Trilaterale Italia-Francia-Germania, Urso: “Passare a un’economia Ue dei produttori”

Sostegno mirato alle imprese, soprattutto Pmi, meno burocrazia e più competitività per non perdere la sfida con Cina e Usa. Dalla nuova riunione trilaterale Italia-Francia-Germania si delinea in maniera ancora più definita l’idea di politica industriale per l’Europa post elezioni. A Parigi i tre ministri che nei rispettivi governi gestiscono la delega rinforzano la partnership e concordano sulla necessità di andare avanti con la doppia transizione, ecologica e digitale, seppur con meno vincoli rispetto al Green Deal originario, e sulla “necessità di un’azione urgente per sbloccare il potenziale tecnologico e innovativo delle imprese europee“. Noi “non vorremo che l’Europa, da continente della tecnologia e dello sviluppo diventasse un museo all’aria aperta“, spiega il ministro delle Imprese e del Made in Italy, Adolfo Urso, al termine dell’incontro. Sottolineando che occorre “passare da un’economia dei consumatori a un’economia dei produttori“, perché “in questi anni abbiamo sviluppato e incentivato i consumi e questo è andato sempre più questo a beneficio dei prodotti e delle imprese di altri continenti, che non rispondono alle nostre stesse regole in termini di standard ambientali e sociali, quindi spesso anche attraverso concorrenza sleale“.

Ben venga, dunque, anche la proposta del ministro dell’Economia, delle Finanze e della Sovranità industriale e digitale della Francia, Bruno Le Maire: una sorta di ‘preferenza’ alle imprese continentali negli appalti Ue. Anche se non è l’unica soluzione che incontra il favore dell’Italia: “Abbiamo detto con chiarezza ai nostri colleghi che condividiamo tutte quelle misure che possono consentire di passare dall’Europa dei consumatori all’Europa dei produttori. Quindi, a una politica industriale che tuteli, rafforzi e rilanci il sistema delle imprese europee“, spiega ancora Urso. Aggiungendo che “questo lo si può fare con misure come quella proposta da Le Maire, ma anche con il nuovo focus della Commissione Ue per accertare se c’è concorrenza sleale e dumping nella vendita di macchine elettriche cinesi” o “con i criteri di qualità, come stiamo facendo noi in Italia, sugli incentivi pubblici per realizzare impianti fotovoltaici ai fini dell’autoconsumo”. Dunque, “da questo punto di vista il governo è neutrale sugli strumenti da utilizzare, ma ben consapevole di quale sia la rotta da determinare per il continente europeo“.

Il ministro federale tedesco dell’economia e dell’azione per il clima, Robert Habeck, parla di “tecnologie innovative, come le biotecnologie e le tecnologie verdi nell’industria eolica, solare e di trasformazione, che sono fondamentali per la crescita economica. La neutralità climatica e la nostra sovranità tecnologica nel prossimo futuro e necessitano quindi di un ambiente favorevole agli investimenti – sottolinea -. Il nostro scambio ha anche sottolineato la necessità di maggiori sinergie europee nelle nostre industrie della difesa, che a mio avviso è fondamentale“.

Tra le soluzioni studiate al vertice di Parigi c’è quella sulla semplificazione e accelerazione delle autorizzazioni e l’accesso ai programmi di finanziamento europei e agli aiuti di Stato, in particolare per le pmi, eliminando le sovrapposizioni normative e riducendo gli obblighi di rendicontazione “ben oltre l’obiettivo della Commissione Ue del 25%. O ancora “incrementare gli investimenti pubblici e privati per rafforzare l’innovazione, la produttività e la competitività” e portare a compimento, con successo, la doppia transizione. Con un “sostegno mirato alle imprese dei settori industriali più strategici“. In questo senso, dunque, vanno rafforzati i finanziamenti dell’Ue per i beni pubblici europei e le infrastrutture e coinvolgendo maggiormente la Banca europea per gli investimenti. Ma serve anche un “ampio mix di nuove risorse proprie“, con un’Unione europea capace di “finanziare progetti tecnologici di innovazione, in particolare per le tecnologie pulite e net zero, l’intelligenza artificiale dai chip alla capacità di calcolo e ai modelli di grandi dimensioni, i semiconduttori e la cybersicurezza“.

Altro punto rilevante, messo nero su bianco nella dichiarazione congiunta finale, riguarda la necessità di “applicare meglio, approfondire e rafforzare il mercato unico per sfruttare appieno i vantaggi dell’integrazione economica europea, garantendo regole comuni e una forte supervisione, nonché l’applicazione delle norme, in particolare per i prodotti importati“. L’obiettivo, infatti, è “garantire una concorrenza efficace nel mercato unico e affrontare adeguatamente i problemi strutturali della concorrenza nel contesto globale, in particolare nei settori che hanno una dimensione internazionale e sono di grande importanza per l’economia generale dell’Ue“. Urso, Le Maire e Habeck, infine, auspicano “un controllo efficace delle fusioni che impedisca le ‘acquisizioni killer’ con certezza giuridica e chiedono un’attuazione e un monitoraggio approfonditi della legge sui mercati digitali“.

 

Photo credit: account X Adolfo Urso

Eclissi totale negli Stati Uniti: cosa sperano di imparare gli scienziati

Strani comportamenti animali, una corona solare raramente vista e persino possibili effetti sull’uomo: l’8 aprile gli scienziati saranno al lavoro per raccogliere dati preziosi durante l’eclissi solare che attraverserà gli Stati Uniti. Le eclissi totali sono “rare” e rappresentano una “incredibile opportunità scientifica“, ha dichiarato Pam Melroy, amministratore associato della Nasa, durante una conferenza stampa. L’agenzia spaziale statunitense sarà in prima linea con il lancio di razzi sonda.

Ecco una panoramica di ciò che i ricercatori intendono studiare.

CORONA SOLARE. Quando la Luna coprirà completamente il disco centrale del Sole, lo strato esterno della sua atmosfera, chiamato corona solare, sarà visibile “in modo molto particolare“, ha spiegato Pam Melroy. Ma questa è un’area “che ancora non comprendiamo appieno“. Il calore della corona aumenta con la distanza dalla superficie del Sole, un fenomeno controintuitivo che gli scienziati stanno lottando per spiegare. È anche in questa regione superiore che si verificano i brillamenti e le prominenze solari, immense strutture di plasma. “Durante un’eclissi, la parte più bassa della corona è visibile meglio che con uno speciale strumento chiamato coronografo“, spiega Shannon Schmoll, astronomo della Michigan State University. Questa è quindi un’occasione d’oro per studiarla. Gli scienziati sono particolarmente entusiasti di una cosa: il Sole è attualmente vicino al suo picco di attività, che si verifica ogni 11 anni. Quindi “le possibilità di osservare qualcosa di incredibile sono molto alte“, ha commentato Pam Melroy.

ATMOSFERA TERRESTRE. Gli scienziati studieranno anche i cambiamenti nella parte superiore dell’atmosfera terrestre, la ionosfera. È qui che passa gran parte dei segnali di comunicazione. “Le perturbazioni in questo strato possono causare problemi al nostro GPS e alle comunicazioni“, ha sottolineato Kelly Korreck, responsabile del team della Nasa. La ionosfera è influenzata dal Sole: le sue particelle si caricano di elettricità sotto la radiazione solare durante il giorno. Tre piccoli razzi sonda saranno lanciati prima, durante e subito dopo l’eclissi dalla Virginia, negli Stati Uniti orientali, per misurare questi cambiamenti.La riduzione della luce causata dall’eclissi, che è più rapida e localizzata rispetto a un tramonto, dovrebbe permetterci di imparare di più sul modo in cui la luce influenza la ionosfera, in modo da poter prevedere meglio potenziali disturbi futuri.

COMPORTAMENTO DEGLI ANIMALI. Le eclissi provocano comportamenti sorprendenti negli animali: le giraffe, ad esempio, sono state viste galoppare via, mentre i galli e i grilli sono stati visti cantare. Oltre alla luce, anche le temperature e i venti possono diminuire, cosa a cui gli animali sono sensibili. Andrew Farnsworth, ricercatore presso il laboratorio di ornitologia della Cornell University, sta studiando gli effetti sugli uccelli. Utilizza un radar meteorologico per rilevare gli animali in volo. Durante la precedente eclissi negli Stati Uniti, nell’agosto 2017, i ricercatori hanno osservato “un calo del numero di animali in volo“, spiega. Questa eclissi ha causato l’interruzione del comportamento diurno (con l’atterraggio di insetti o uccelli), ma non ha innescato comportamenti notturni come il volo di pipistrelli o uccelli migratori, spiega. Quest’anno, in aprile, questi uccelli potrebbero essere più inclini a migrare. Questi studi sono “importanti per capire come gli animali percepiscono il mondo“, sottolinea l’esperto.

STUPORE UMANO.Le eclissi hanno un potere speciale. Toccano le persone, che provano una sorta di riverenza per la bellezza del nostro Universo“, ha dichiarato questa settimana Bill Nelson, capo della Nasa. È questo senso di meraviglia che i ricercatori hanno studiato nel 2017, utilizzando i dati di poco meno di 3 milioni di utenti del social network Twitter. Il risultato è stato che coloro che si trovavano nel percorso dell’eclissi avevano maggiori probabilità di usare il pronome “noi” (invece di “io“) e di preoccuparsi per gli altri, secondo Paul Piff, ricercatore di psicologia presso la UC Irvine. Un’esperienza di meraviglia sembra “collegarci gli uni agli altri“, ha sintetizzato. Quest’anno ha in programma di studiare se tale esperienza può avere un impatto sulle divisioni politiche.

SCIENZA PARTECIPATIVA. Sono previsti anche circa 40 progetti di scienza partecipativa. “Vi incoraggiamo ad aiutare la Nasa osservando ciò che vedete e sentite intorno a voi“, ha dichiarato Bill Nelson. I cittadini partecipanti potranno, ad esempio, registrare l’ambiente sonoro che li circonda o la temperatura e la copertura nuvolosa utilizzando un’applicazione per telefoni cellulari.

Scarso effetto Mar Rosso: inflazione tedesca rallenta. In Usa prezzi sotto controllo

L’effetto Mar Rosso per ora è scarso. Almeno a giudicare i dati dell’inflazione flash di febbraio in tre grandi Paesi europei: Francia, Germania e Spagna.

Nella cosiddetta locomotiva del Vecchio Continente, secondo la stima flash di Destatis, l’ufficio di statistica tedesco, il carovita mensile è cresciuto dello 0,4% contro attese di +0,5%, dopo il +0,2% di gennaio. E a livello annuale è aumentato del 2,5%, sotto le attese di +2,6% e in calo rispetto al +2,9% di gennaio. L’Inflazione di questo mese rappresenta il valore più basso da giugno 2021 (+2,4%). “Nonostante il freno ai prezzi dei prodotti energetici scaduto a gennaio e l’aumento del prezzo della Co2 che influenzerà anche i prezzi dei combustibili fossili come carburanti, gasolio da riscaldamento e gas naturale, a febbraio i prezzi dell’energia erano inferiori del 2,4% annuale“, evidenzia Destatis. Inoltre “l’aumento dei prezzi dei prodotti alimentari è diminuito nuovamente in modo significativo rispetto allo stesso mese dell’anno scorso al +0,9% e per la prima volta da novembre 2021 è stato inferiore al tasso di aumento generale dei prezzi“.

Anche in Francia l’inflazione annuale ha rallentato al 2,9% a febbraio, percentuale più bassa da gennaio 2022, rispetto al 3,1% di gennaio, anche se i mercati si aspettavano un +2,7%, secondo le stime preliminari. L’indice dei prezzi al consumi invece ha accelerato rispetto al mese precedente, aumentando dello 0,8%, dopo il -0,2% di gennaio, guidato dall’aumento dei costi dei servizi, in particolare affitti e trasporti, e dell’energia, principalmente elettricità, prodotti manifatturieri e tabacco.

Brusco rallentamento dei prezzi in Spagna che anno su anno scendono al 2,8%, soprattutto per merito del calo dei prezzi dell’elettricità. Questo tasso è inferiore di 0,6 punti rispetto a gennaio (3,4%), un mese che era stato caratterizzato da un leggero rimbalzo dopo quattro mesi consecutivi di aumenti dei prezzi più lenti, spiega l’istituto di statistica iberico in una nota. Questo conferma il graduale ritorno dell’inflazione a un livello ritenuto accettabile dagli economisti, grazie anche alla stabilizzazione dei prezzi dei generi alimentari, che un anno fa avevano subito un forte aumento.

Le scuse per non tagliare i tassi sono sempre meno nel bouquet della Bce. Complice anche un calo inaspettato dei consumi, sia in Francia che in Germania, la pressione sui prezzi al consumo non sembra per ora segnalare un ritorno di fiamma magari per il blocco del transito attraverso il Canale di Suez. La stabilizzazione dei prezzi si nota anche oltre oceano. L’indice dei prezzi della spesa per consumi personali (Pce) negli Stati Uniti è aumentato dello 0,3% su base mensile a gennaio, in linea con le aspettative del mercato, dopo un +0,1% rivisto al ribasso a dicembre, mentre il tasso annuo ha rallentato al 2,4%, il più basso da febbraio 2021.

E’ vero, in America è salita l’inflazione ‘core’ mensile Pce, che esclude alimentari ed energia ed è la misura preferita della Fed, allo 0,4%, registrando l’aumento maggiore da febbraio dello scorso anno, tuttavia il tasso annuale di inflazione ‘core’ ha frenato per il 12° mese consecutivo al 2,8% dal 2,9%, un nuovo minimo da marzo 2021 e “il raffreddamento dei redditi e della spesa suggerisce che l’inflazione si modererà nuovamente nei prossimi mesi, lasciando la porta aperta a giugno per un taglio dei tassi da parte della Federal Reserve“, commenta in una nota la banca olandese Ing.

Dopo la Cop28 troveremo carbone (fossile) sotto l’albero di Natale

Che la Cop 28 sia stata un fiasco o quasi un fiasco dipende solo dai punti di vista più o meno ideologici. Che molto poco si potesse pretendere da un evento che ha avuto come presidente Sultan Ahmed al-Jaber, amministratore delegato di Abu Dahbi National Oil Company (la Adnoc, principale compagnia petrolifera degli Emirati Arabi), era abbastanza scontato. Che la Cop28 potesse riservare un epilogo analogo alla Cop27 era persino prevedibile. Che non tutte le posizioni emerse dalla convention Onu di Dubai siano da buttare nel bidone della spazzatura un’altra evidenza sulla quale riflettere.

Dopo una decina di giorni di chiacchiere e confronti, alla fine sembra che troveremo carbone (fossile) sotto l’albero di Natale. La prima bozza di accordo non convince, gas & oil continuano a farla da padrone, i Paesi produttori non ne vogliono sapere di dare un taglio alla loro principale fonte di introiti, la progressiva dismissione dei combustibili fossili pare abbia la cadenza musicale del fado. E pure la sua tristezza. La luce in fondo al tunnel sono le rinnovabili e, forse, il nucleare. Ma tra mille eccezioni, come da dichiarazione del ministro Gilberto Pichetto Fratin per quanto riguarda la posizione dell’Italia: una fessura non un’apertura. E, comunque, siamo nell’ordine di molti anni, insomma non una soluzione immediata.

Mentre le associazioni ambientaliste si ostinano a gettare vernice verde in fiumi, lagune e fontane, il mondo prende la sua piega. La spaccatura che emerge è netta. C’è preoccupazione per l’innalzamento della temperatura planetaria e per i risultati non in linea con le prospettive delineate dall’accordo di Parigi, probabilmente adesso c’è anche minore distanza tra Europa, Usa, Cina e India, nessuno dubita sulla necessità di “fare qualcosa”, ma sono i tempi e i modi che generano lo stallo. Da un lato la Ue che pesta sull’acceleratore per velocizzare la transizione green, dall’altro i Paesi produttori e in via di sviluppo che azionano il freno. Usando la ragione e non la pancia, è inimmaginabile pensare al mondo senza gas e senza petrolio in uno spazio temporale ristretto. Sultan al-Jaber sostiene con un’iperbole che si tornerebbe alla caverne: non è così, però non è nemmeno possibile ipotizzare a breve una società spinta solo da energie rinnovabili o biocarburanti. E siccome di radicalismo si perisce, lo sforzo maggiore dovrebbe farlo il buonsenso che non produce gas serra: non tutto subito, ma nemmeno niente per sempre. Sarebbe utile conoscere, oltre alla posizione del Governo, anche quelle delle nostre aziende di bandiera: da Eni a Enel, fino a Terna e Edison, Eph, A2A. Come si pongono in questa controversia?

La fotografia scattata alla Cop28 è chiarissima: Emirati, Arabia Saudita, Iraq, Iran e Russia non vogliono abbandonare la strada dei combustibili fossili, gli Stati Uniti stanno strategicamente nel mezzo, i giganti Cina e India manco si sono fatti sentire e tirano dritto allegramente. Insieme fanno 3 miliardi di persone, oltre un terzo della popolazione mondiale. Assodato che la transizione ecologica costi cara, vanno tutelate parimenti la stabilità delle economie e la salute del pianeta. Senza la prima non c’è la seconda. Sono da evitare gli estremismi o le asticelle fissate troppo in alto. E qui l’Europa può e deve darsi una regolata perché l’era-Timmermans ha prodotto guasti e lasciato strascichi. C’era una volta l’Europa che dettava il ritmo al mondo, adesso ci sono nazioni che da sole contano più di un continente intero. E che inquinano anche di più. Prenderne coscienza non è avere meno peso geopolitico ma capire in che epoca si sta vivendo. Diceva Seneca: non possiamo dirigere il vento ma possiamo orientare le vele.

Usa, stop di Biden a nuovi progetti di gas e petrolio nel nord dell’Alaska

L’amministrazione Biden ha annunciato che vieterà ogni nuovo sviluppo di progetti legati a petrolio e gas in una vasta area dell’Alaska settentrionale, in risposta alla “crisi climatica”. Questa nuova misura riguarda più di quattro milioni di ettari, una zona paragonabile a quella della Danimarca, all’interno della National Petroleum Reserve in Alaska (NPR-A), un’area naturale vitale per le popolazioni di orsi grizzly, orsi polari, caribù e centinaia di migliaia di uccelli migratori.

“L’Alaska ospita molte delle più belle meraviglie naturali degli Stati Uniti”, ha dichiarato il presidente degli Stati Uniti in una nota. “Poiché la crisi climatica riscalda l’Artico a una velocità più che doppia rispetto al resto del mondo, abbiamo la responsabilità di proteggere queste preziose regioni per i secoli a venire”, ha aggiunto. Il Dipartimento degli Interni, che si occupa delle terre federali negli Stati Uniti, ha spiegato di aver cancellato sette permessi di disboscamento autorizzati dall’ex presidente Donald Trump in un’altra area protetta nel nord dell’Alaska.

Ma lo scorso marzo, l‘amministrazione del presidente democratico era stata pesantemente criticata dagli ambientalisti dopo la decisione di autorizzare un vasto progetto petrolifero del gigante statunitense ConocoPhillips in questa stessa riserva nazionale. La decisione annunciata oggi non mette in discussione questo progetto, noto come Willow, autorizzato durante il mandato di Donald Trump. Ridotto a tre zone di perforazione dalle cinque inizialmente richieste dalla compagnia, costerà tra gli 8 e i 10 miliardi di dollari e dovrebbe comportare l’emissione indiretta dell’equivalente di 239 milioni di tonnellate di CO2. I gruppi ambientalisti hanno definito il progetto “un disastro” per il clima e alcuni vedono nell’annuncio di oggi un tentativo dell’amministrazione Biden di recuperare il tempo perduto.

Il nuovo piano del governo Usa vieta anche le trivellazioni in un’area di oltre un milione di ettari nel Mare di Beaufort, a nord della costa settentrionale dell’Alaska, e gli aiuti alle popolazioni indigene locali. Queste misure “sono illegali, sconsiderate, sfidano il buon senso e sono l’ultima prova dell’incoerenza della politica energetica del presidente Biden”, ha commentato la senatrice repubblicana dell’Alaska Lisa Murkowski in un comunicato stampa, denunciando la mancanza di consultazione con le comunità indigene interessate.

La democratica Mary Peltola, che rappresenta l’Alaska alla Camera dei Rappresentanti degli Stati Uniti, si è detta “profondamente frustrata”, criticando l’amministrazione Biden per essere rimasta sorda alle richieste dei cittadini. Ma Biden si è scontrato anche con l’opposizione di importanti membri delle comunità indigene locali, che hanno deplorato l’impatto economico di questa misura su una regione devastata. “La nostra comunità ha lottato duramente per far sì che la pianura costiera venisse aperta alle licenze di petrolio e gas”, ha dichiarato Annie Tikluk, sindaco della città di Kaktovik, riferendosi alle sette licenze ora revocate.

Durante la sua campagna per la presidenza, Biden aveva promesso un congelamento dei permessi di sfruttamento del petrolio, promessa non mantenuta. Alcuni sottolineano che le azioni legali degli Stati repubblicani hanno limitato il suo margine di manovra su questo tema.
L’anno scorso, il presidente democratico ha anche fatto approvare un enorme piano di investimenti per il clima da 400 miliardi di dollari. Secondo uno studio pubblicato a luglio sulla rivista Science, questo piano consentirebbe di ridurre le emissioni di gas serra degli Stati Uniti dal 43 al 48% entro il 2035 rispetto ai livelli del 2005, ma non di dimezzare le emissioni entro il 2030.

Meloni vede Biden: “Impegno deciso contro cambiamento climatico, è una minaccia esistenziale”

(Photocredit: Palazzo Chigi)

Quella del cambiamento climatico è “una minaccia esistenziale” ed è forte “l’impegno a intraprendere azioni decisive in questo decennio per mantenere a portata di mano l’obiettivo condiviso di limitare l’aumento della temperatura media globale a 1,5 gradi Celsius”. La sfida del riscaldamento del pianeta – ormai a un punto di “ebollizione” come ricorda l’Onu – è stata uno dei punti fondamentali sul tavolo dell’incontro tra la premier Giorgia Meloni e il presidente degli Stati Uniti, Joe Biden, durante la visita della presidente del Consiglio a Washington.

“Entrambi – spiega la Casa Bianca – ricordano il prezioso contributo dell’iniziativa Net-Zero Government, lanciata dagli Stati Uniti e a cui ha aderito l’Italia, che invita i governi a dare l’esempio e a raggiungere le emissioni nette zero dalle operazioni governative nazionali entro il 2050″. Ma non solo. Gli Stati Uniti e l’Italia, “condividono l’interesse a lavorare insieme per affrontare il problema delle emissioni nei Paesi in via di sviluppo, compreso il metano”. I due Paesi “intendono continuare a rafforzare la cooperazione e l’allineamento su soluzioni tempestive per raggiungere gli obiettivi climatici condivisi e un risultato ambizioso della COP28, con l’obiettivo di garantire la sostenibilità sociale, economica e ambientale“.

L’incontro tra i due leader – nel corso della prima visita ufficiale di Meloni – è stata anche l’occasione per rafforzare i legami “incredibilmente forti” tra Usa e Italia, “diventati ancora più profondi negli ultimi tempi in seguito alla guerra di aggressione russa contro l’Ucraina“. “Più che mai, in questa congiuntura internazionale – dicono Biden e la presidente del Consiglio – le nostre relazioni sono essenziali; più che mai dobbiamo poter contare gli uni sugli altri”.

Ma sono tanti i temi toccati durante il lungo faccia a faccia. Entrambi sottolineano l’importanza di garantire un “sistema alimentare sicuro” soprattutto per i Paesi più vulnerabili e condannano “il ritiro unilaterale della Russia” dall’accordo sul grano dche è stato “determinante per ridurre i prezzi mondiali dei prodotti alimentari, e i suoi attacchi alle infrastrutture ucraine di stoccaggio e trasporto dei cereali”.

Poi, la “sfida” della Cina, legata naturalmente alla questione delle materie critiche, anche in ottica decarbonizzazione. I due Paesi “si impegnano a rafforzare le consultazioni bilaterali e multilaterali sulle opportunità e le sfide poste dalla Repubblica Popolare Cinese”.  E proprio in un quadro di transizione, spiega la Casa Bianca, gli Stati Uniti “guardano con interesse alla leadership italiana del G7 nel 2024, dove il G7 intensificherà gli sforzi per accelerare la transizione verso l’energia pulita e affrontare le sfide globali più urgenti, tra cui la crisi climatica, la povertà, l’insicurezza alimentare, la sicurezza economica, le forniture di minerali critici e la migrazione, impegnandosi ulteriormente nel dialogo e nella cooperazione su tutti questi temi con i Paesi in via di sviluppo, in particolare con i Paesi africani”.

Negli Usa aumentano costi assicurazioni sulla casa: colpa del riscaldamento globale

Tornare a vivere a Pensacola ha rappresentato per Jack Hierholzer un ritorno alle origini, ma a meno di tre anni di distanza sta pensando di lasciare questa città della Florida settentrionale, spinto dall’assicurazione sulla casa, diventata proibitiva. Da quando si è trasferito qui, il suo premio di rischio è triplicato a 6.500 dollari, in parte a causa dell’aumento dei costi degli assicuratori legati ai rischi climatici dovuti al riscaldamento globale. La sua è solo una delle tante storie di questo genere. “I miei figli sono nati a Pensacola e abbiamo molti amici e persino la famiglia lì“, spiega, ma “io lavoro totalmente da remoto, quindi posso vivere ovunque purché abbia una connessione internet a banda larga. Se la situazione diventa difficile, possiamo trasferirci. E lo faremo“.

I beni distrutti da fenomeni naturali hanno superato i 140 miliardi di dollari di valore negli Stati Uniti nel 2022, di cui 90 miliardi assicurati, secondo i dati del riassicuratore Munich Re. Secondo la compagnia, che assicura gli assicuratori, il 70% del totale è legato ai danni causati dall’uragano Ian, che ha attraversato la Florida lo scorso settembre. L’ultimo rapporto del Gruppo intergovernativo di esperti sul cambiamento climatico (IPCC) ha sottolineato che il riscaldamento globale sta “già avendo un impatto sui fenomeni naturali in tutte le regioni del mondo“. Man mano che questi fenomeni diventano più estremi e più regolari, i costi per gli assicurati aumentano progressivamente.

Negli Stati Uniti, i premi per il rischio casa sono aumentati del 9% nell’ultimo anno, e in alcuni Stati anche di più, secondo l’Insurance Information Institute (III), che rappresenta i professionisti del settore. La causa principale è l’aumento dei costi di riassicurazione e dei materiali di ricostruzione. Per quanto riguarda la riassicurazione, l’aumento è del 30-40% in un anno, secondo il direttore delle comunicazioni dell’III, Mark Friedlander. “Vediamo che i costi di riassicurazione aumentano di anno in anno, e chiaramente il rischio climatico è la causa principale“, dice. I costi di ricostruzione, invece, sono aumentati del 30% negli ultimi cinque anni, soprattutto a causa delle interruzioni delle forniture causate dalla pandemia.

A livello statale, una serie di fattori locali si sono aggiunti alle sfide create dal riscaldamento globale. In California, ad esempio, i premi di rischio sono più bassi della media nazionale, secondo il III, soprattutto grazie a leggi che consentono ai governi locali di avere voce in capitolo sugli aumenti. Se da un lato questa può essere una buona notizia per i proprietari di case, dall’altro ha reso la vita difficile agli assicuratori, che si sono trovati nell’impossibilità di trasferire i costi associati agli incendi boschivi, una calamità naturale sempre più frequente. Questo ha spinto State Farm, uno dei principali assicuratori, ad annunciare che d’ora in poi rifiuterà qualsiasi nuovo cliente in California, “a causa del rapido aumento dell’esposizione ai disastri naturali“.

In Florida, i premi sono aumentati a causa di diversi fattori, secondo il III, tra cui la legge locale particolarmente protettiva che consente ai consumatori di fare causa al proprio assicuratore. L’aumento dei costi legati agli uragani è un’altra ragione. “I fattori umani si sommano ai rischi climatici, ed è la combinazione perfetta per un forte aumento dei premi assicurativi“, ammette Friedlander.

Mentre i proprietari di case hanno visto aumentare la loro assicurazione, il numero di persone senza assicurazione è rimasto stabile a circa il 7%, sottolinea l’Istituto, soprattutto a causa dell’obbligo di sottoscrivere un’assicurazione come parte del mutuo per la casa. Per Jack Hierholzer, però, l’assicurazione sulla casa gli costa ogni mese più delle rate del mutuo, il che lo spinge a riflettere su cosa fare. “Se il costo dell’assicurazione è pari all’acquisto di una nuova casa ogni 12 anni, per me è più sensato fare a meno dell’assicurazione, pagare il mutuo e incrociare le dita“.

caldo record

Contea Usa chiede 51 mld di dollari a gruppi petroliferi: “Colpevoli del caldo estremo”

Una contea dell’Oregon, nel nord-ovest degli Stati Uniti, ha annunciato di aver intentato una causa contro diverse multinazionali del petrolio chiedendo loro più di 51 miliardi di dollari in seguito alla “cupola di calore” del 2021, un evento climatico estremo e mortale. La Contea di Multnomah sostiene che l’inquinamento da carbonio causato dall’uso di combustibili fossili generati da questi gruppi abbia avuto un ruolo “significativo” nell’evento. Tra le aziende prese di mira figurano ExxonMobil, Shell, Chevron, BP, ConocoPhillips e Total Specialties USA.

La cupola di calore “è un evento direttamente attribuito agli impatti che stiamo vedendo sul nostro clima a causa delle azioni dei gruppi di combustibili fossili e delle loro agenzie, che da decenni spingono per negare la scienza del clima“, ha dichiarato all’AFP la presidente della contea Jessica Vega Pederson. La contea chiede 50 milioni di dollari di danni e 1,5 miliardi di dollari per i danni futuri: caldo estremo, siccità, incendi e fumo promettono di diventare sempre più frequenti. Chiede inoltre alle aziende di versare 50 miliardi di dollari in un “fondo di mitigazione” per migliorare le infrastrutture della contea.

Contattata dall’AFP, la ExxonMobil ha dichiarato che “questo tipo di denuncia continua a far perdere tempo e denaro e non fa nulla per affrontare il cambiamento climatico“. Chevron, da parte sua, ha denunciato “accuse infondate” e “distrazioni controproducenti” nella ricerca di soluzioni al riscaldamento globale.

Un’ondata di caldo record ha colpito gli Stati Uniti occidentali e il Canada dalla fine di giugno alla metà di luglio 2021. Il bilancio delle vittime è stato stimato in 1.400 persone e a Lytton, nella Columbia Britannica, è stata registrata una temperatura di 49,6 gradi Celsius. In un’analisi, il World Weather Attribution (WWA), un gruppo di scienziati, sostiene che questa cupola sarebbe stata “virtualmente impossibile” senza il cambiamento climatico indotto dall’uomo, che l’ha resa almeno 150 volte più probabile.

La denuncia della Contea di Multnomah cita anche l’American Petroleum Institute e la McKinsey. Sostiene che per tre giorni, alla fine di giugno 2021, la contea ha sofferto un caldo estremo, 69 persone sono morte e si è dovuto spendere denaro dei contribuenti (per acqua, condizionatori d’aria e “centri di raffreddamento“, tra le altre cose). “La cupola di calore è stata una conseguenza diretta e prevedibile della decisione degli imputati di vendere il maggior numero possibile di prodotti a base di combustibili fossili negli ultimi sei decenni“, si legge nel testo, che accusa le multinazionali di mentire sugli effetti nocivi delle loro attività.

Con questa mossa, la Contea di Multnomah si unisce a decine di città, contee e Stati di tutto il Paese che hanno intentato cause contro le compagnie petrolifere accusandole di partecipare al cambiamento climatico e di alimentare la disinformazione. Questa ondata di cause è iniziata nel 2017. L’industria dei combustibili fossili ha fatto tutto il possibile per evitare i processi statali, ma a maggio ha subito una battuta d’arresto quando la Corte Suprema ha rifiutato di accogliere i ricorsi in due casi, consentendo alle cause di fare il loro corso.

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Washington Consensus, la ricetta di Sullivan per la globalizzazione

Gli Usa e i loro alleati occidentali secondo Sullivan, consigliere per la sicurezza del Presidente degli Stati Uniti d’America Joe Biden ,devono partire dagli errori e dai punti deboli della globalizzazione per superarli creando nuovi equilibri. In particolare non è più possibile pensare a una crescita economica svincolata dalla sicurezza strategica. Ciò vale sia per la globalizzazione del futuro e i suoi scambi commerciali ma anche per l’ambientalismo, che deve cessare di essere una religione neopagana e fare i conti con la realtà.

Inoltre la crescita deve avere al centro l’industria le cui produzioni, specie quelle più strategiche, non possono essere delocalizzate; e deve essere inclusiva, cioè capace di portare benessere agli strati sociali più vasti. Ancora, occorre trovare sostegni e supporti di ogni tipo per i Paesi a basso e medio reddito cercando di colmare il più possibile il gap economico e infrastrutturale. La ricetta di Sullivan, che esprime in realtà la visione di un Presidente democratico alle prese con un mondo sempre più multipolare, ma anche più caotico, mostra la fiducia (e l’ambizione) dei ‘liberal’ americani in un mondo migliore, e la convinzione che ciò che chiamiamo Occidente, e cioè gli Usa e i suoi alleati, siano capaci di migliorare il mondo, di difendere le istituzioni democratiche, di allargare sempre di più il benessere dei popoli e anche di quelle fasce di lavoratori che sono stati duramente colpiti dai processi di globalizzazione. Si tratta di una visione positiva e a suo modo ottimista che contrasta con il pessimismo cosmico di osservatori e politologi soprattutto ma non solo europei (si veda ad esempio Lucio Caracciolo sull’ultimo numero di Limes “il bluff globale”) che vedono una crisi irreversibile dell’egemonia americana e occidentale e l’avvento ingovernabile di caos a livello planetario.

La positività della visione di Sullivan e quindi della presidenza americana sta non solo nella lucidità dell’analisi sulle insufficienze del passato ma anche nel fatto che le proposte sono concrete e strutturate e segnalano, dopo quasi un decennio di basso profilo internazionale sia pure per ragioni diverse delle due presidenze di Obama Trump, un ritorno della politica americana alla grande politica internazionale  e allo sforzo di occuparsi del destino del globo con una visione attiva o proattiva.

Dell’analisi di Sullivan sulle insufficienze della globalizzazione ci siamo occupati nel numero precedente.  Oggi vediamo di esaminare e dare conto delle proposte.

Gli obbiettivi sono chiari:

  • Ricostruire capacità industriale perduta e costruire nuova capacità nei settori di punta: conduttori, biotecnologie, intelligenza artificiale.
  • Costruire sicurezza strategica attraverso catene di approvvigionamento diversificate e resilienti, per evitare dipendenze da paesi non amici.
  • Mobilitare gli investimenti pubblici e privati per una giusta transizione verso un’energia pulita ma che sia sostenibile non solo ambientalmente ma anche economicamente e socialmente.

Il perseguimento di questi obbiettivi non comporta scelte protezionistiche o autarchiche, ma un approccio completamente diverso allo scambio e ai commerci internazionali.

L’Occidente non deve rinunciare alla liberalizzazione dei mercati ma bisogna perseguire accordi commerciali più moderni non solo basati sul livello delle tariffe doganali ma capaci di produrre risultati più generali di politica economica quali: la sicurezza delle catene di approvvigionamento, la creazione di buoni posti di lavoro che sostengano le famiglie, la garanzia della sicurezza e dell’affidabilità delle infrastrutture digitali, la promozione di una giusta e equa transizione energetica.

Un esempio di questi nuovi accordi è rappresentato dall’Indo Pacific Economic Framework, negoziato con 13 Paesi dell’area Indo-pacifica e volto a garantire l’accelerazione della transizione energetica, l’equità fiscale, la lotta contro la corruzione, standard elevati per accordi tecnologici e catene di approvvigionamento più resilienti.

L’approccio volto a connettere commercio e clima trova un’importante espressione nell’accordo globale su acciaio e alluminio che gli Usa stanno negoziando con l’Unione Europea, il cosiddetto Global Sustainable Steel.

Questo accordo dovrebbe affrontare contemporaneamente il tema delle emissioni climalteranti e della loro intensità e quello dell’l’eccesso di capacità produttiva che affligge storicamente i due settori. È necessario un forte intervento riformatore sulle regole del WTO (l’Organizzazione del Commercio mondiale) per garantire il perseguimento dei fini per cui è nato: concorrenza leale, apertura, trasparenza e stato di diritto. Pratiche e politiche non di mercato di numerosi Stati aderenti minacciano questi valori fondamentali. Per questo gli Usa e molti paesi occidentali stanno lavorando per riformare il sistema commerciale multilaterale in modo che vada a beneficio dei lavoratori, che tenga conto dei legittimi interessi di sicurezza nazionale, che promuova una transizione energetica giusta e equa.

Vi è poi l’enorme tema della mobilitazione di ingenti risorse economiche e finanziarie a favore delle economie dei Paesi emergenti.

Gli Usa e la Ue hanno avviato un grande sforzo per far evolvere le banche multilaterali di sviluppo in modo che siano all’altezza delle necessità dell’oggi. Fondo Monetario InternazionaleBanca Mondiale, Banche regionali devono ampliare i loro bilanci per affrontare le sfide del nostro tempo: cambiamento climatico, pandemie, fragilità dei territori, conflitti.

Contemporaneamente all’evoluzione delle banche multilaterali di sviluppo è stato lanciato un grande piano per colmare il divario infrastrutturale nei paesi a basso e medio reddito. Gli Usa mobiliteranno centinaia di miliardi di dollari per finanziare infrastrutture energetiche, fisiche e digitali da qui alla fine del decennio e per aiutare i Paesi, specie africani, indebitati pesantemente con la Cina in anni in cui l’Occidente è stato completamente assente da quel contesto strategico.

Infine, una considerazione sulla Cina.

Sullivan ribadisce, come fatto recentemente da Ursula von der Leyen, che gli Usa sono per il de-risking, cioè per ridurre le dipendenze strategiche dall’estero per le catene di approvvigionamento, e per la diversificazione, non per l’interruzione dei rapporti economici e commerciali con la Cina, cosa che sarebbe del tutto impossibile.

Il tema è il controllo sulle tecnologie che potrebbero alterare l’equilibrio militare, cioè la necessità di assicurarsi che le tecnologie statunitensi e occidentali non vengano usate contro gli Usa e il resto dell’Occidente.

Quindi, nessuno pensa all’ interruzione dei rapporti di scambio con la Cina: tutto l’Occidente continua e continuerà ad avere rapporti commerciali e di investimento molto consistenti con il gigante asiatico; non si tratta di cercare il confronto o il conflitto, ma di gestire la concorrenza in modo responsabile cooperando con la Cina laddove è possibile.

Questo il pensiero della presidenza democratica americana. Come si diceva, è una buona notizia, perché segna il ritorno degli Stati Uniti d’America, dopo anni di confusione e di incertezze, alla grande politica internazionale.

L’unico interrogativo che è lecito porsi è se questa impostazione consentirà a Biden di essere riconfermato presidente per il secondo mandato. In caso contrario con la vittoria di Trump o di altro candidato repubblicano tutto verrebbe rimesso in discussione.

Questa è la vera ragione per la quale l’Unione Europea, sia pur sempre nel quadro di una confermata amicizia e solidarietà euro-atlantiche, dovrebbe accelerare sulle politiche e sulle spese di sicurezza e di difesa comune e sulle politiche industriali, cercando di rimettere al centro dell’agenda l’industria, la sua innovazione, i suoi effetti sociali oltre che economici.

Washington consensus: gli Usa e le politiche di decarbonizzazione europee

Un importante discorso, pronunciato lo scorso 27 aprile alla Brooking Institution dal consigliere per la sicurezza nazionale degli Stati UnitiJake Sullivan, propone un’analisi critica di alcuni effetti della globalizzazione e si pone la questione di come fare affinché le società aperte e democratiche possano “costruire un ordine economico globale più equo e duraturo a vantaggio di noi stessi e delle persone di tutto il mondo”.

Sulla costruzione di questo nuovo ordine economico globale più equo e duraturo l’America di Biden è alla ricerca di un nuovo consenso che tenga conto degli sconvolgimenti che hanno investito il mondo negli ultimi decenni e che hanno messo in crisi il vecchio ordine mondiale: dalle crisi finanziarie che si sono succedute, ai sacrifici patiti dalle fasce di popolazione più impattate dal processo di globalizzazione dell’economia mondiale, alla pandemia che ha messo in luce la fragilità delle catene di approvvigionamento dell’occidente, fino all’invasione dell’Ucraina da parte della Russia che ha mostrato i rischi di dipendenza da nazioni e Paesi non democratici.

La riflessione parte, come detto, da una serie di considerazioni critiche su ciò che è successo negli anni della cosiddetta ‘globalizzazione’ e in particolare da ciò che non ha funzionato per gli Usa e per l’Occidente in tutto in quel gigantesco processo di trasformazione del mondo.

La prima grave insufficienza riguarda i sistemi industriali occidentali, che con lo spirare vorticoso dei venti della globalizzazione si sono progressivamente svuotati mettendo in sofferenza territori e classi sociali non protetti.

Liberalizzazione del commercio mondiale fine a se stessa, deregolamentazione, riduzione o scomparsa dell’intervento pubblico anche nei settori strategici con ritorni più lunghi e lenti: tutto ciò ha messo in crisi soprattutto gli apparati industriali di base, che sono fondamentali per tutte le filiere sottostanti.

Alla base di queste scelte politiche secondo Sullivan stava un assunto: che i mercati allochino sempre il capitale in modo produttivo ed efficiente, indipendentemente da ciò che fanno i concorrenti e da quali strumenti e politiche di protezione vengano adottati.

In nome di un’efficienza di mercato eccessivamente semplificata intere catene di approvvigionamento di beni strategici – insieme alle industrie e ai posti di lavoro che li producono – si sono spostate in paesi terzi che presentavano costi delle produzioni inferiori a quelli dell’Occidente. E il postulato secondo il quale una profonda liberalizzazione dei commerci mondiali avrebbe comportato per le economie occidentali, sempre e comunque, maggiori esportazioni, maggior benessere, maggiore crescita non si è verificato del tutto.

Altro postulato di questa visione era che il tipo di crescita non fosse importante: tutta la crescita era buona crescita. Così sono stati privilegiati alcuni settori dell’economia come la finanza e i servizi, mentre altri settori essenziali e strategici come i semiconduttori, le infrastrutture e parte dell’industria manifatturiera si sono atrofizzati.

La capacità industriale dell’Occidente ha subito duri colpi e con essa la capacità di fare innovazione.

Gli choc che negli ultimi 10/15 anni si sono succeduti colpendo l’economia mondiale, prima la crisi finanziaria del 2008/2009, poi la crisi pandemica del 2020/2021, hanno mostrato tutti i limiti di questa impostazione sovente segnata da estremismo liberista o mercatista, da eccesso di finanziarizzazione, da sottovalutazione dei problemi di sicurezza oltre che di economicità degli scambi mondiali.

La seconda grande insufficienza, le cui conseguenze peseranno, e molto, negli anni futuri, è stata il non capire che si stavano creando dipendenze strategiche dell’Occidente dalla scelte e dalle forniture di Paesi ed economie non occidentali, spesso conflittuali con noi, minando alle fondamenta la sicurezza del nostro vivere.

Questa insufficienza e incomprensione deriva dal fatto che l’impostazione della politica economica internazionale degli ultimi decenni si basava sulla premessa che l’integrazione economica avrebbe reso le nazioni più responsabili e aperte, e che l’ordine globale sarebbe stato più pacifico e cooperativo. In maniera quasi automatica e spontanea, secondo questo assunto, i Paesi coinvolti in questi processi di integrazione e nelle loro regole sarebbero stati progressivamente portati a fare proprie queste regole e a rispettarle.

Sullivan rileva e sottolinea che non è andata così. O meglio, alcuni casi sì in molti altri no.

L’integrazione della Cina nel novero dei Paesi aderenti all’organizzazione del Commercio Mondiale (WTO) ha rappresentato e rappresenta un’enorme sfida per gli apparati industriali dell’Occidente.

La Repubblica popolare cinese ha continuato, nonostante l’adesione al WTO, a sovvenzionare in modo massiccio sia i settori industriali tradizionali sia le industrie fondamentali per il futuro come l’energia pulita, le infrastrutture digitali, l’intelligenza artificiale, le biotecnologie avanzate.

L’Europa, più che gli Stati Uniti, ha creato, nei decenni di globalizzazione, dipendenze che si sono rivelate davvero pericolose: la dipendenza energetica dal gas russo in primis, ma anche la vulnerabilità delle catene di approvvigionamento di apparecchiature mediche, semiconduttori, minerali critici.

Sempre l’Europa, forzando ideologicamente i processi di decarbonizzazione, con il ricorso spinto alle energie rinnovabili e all’elettrificazione e alla mobilità elettrica come uniche tecnologie capaci di portare alla sostenibilità delle nostre economie (senza peraltro  porsi il problema della sicurezza degli approvvigionamenti) , sta ponendosi nuovamente in posizione di dipendenza strategica dalla Cina per tutto ciò che riguarda litio, cobalto, terre rare, nickel e cioè  tutto quello che serve per costruire batterie.

L’integrazione economica non ha impedito alla Cina di espandere le proprie ambizioni militari nella regione, né alla Russia di invadere i suoi vicini democratici. Nessuno dei due Paesi (Cina e Russia) è diventato più responsabile e collaborativo.

La terza grave insufficienza è stata, soprattutto in Europa, l’impostazione delle politiche di decarbonizzazione e di transizione energetica. In molte fasi recenti della storia dell’Unione Europea è sembrata prevalere un’impostazione dettata da un ambientalismo estremo trasformato in religione neopagana del nostro tempo, che demonizza il progresso economico e predica un futuro di sacrifici dolorosi oppure l’Apocalisse imminente.

La quarta grave insufficienza è stata quella di non occuparsi abbastanza delle diseguaglianze crescenti scaturite dai processi di globalizzazione.

L’ipotesi prevalente, anche qui sbagliata, era che la crescita indotta dall’espansione del commercio internazionale sarebbe stata una crescita inclusiva, che i guadagni del commercio avrebbero finito per essere ampiamente condivisi da vasti strati di popolazione agendo come un gigantesco meccanismo redistributivo della ricchezza.

Ciò è avvenuto in effetti per le popolazioni, o almeno per significative parti di esse, dei Paesi in via di sviluppo che, con la globalizzazione, hanno visto crescere il loro benessere. Ma in Occidente moltissimi lavoratori da questi guadagni non sono stati minimamente toccati. Le classi medie hanno perso sempre più terreno subendo processi gravi di impoverimento, mentre si è assistito ad una concentrazione della ricchezza, sempre di più nelle mani di pochi, anzi di pochissimi.

C’è stata, in altri termini, una progressiva disconnessione e tra politiche economiche internazionali e politiche interne; laddove queste ultime non sono riuscite a gestire le conseguenze pesanti della globalizzazione su molti settori industriali manifatturieri, nei confronti dei quali non vi è stata alcuna attenzione né cura.

Le conseguenze sociali di questa disattenzione e assenza di cura è stata la nascita e la crescita, nei Paesi occidentali, di populismi e estremismi che mettono in pericolo la convivenza civile e la stessa democrazia.