt-à-porter, ma alta moda”, prima di tutto con i partner militari dell’America, in testa Giappone e Corea del Sud. Durante una cena con i capi del Partito Repubblicano, il miliardario conservatore si è congratulato con decine di Stati – inclusa la Cina – perché stanno facendo “di tutto” per trovare un accordo con Washington. Poi la frase choc: “Questi Paesi – ha detto dal palco – mi stanno chiamando per baciarmi il culo. Muoiono dalla voglia di fare un accordo, mi dicono ‘per favore, per favore, faremo qualsiasi cosa”, ha aggiunto. Da questa notte alle 4:01 GMT (le 6:01 ora italiana) infatti sono entrati in vigore i nuovi dazi Usa nei confronti di quasi 60 Paesi. Le tariffe aggiuntive vanno dall’11% al 50%, ad eccezione della Cina, i cui prodotti sono ora tassati al 104%. Le nuove imposte hanno fatto precipitare le borse asiatiche. Trump, nonostante le critiche provenienti anche dai suoi più stretti alleati come Elon Musk, sostiene di aver trovato la ricetta per ridurre il deficit commerciale, risanare le finanze pubbliche e delocalizzare molte attività industriali. Ma non ha considerato la reazione da parte di Pechino che ha annunciato un nuovo aumento dei dazi ‘di ritorsione’ sui prodotti americani all’84%, anziché al 34% inizialmente previsto, a partire da giovedì alle 12:01 ora cinese (06:01). “Continueremo ad adottare misure ferme e rigorose per salvaguardare i nostri legittimi diritti e interessi“, ha avvertito un portavoce del Ministero degli Esteri cinese. E in un’escalation anche diplomatica, non solo commerciale, la Cina ha esortato i suoi cittadini a prestare attenzione ai potenziali rischi di un viaggio turistico negli Stati Uniti. In serata il colpo di scena: “Considerando che oltre 75 Paesi hanno convocato rappresentanti degli Stati Uniti per negoziare una soluzione” “autorizzo una pausa di 90 giorni e una tariffa doganale reciproca sostanzialmente ridotta del 10% durante questo periodo, anch’essa con effetto immediato”. Tranne per la Cina, ovviamente. “Considerata la mancanza di rispetto dimostrata dalla Cina nei confronti dei mercati mondiali, aumento la tariffa doganale applicata alla Cina dagli Stati Uniti d’America al 125%, con effetto immediato” Colpita da metà marzo dai dazi doganali statunitensi del 25% su acciaio e alluminio e, da mercoledì, da una tassa del 20% su tutti i suoi prodotti, anche l’Unione Europea oggi ha approvato le sue prime contromisure contro oltre 20 miliardi di euro di beni “made in USA”. L’elenco, che è stato aggiornato nelle ultime settimane, comprende prodotti agricoli come la soia, il pollame e il riso e prevede inoltre accise fino al 25% su legno, motociclette, prodotti in plastica e apparecchiature elettriche, a partire del 15 aprile. Ulteriori misure europee potrebbero essere rivelate la prossima settimana. Tuttavia, Bruxelles ha affermato di essere pronta a sospendere i dazi doganali “in qualsiasi momento” nel caso in cui si raggiunga un accordo “equo ed equilibrato” con Washington. Il timore di un ciclo infinito di ritorsioni sta già spingendo alcune banche centrali a cercare di salvare la situazione. La Nuova Zelanda ha tagliato i tassi di interesse di 25 punti base, portandoli al 3,5%. La banca centrale indiana ha abbassato i tassi di interesse al 6%.

Oggi è il giorno dei dazi di Trump, l’annuncio alle 22. L’Ue si prepara a “risposta forte”

E’ il giorno dei dazi commerciali del 25%, che saranno formalmente annunciati dal presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, questa sera alle 22. Le imposte riguarderanno alcuni beni Made in Europe importati nell’altra sponda dell’Atlantico. Per ora, acciaio, alluminio, automobili e componenti per auto, ma Bruxelles si aspetta che anche i semiconduttori, i prodotti farmaceutici e il legname finiscano sotto la scure del tycoon. Che, quasi ad aggiungere la beffa al danno, ha affermato: “Saremo molto gentili“, promettendo una “rinascita” dell’America e definendo, ancora una volta, il 2 aprile come “il giorno della liberazione” per gli Usa.

Intanto, però, nel Vecchio Continente, l’Unione europea non sembra vedere segnali di gentilezza dall’alleato storico e prova, piuttosto, a prepararsi a rispondere ai colpi. “Pensiamo che questo confronto non sia nell’interesse di nessuno“, ha detto la presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, nell’aula plenaria dell’Eurocamera a Strasburgo. “Staremmo tutti meglio se potessimo trovare una soluzione costruttiva”, ma “allo stesso tempo, devo essere chiara: l’Europa non ha iniziato questo confronto. Non vogliamo necessariamente reagire, ma abbiamo un piano forte per farlo se necessario“, ha scandito. La risposta Ue si affila su tre pilastri: il negoziato con Washington, l’apertura ad accordi commerciali con altri Paesi, il potenziamento del Mercato unico. “Affronteremo questi negoziati da una posizione di forza – dal commercio alla tecnologia alle dimensioni del nostro mercato -, ma questa forza si basa anche sulla nostra prontezza ad adottare contromisure ferme, se necessarie. Tutti gli strumenti sono sul tavolo“, ha precisato la presidente.

E a tal proposito, nel dibattito, ha alzato il tiro il tedesco Manfred Weber, capo del Partito popolare europeo (Ppe) – famiglia politica di cui von der Leyen fa parte – sottolineando che se l’Ue ha “un surplus sui prodotti”, “gli Usa ne hanno uno sui servizi digitali” e “quindi se Trump si concentra sui beni europei, noi dobbiamo concentrarci sui servizi americani” dato che “i giganti digitali pagano poco alla nostra infrastruttura digitale, da cui traggono così tanto vantaggio“.

Bruxelles sa anche, come le ha insegnato la crisi energetica scatenata dalla guerra di aggressione della Russia all’Ucraina, che è preferibile guardarsi attorno e non fermarsi a una sola relazione economica. “Continueremo a diversificare il nostro commercio con altri partner“, ha specificato von der Leyen. “L’Europa ha già accordi commerciali in essere con 76 Paesi. E ora stiamo ampliando questa rete”, ha affermato citando quelli con Mercosur, Messico e Svizzera, la prima Clean Trade and Investment Partnership con il Sudafrica, l’obiettivo di chiudere con l’India entro l’anno e l’impegno in trattative con Indonesia e Thailandia. E, infine, “raddoppieremo gli sforzi sul nostro Mercato unico” perché “ci sono troppi ostacoli che bloccano le nostre imprese” e l’ex premier italiano “Mario Draghi ha ragione quando dice: ‘Le alte barriere interne sono molto più dannose per la crescita di qualsiasi tariffa’”. L’Unione cerca ancora un dialogo con gli Usa per una “soluzione negoziata” e si prepara a rispondere. Così come altri Paesi hanno già annunciato di fare. “Non ha iniziato l’Europa questo confronto”, ha ripetuto due volte von der Leyen. E forse anche un altro elemento inizia a essere più sentito: il pianeta è grande. “La crescita arriva dal Mercato Unico, ma anche dagli accordi commerciali. Dunque finalizziamoli”, ha ricordato Weber. “Quello con il Mercosur sta diventando un simbolo della nostra preparazione ad impegnarci con il resto del mondo”, “sta diventando un accordo anti-Trump”, ha sottolineato.

JOHN ELKANN

Colloquio Elkann-Trump alla Casa Bianca: focus su competitività in Usa

Oltre 75mila dipendenti per un fatturato annuo di 63,5 miliardi di euro e consegne pari a circa 1,4 milioni di veicoli. Il mondo Stellantis negli Usa è una fetta importante delle attività del gruppo e, in futuro, potrebbe esserlo ancora di più. Il presidente John Elkann ha incontrato, infatti, Donald Trump alla Casa Bianca e, come riportato dai media Usa e confermato da fonti del gruppo, il presidente degli Stati Uniti ha annunciato di voler ripristinare standard meno rigidi sulle emissioni delle auto. Una visione, quella del repubblicano, distante dagli obiettivi dell’Unione europea che, pur concedendo una flessibilità – si passa da uno a tre anni nella valutazione della conformità – obbligherà i costruttori ad adeguarsi a rigide norme per ridurre l’impronta di CO2. In caso contrario, le multe saranno decisamente salate. Norme, aveva spiegato pochi giorni fa il presidente Stellantis, “dure e contradditorie”, intorno alle quali “stiamo discutendo approfonditamente con la Commissione europea per capire quale sarà la direzione da seguire per quanto riguarda il 2035 e oltre”.

Elkann ha partecipato all’incontro con Trump in qualità di responsabile di uno dei maggiori produttori automobilistici degli Usa, con l’obiettivo di proseguire il dialogo con il presidente e la sua amministrazione in questo momento cruciale per il futuro dell’industria automobilistica statunitense. Secondo quanto si apprende, tra i temi dell’incontro ci sarebbe stato anche quello relativo alla competitività del sistema automotive nordamericano, su cui Elkann si era espresso la scorsa settimana in una call con gli analisti, oltre all’accessibilità economica dei prodotti fabbricati negli Stati Uniti e per le implicazioni sulla domanda. Il presidente di Stellantis avrebbe ribadito la necessità di una maggiore chiarezza. La stessa che chiedono tutti i produttori di auto, soprattutto in vista dei dazi del 25% su tutti i veicoli non prodotti negli Stati Uniti a partire dal 3 aprile. “In termini di tariffe – aveva detto Elkann nel nel corso della presentazione dei risultati finanziari del 2024 – abbiamo sostenuto con forza la politica del presidente Trump di rilanciare la produzione americana e abbiamo annunciato ingenti investimenti statunitensi nelle prime 100 ore della sua nuova amministrazione”. Il colloquio Elkann-Trump, infatti, non è il primo tra i due da quando il tycoon si è insediato alla Casa Bianca. Poco prima della cerimonia, il presidente di Stellantis aveva incontrato il repubblicano e diversi funzionari dell’amministrazione Usa.

Trump: “Per pace nel mondo, Groenlandia deve andare agli Usa”. Vance sull’isola

Donald Trump non arretra sulla Groenlandia e rilancia: “E’ molto importante, per la sicurezza internazionale. Ne sbbiamo bisogno non per la pace per gli Stati Uniti, ma per la pace nel mondo”. Intanto il suo vice JD Vance è atterrato sull’isola per visitare l’unica base militare americana nel territorio, a Pituffik, un viaggio vissuto come una provocazione in Danimarca. “Il presidente è davvero interessato alla sicurezza dell’Artico, come tutti sapete, e questo argomento diventerà sempre più importante nei prossimi decenni”, commenta al suo arrivo.

Di fronte alla persistente bramosia degli americani, danesi e groenlandesi, sostenuti dall’Unione Europea, inaspriscono i toni. La prima ministra danese Mette Frederiksen denuncia “l’inaccettabile pressione” esercitata dagli Stati Uniti dopo l’annuncio, all’inizio della settimana, dell’arrivo senza invito di una delegazione statunitense che alla fine ha rivisto i suoi piani. “Venire in visita quando non c’è un governo in carica non è considerato un segno di rispetto verso un alleato”, afferma il primo ministro della Groenlandia Jens Frederik Nielsen. Nielsen presenta anche il nuovo governo di coalizione della Groenlandia, costituito per “far fronte alle forti pressioni esterne”. All’inizio di febbraio, il Segretario di Stato americano per l’America del Nord, John F. Kelly, aveva dichiarato che “la Danimarca non sta facendo il suo lavoro in Groenlandia e non è un buon alleato”. La signora Frederiksen ha prontamente replicato che la Danimarca è da tempo un fedele alleato degli Stati Uniti, combattendo al loro fianco “da molti decenni”, anche in Iraq e in Afghanistan.

La base americana di Pituffik costituisce un avamposto della difesa missilistica americana, in particolare contro la Russia, poiché la traiettoria più breve dei missili provenienti dalla Russia verso gli Stati Uniti passa attraverso la Groenlandia. Pituffik, che fino al 2023 si chiamava Thule Air Base, è servita da postazione di allerta contro eventuali attacchi dell’URSS durante il periodo della guerra fredda e rimane un anello essenziale dello scudo antimissile americano. È anche un luogo strategico per la sorveglianza dell’emisfero settentrionale e la difesa dell’immensa isola artica, che, secondo l’amministrazione americana, i danesi hanno trascurato. In questo contesto, il presidente russo Vladimir Putin ha giudicato “serio” il progetto di Donald Trump di assumere il controllo della Groenlandia e ha affermato di essere preoccupato che l’Artico si trasformi in “un trampolino di lancio per eventuali conflitti”. Secondo Marc Jacobsen, docente presso il Royal Danish Defence College, JD Vance “ha ragione nel dire che (la Danimarca) non ha risposto ai desideri americani di una maggiore presenza, ma abbiamo adottato misure per soddisfare questo desiderio”. A gennaio, Copenaghen ha annunciato che avrebbe stanziato quasi due miliardi di euro per rafforzare la sua presenza nell’Artico e nel Nord Atlantico. La brama di Trump per il territorio di ghiaccio, che affascina per le sue ipotetiche risorse minerarie e fossili e la sua importanza geostrategica, è vista come un deterrente per i suoi abitanti e la sua classe politica, così come per la potenza tutelare danese. Gli Stati Uniti “sanno che la Groenlandia non è in vendita. Sanno che la Groenlandia non vuole far parte degli Stati Uniti. Questo è stato loro comunicato in modo inequivocabile, sia direttamente che pubblicamente”, ha ribadito mercoledì Mette Frederiksen. Venerdì, re Frederik X di Danimarca ha rilasciato una dichiarazione rara, ricordando il suo attaccamento al territorio. “Non ci devono essere dubbi sul mio amore per la Groenlandia, e il mio legame con il popolo groenlandese è intatto“, ha detto a TV2.

Se i principali partiti groenlandesi sono favorevoli all’indipendenza del territorio a più o meno lungo termine, nessuno sostiene l’idea di un’annessione agli Stati Uniti. Secondo un sondaggio pubblicato alla fine di gennaio, anche la popolazione, in maggioranza Inuit, rifiuta ogni prospettiva di diventare americana. Il governo uscente ha ricordato di non aver “inviato alcun invito per visite, sia private che ufficiali”. Il viaggio lampo del figlio del presidente americano, Donald Trump Jr, il 7 gennaio, era già stato vissuto come una provocazione.

Meloni si schiera: su critiche a Ue ha ragione Vance. E Salvini vara missione in Usa

In uno dei momenti più tesi tra le due sponde dell’Atlantico, Giorgia Meloni rilascia la sua prima intervista a una testata straniera, il Financial Times, e si schiera. Non apertamente, ma confessa di condividere l’attacco del vicepresidente degli Stati Uniti JD Vance all’Unione, per aver abbandonato il suo impegno a favore della libertà di parola e della democrazia: “Lo dico da anni, l’Europa si è un po’ persa“, commenta.

Torna a difendere, tra gli ultimi in Ue, Donald Trump. Le critiche del tycoon al vecchio continente non sono rivolte al popolo, spiega, ma alla sua “classe dirigente e all’idea che invece di leggere la realtà e trovare il modo di dare risposte alle persone, si possa imporre la propria ideologia alle persone“. L’Italia, per la presidente del Consiglio, non deve essere obbligata a “scegliere” tra Stati Uniti ed Europa, sarebbe “infantile” e “superficiale“. Non solo Trump non è un avversario, chiosa, ma è il “primo alleato” dell’Italia.

Mentre la Commissione europea si prepara a reagire ai dazi imposti dal presidente americano, Meloni invita l’unione alla calma. “A volte ho l’impressione che rispondiamo semplicemente d’istinto. Su questi argomenti devi dire, ‘State calmi, ragazzi. Pensiamoci’“, spiega, ricordando che “ci sono grandi differenze sui singoli beni” e chiedendo di “lavorare per trovare una buona soluzione comune“.

Tra Trump che lavora per la pace e l’asse Macron-Von der Leyen che parlano di guerra e armi, non abbiamo dubbi da che parte stare“, le fa eco Matteo Salvini, che torna però a ‘scavalcare’ presidente del Consiglio e ministro degli Esteri, annunciando una missione con le imprese italiane per rafforzare la partnership con gli Stati Uniti, “come da dialogo con J.D. Vance“, che gli è già costato un round di scontri con Antonio Tajani.

Il chiarimento tra i tre, Meloni-Tajani e Salvini, si è rotto dopo 48 ore”, osserva il leader di Avs, Angelo Bonelli: “Salvini scommette sull’esenzione dai dazi per l’Italia da parte di Trump e su questo vuole arrivare prima della Meloni per commissariare Tajani“, afferma, denunciando di aver “venduto la dignità del popolo italiano e quindi europeo a chi ci ha definiti parassiti. È un governo in cui ognuno va per conto proprio“.

Per il Partito democratico, la presidente del Consiglio ha la “sindrome di Stoccolma“: “Sembra prigioniera, incapace di distinguere tra chi attacca e chi si difende”, scrive il capogruppo democratico nella commissione Bilancio della Camera, Ubaldo Pagano. “Ha scelto di indossare il cappellino Maga, ammainando di fatto da palazzo Chigi la bandiera italiana e quella europea“, denuncia la segretaria Elly Schlein. E’ agli italiani, sostiene Schlein, che Giorgia Meloni “dovrà spiegare perché ha scelto Trump come ‘primo alleato’, quando il prossimo 2 aprile entreranno in vigore i dazi Usa del 25% sulle nostre merci, sulle nostre eccellenze, che pagheranno le imprese, i lavoratori e le famiglie italiane. Giorgia Meloni vada dire a loro ‘state calmi, ragazzi, ragioniamoci‘”.

Meloni “doveva e poteva diventare la Merkel europea, trasformandosi in leader conservatrice moderna, ma rompe con l’Europa sul tema fondamentale della difesa europea e si ritrova ad essere una modesta Orban al femminile“, scrive sui social il vicepresidente di Italia Viva Enrico Borghi. A questo punto, insiste, “va detto con chiarezza che l’Italia non può sottrarsi da una iniziativa europea nel campo della sicurezza, della pace e della stabilità internazionale“.

Tajani lancia Piano di contrasto ai dazi: nuovi mercati senza abbandonare dialogo con Usa

Una strategia per l’export italiano che compensi gli eventuali contraccolpi generati dai dazi annunciati a partire dal 2 aprile da Donald Trump, ma senza abbandonare il dialogo con gli Stati Uniti.  Il governo italiano punta ai mercati extra-UE ad alto potenziale, con un Piano d’azione presentato oggi a Villa Madama dal ministro degli Esteri Antonio Tajani.

L’obiettivo è arrivare a 700 miliardi di export entro fine legislatura, partendo dai 623,5 miliardi attuali, puntando su mercati emergenti come Arabia Saudita, Turchia, Emirati Arabi Uniti, Mercosur (specialmente Messico e Brasile), Balcani occidentali, Africa e Paesi Asean (su tutti Thailandia, Indonesia e Vietnam).

Il Piano, che prevede missioni economiche e business forum costruiti su dossier-paese che individuano settori e opportunità concrete, è frutto del lavoro congiunto del Maeci con le agenzie del Sistema Italia (ICE, SACE, Simest, Cassa Depositi e Prestiti). I mercati emergenti, in fondo, già oggi coprono il 49% del nostro export globale, ma si può fare ancora di più nonostante l’Italia sia considerata già oggi una potenza mondiale dell’export e vanti numeri record: sesto esportatore mondiale e Paese con la maggiore varietà merceologica, seconda economia al mondo e prima in Europa per diversificazione di beni esportati, un settore che da solo vale il 40% del nostro Pil.

Questo però non vuol dire che si debba abbandonare il dialogo con gli Stati Uniti, su cui Tajani è chiaro: “Il Piano prevede la presenza dell’Italia nei mercati in crescita, è una grande opportunità a tutela delle imprese italiane e delle loro esportazioni che rappresentano il 40% del nostro Pil”. Tuttavia “sarebbe un errore non parlare con gli Stati Uniti”, su cui rimane il grosso punto interrogativo dei dazi, minacciati ma non ancora ufficializzati. Gli Usa in fondo valgono il 10% del nostro commercio estero, il ministro vuole quindi evitare una escalation commerciale: “La guerra dei dazi non conviene a nessuno, né a noi né agli Stati Uniti”. E ancora: “L’Europa deve fare tutto ciò che è in suo potere per facilitare il colloquio con gli Usa, dividersi sarebbe esiziale per l’Occidente”. Per questo si congratula col commissario UE al Commercio, Marcos Sefcovic, per la linea della prudenza assunta negli ultimi giorni nei confronti di Washington: “Ieri ho avuto un lungo colloquio con lui, saggiamente ha deciso di rinviare di due settimane eventuali contromisure. Questo ci consente di proseguire un dialogo con gli Usa. A livello diplomatico faremo tutto ciò che è possibile”. Di contro, la Farnesina vede Oltreoceano anche la possibilità di rafforzare il nostro export: “Investire di più e importare di più dagli Usa – sostiene Tajani – può rappresentare uno scudo efficace per continuare a esportare verso un mercato che oggi vede l’Italia in posizione vantaggiosa nella bilancia commerciale”. Al tempo stesso Tajani ha annunciato anche una riforma del proprio dicastero che presenterà prossimamente nel Consiglio dei ministri: “Una struttura a due teste, una politica e una economica, dedicate alla crescita”. E dunque alle esportazioni.

Meloni cambia cliché: meno passionaria e più ‘istituzionale’ per mettere insieme Ue e Trump

Nel suo passaggio al Senato dopo due mesi e rotti di silenzio, in attesa di presentarsi alla Camera, Giorgia Meloni ha in qualche modo cambiato il suo cliché. Non ha usato toni perentori, non ha quasi mai alzato la voce, è stata molto dialogante, si è prodigata per far capire “ai colleghi” che sbarcherà a Bruxelles per trovare un punto di caduta che non trasformi gli Stati Uniti in nemici e non riduca l’Europa a una comparsa. Il feeling con Trump e i buoni rapporti con von der Leyen, lei nel mezzo la ‘semplificatrice’ di una situazione complessa e delicassima.

Insomma, una premier assolutamente ‘istituzionale’, che non ha parlato solo di Ucraina (Non è immaginabile costruire garanzie di sicurezza efficaci e durature dividendo l’Europa e gli Usa. E’ giusto che l’Europa si attrezzi per svolgere la propria parte, ma è folle pensare che oggi possa fare da sola senza la Nato”) e di Difesa (L’Italia non intende distogliere un solo euro dal fondo di Coesione, spero che almeno su questo saremo tutti d’accordo) ma ha cominciato dalla competitività (“Non è una parola astratta”) per lanciarsi sulla desertificazione industriale, per planare successivamente sulla decarbonizzazione (che deve essere sostenibile per imprese e cittadini), per sfiorare il costo fuori controllo dell’energia elettrica fino ad atterrare sui dazi (ai quali non bisogna rispondere con altri dazi, serve reciproco rispetto) e sull’Europa che a rischio di regole e regolamenti rischia di non farcela. Argomenti prevedibili, così come i contenuti.

Meloni ha espresso le posizioni del suo governo mentre Ursula von der Leyen raccontava in Danimarca come la sua Ue debba attrezzarsi per non finire schiacciata stile sandwich da Stati Uniti e Russia e poco dopo che Mario Draghi, sempre in Senato, aveva toccato gli stessi temi con l’autorevolezza che lo accompagnala. In sintesi, l’ex presidente del Consiglio ha detto che la Difesa comune è un passaggio obbligato, che gli 800 miliardi previsti per riarmare l’Europa non basteranno, che il Rapporto sulla competitività non è obsoleto e va attuato con urgenza, che la questione energetica è prioritaria, dal disaccoppiamento di gas fino al costo delle bollette. In fondo, si finisce per andare sbattere sempre lì e da lì bisogna trovare la migliore via d’uscita.

La premier non ha cercato una sponda in Senato, questo no, ma è stata abbastanza accondiscendente quando ha sostenuto che l’etichetta di Rearm al piano di von der Leyen è inaccettabile e dunque va cambiata perché è necessaria la Difesa comune ma “senza tagliare sanità e sociale”. Un refrain già sentito su un’altra sponda.

Trump minaccia l’Europa: “Dazi del 200% su alcolici e vino”. Ue: “Al via negoziati”

“Siamo stati derubati per anni e ora smetteremo di esserlo. No, non mi piegherò affatto, né sull’alluminio, né sull’acciaio, né sulle auto”. E, forse, nemmeno sul vino e sui superalcolici europei. Il presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, annuncia che sui dazi non farà marcia indietro e torna a minacciare il Vecchio Continente, all’indomani dell’entrata in vigore delle imposte del 25% su acciaio e alluminio, a cui l’Ue ha risposto con ulteriori tasse su alcuni prodotti statunitensi. Insomma, giorno dopo giorno l’asticella è sempre più alta.

L’ultima minaccia, in ordine di tempo, è relativa a una tariffa del 200% “su tutti i vini, champagne, e prodotti alcolici in produzione in Francia e in altri Paesi dell’Ue”, ha annunciato Trump. La ‘colpa’ dell’Europa – “una delle autorità fiscali e tariffarie più ostili e abusive al mondo” – è quella di aver introdotto una tassa “sgradevole” del 50% sul whisky Usa. Un’imposta che, “se non verrà rimossa immediatamente” farà scattare la rappresaglia statunitense.

“Non cederemo alle minacce e proteggeremo sempre le nostre industrie”, ha affermato il ministro del Commercio estero francese, Laurent Saint-Martin, deplorando la “prepotenza” di Trump nella “guerra commerciale che ha scelto di scatenare”.

E da Città del Capo, in Sudafrica, dove si trova in visita istituzionale, è arrivata la replica della presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen. “Non ci piacciono i dazi – ha detto – perché pensiamo che siano tasse e che siano un male per gli affari e per i consumatori. Abbiamo sempre detto che allo stesso tempo difenderemo i nostri interessi, lo abbiamo stabilito e dimostrato. Ma allo stesso tempo voglio anche sottolineare che siamo aperti ai negoziati”. Venerdì, infatti, il commissario per il Commercio, Maroš Šefčovič, “avrà una telefonata” con la sua controparte negli Stati Uniti “esattamente su questo tema”.

Intanto, lato italiano, una delegazione tecnica, in stretto collegamento con la Commissione europea, è al lavoro a Washington sul tema dei dazi. Il 21 marzo, ha ricordato il vicepremier Antonio Tajani “presenteremo a Roma le idee del governo per sostenere le imprese sul piano del commercio internazionale, visto che siamo la quarta potenza commerciale mondiale”. Per tutte le associazioni di categoria, i dazi al 200% su vino e alcolici metterebbero a rischio un export del settore pari a quasi 2 miliardi – circa 4,9 miliardi in Europa – ma l’invito è alla prudenza. Confagricoltura auspica che la mossa di Trump sia “una provocazione”, mentre per Cia-Agricoltori Italiani si rischia “un salto nel buio”.

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