Meloni vede Biden: “Impegno deciso contro cambiamento climatico, è una minaccia esistenziale”

(Photocredit: Palazzo Chigi)

Quella del cambiamento climatico è “una minaccia esistenziale” ed è forte “l’impegno a intraprendere azioni decisive in questo decennio per mantenere a portata di mano l’obiettivo condiviso di limitare l’aumento della temperatura media globale a 1,5 gradi Celsius”. La sfida del riscaldamento del pianeta – ormai a un punto di “ebollizione” come ricorda l’Onu – è stata uno dei punti fondamentali sul tavolo dell’incontro tra la premier Giorgia Meloni e il presidente degli Stati Uniti, Joe Biden, durante la visita della presidente del Consiglio a Washington.

“Entrambi – spiega la Casa Bianca – ricordano il prezioso contributo dell’iniziativa Net-Zero Government, lanciata dagli Stati Uniti e a cui ha aderito l’Italia, che invita i governi a dare l’esempio e a raggiungere le emissioni nette zero dalle operazioni governative nazionali entro il 2050″. Ma non solo. Gli Stati Uniti e l’Italia, “condividono l’interesse a lavorare insieme per affrontare il problema delle emissioni nei Paesi in via di sviluppo, compreso il metano”. I due Paesi “intendono continuare a rafforzare la cooperazione e l’allineamento su soluzioni tempestive per raggiungere gli obiettivi climatici condivisi e un risultato ambizioso della COP28, con l’obiettivo di garantire la sostenibilità sociale, economica e ambientale“.

L’incontro tra i due leader – nel corso della prima visita ufficiale di Meloni – è stata anche l’occasione per rafforzare i legami “incredibilmente forti” tra Usa e Italia, “diventati ancora più profondi negli ultimi tempi in seguito alla guerra di aggressione russa contro l’Ucraina“. “Più che mai, in questa congiuntura internazionale – dicono Biden e la presidente del Consiglio – le nostre relazioni sono essenziali; più che mai dobbiamo poter contare gli uni sugli altri”.

Ma sono tanti i temi toccati durante il lungo faccia a faccia. Entrambi sottolineano l’importanza di garantire un “sistema alimentare sicuro” soprattutto per i Paesi più vulnerabili e condannano “il ritiro unilaterale della Russia” dall’accordo sul grano dche è stato “determinante per ridurre i prezzi mondiali dei prodotti alimentari, e i suoi attacchi alle infrastrutture ucraine di stoccaggio e trasporto dei cereali”.

Poi, la “sfida” della Cina, legata naturalmente alla questione delle materie critiche, anche in ottica decarbonizzazione. I due Paesi “si impegnano a rafforzare le consultazioni bilaterali e multilaterali sulle opportunità e le sfide poste dalla Repubblica Popolare Cinese”.  E proprio in un quadro di transizione, spiega la Casa Bianca, gli Stati Uniti “guardano con interesse alla leadership italiana del G7 nel 2024, dove il G7 intensificherà gli sforzi per accelerare la transizione verso l’energia pulita e affrontare le sfide globali più urgenti, tra cui la crisi climatica, la povertà, l’insicurezza alimentare, la sicurezza economica, le forniture di minerali critici e la migrazione, impegnandosi ulteriormente nel dialogo e nella cooperazione su tutti questi temi con i Paesi in via di sviluppo, in particolare con i Paesi africani”.

Negli Usa aumentano costi assicurazioni sulla casa: colpa del riscaldamento globale

Tornare a vivere a Pensacola ha rappresentato per Jack Hierholzer un ritorno alle origini, ma a meno di tre anni di distanza sta pensando di lasciare questa città della Florida settentrionale, spinto dall’assicurazione sulla casa, diventata proibitiva. Da quando si è trasferito qui, il suo premio di rischio è triplicato a 6.500 dollari, in parte a causa dell’aumento dei costi degli assicuratori legati ai rischi climatici dovuti al riscaldamento globale. La sua è solo una delle tante storie di questo genere. “I miei figli sono nati a Pensacola e abbiamo molti amici e persino la famiglia lì“, spiega, ma “io lavoro totalmente da remoto, quindi posso vivere ovunque purché abbia una connessione internet a banda larga. Se la situazione diventa difficile, possiamo trasferirci. E lo faremo“.

I beni distrutti da fenomeni naturali hanno superato i 140 miliardi di dollari di valore negli Stati Uniti nel 2022, di cui 90 miliardi assicurati, secondo i dati del riassicuratore Munich Re. Secondo la compagnia, che assicura gli assicuratori, il 70% del totale è legato ai danni causati dall’uragano Ian, che ha attraversato la Florida lo scorso settembre. L’ultimo rapporto del Gruppo intergovernativo di esperti sul cambiamento climatico (IPCC) ha sottolineato che il riscaldamento globale sta “già avendo un impatto sui fenomeni naturali in tutte le regioni del mondo“. Man mano che questi fenomeni diventano più estremi e più regolari, i costi per gli assicurati aumentano progressivamente.

Negli Stati Uniti, i premi per il rischio casa sono aumentati del 9% nell’ultimo anno, e in alcuni Stati anche di più, secondo l’Insurance Information Institute (III), che rappresenta i professionisti del settore. La causa principale è l’aumento dei costi di riassicurazione e dei materiali di ricostruzione. Per quanto riguarda la riassicurazione, l’aumento è del 30-40% in un anno, secondo il direttore delle comunicazioni dell’III, Mark Friedlander. “Vediamo che i costi di riassicurazione aumentano di anno in anno, e chiaramente il rischio climatico è la causa principale“, dice. I costi di ricostruzione, invece, sono aumentati del 30% negli ultimi cinque anni, soprattutto a causa delle interruzioni delle forniture causate dalla pandemia.

A livello statale, una serie di fattori locali si sono aggiunti alle sfide create dal riscaldamento globale. In California, ad esempio, i premi di rischio sono più bassi della media nazionale, secondo il III, soprattutto grazie a leggi che consentono ai governi locali di avere voce in capitolo sugli aumenti. Se da un lato questa può essere una buona notizia per i proprietari di case, dall’altro ha reso la vita difficile agli assicuratori, che si sono trovati nell’impossibilità di trasferire i costi associati agli incendi boschivi, una calamità naturale sempre più frequente. Questo ha spinto State Farm, uno dei principali assicuratori, ad annunciare che d’ora in poi rifiuterà qualsiasi nuovo cliente in California, “a causa del rapido aumento dell’esposizione ai disastri naturali“.

In Florida, i premi sono aumentati a causa di diversi fattori, secondo il III, tra cui la legge locale particolarmente protettiva che consente ai consumatori di fare causa al proprio assicuratore. L’aumento dei costi legati agli uragani è un’altra ragione. “I fattori umani si sommano ai rischi climatici, ed è la combinazione perfetta per un forte aumento dei premi assicurativi“, ammette Friedlander.

Mentre i proprietari di case hanno visto aumentare la loro assicurazione, il numero di persone senza assicurazione è rimasto stabile a circa il 7%, sottolinea l’Istituto, soprattutto a causa dell’obbligo di sottoscrivere un’assicurazione come parte del mutuo per la casa. Per Jack Hierholzer, però, l’assicurazione sulla casa gli costa ogni mese più delle rate del mutuo, il che lo spinge a riflettere su cosa fare. “Se il costo dell’assicurazione è pari all’acquisto di una nuova casa ogni 12 anni, per me è più sensato fare a meno dell’assicurazione, pagare il mutuo e incrociare le dita“.

caldo record

Contea Usa chiede 51 mld di dollari a gruppi petroliferi: “Colpevoli del caldo estremo”

Una contea dell’Oregon, nel nord-ovest degli Stati Uniti, ha annunciato di aver intentato una causa contro diverse multinazionali del petrolio chiedendo loro più di 51 miliardi di dollari in seguito alla “cupola di calore” del 2021, un evento climatico estremo e mortale. La Contea di Multnomah sostiene che l’inquinamento da carbonio causato dall’uso di combustibili fossili generati da questi gruppi abbia avuto un ruolo “significativo” nell’evento. Tra le aziende prese di mira figurano ExxonMobil, Shell, Chevron, BP, ConocoPhillips e Total Specialties USA.

La cupola di calore “è un evento direttamente attribuito agli impatti che stiamo vedendo sul nostro clima a causa delle azioni dei gruppi di combustibili fossili e delle loro agenzie, che da decenni spingono per negare la scienza del clima“, ha dichiarato all’AFP la presidente della contea Jessica Vega Pederson. La contea chiede 50 milioni di dollari di danni e 1,5 miliardi di dollari per i danni futuri: caldo estremo, siccità, incendi e fumo promettono di diventare sempre più frequenti. Chiede inoltre alle aziende di versare 50 miliardi di dollari in un “fondo di mitigazione” per migliorare le infrastrutture della contea.

Contattata dall’AFP, la ExxonMobil ha dichiarato che “questo tipo di denuncia continua a far perdere tempo e denaro e non fa nulla per affrontare il cambiamento climatico“. Chevron, da parte sua, ha denunciato “accuse infondate” e “distrazioni controproducenti” nella ricerca di soluzioni al riscaldamento globale.

Un’ondata di caldo record ha colpito gli Stati Uniti occidentali e il Canada dalla fine di giugno alla metà di luglio 2021. Il bilancio delle vittime è stato stimato in 1.400 persone e a Lytton, nella Columbia Britannica, è stata registrata una temperatura di 49,6 gradi Celsius. In un’analisi, il World Weather Attribution (WWA), un gruppo di scienziati, sostiene che questa cupola sarebbe stata “virtualmente impossibile” senza il cambiamento climatico indotto dall’uomo, che l’ha resa almeno 150 volte più probabile.

La denuncia della Contea di Multnomah cita anche l’American Petroleum Institute e la McKinsey. Sostiene che per tre giorni, alla fine di giugno 2021, la contea ha sofferto un caldo estremo, 69 persone sono morte e si è dovuto spendere denaro dei contribuenti (per acqua, condizionatori d’aria e “centri di raffreddamento“, tra le altre cose). “La cupola di calore è stata una conseguenza diretta e prevedibile della decisione degli imputati di vendere il maggior numero possibile di prodotti a base di combustibili fossili negli ultimi sei decenni“, si legge nel testo, che accusa le multinazionali di mentire sugli effetti nocivi delle loro attività.

Con questa mossa, la Contea di Multnomah si unisce a decine di città, contee e Stati di tutto il Paese che hanno intentato cause contro le compagnie petrolifere accusandole di partecipare al cambiamento climatico e di alimentare la disinformazione. Questa ondata di cause è iniziata nel 2017. L’industria dei combustibili fossili ha fatto tutto il possibile per evitare i processi statali, ma a maggio ha subito una battuta d’arresto quando la Corte Suprema ha rifiutato di accogliere i ricorsi in due casi, consentendo alle cause di fare il loro corso.

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Washington Consensus, la ricetta di Sullivan per la globalizzazione

Gli Usa e i loro alleati occidentali secondo Sullivan, consigliere per la sicurezza del Presidente degli Stati Uniti d’America Joe Biden ,devono partire dagli errori e dai punti deboli della globalizzazione per superarli creando nuovi equilibri. In particolare non è più possibile pensare a una crescita economica svincolata dalla sicurezza strategica. Ciò vale sia per la globalizzazione del futuro e i suoi scambi commerciali ma anche per l’ambientalismo, che deve cessare di essere una religione neopagana e fare i conti con la realtà.

Inoltre la crescita deve avere al centro l’industria le cui produzioni, specie quelle più strategiche, non possono essere delocalizzate; e deve essere inclusiva, cioè capace di portare benessere agli strati sociali più vasti. Ancora, occorre trovare sostegni e supporti di ogni tipo per i Paesi a basso e medio reddito cercando di colmare il più possibile il gap economico e infrastrutturale. La ricetta di Sullivan, che esprime in realtà la visione di un Presidente democratico alle prese con un mondo sempre più multipolare, ma anche più caotico, mostra la fiducia (e l’ambizione) dei ‘liberal’ americani in un mondo migliore, e la convinzione che ciò che chiamiamo Occidente, e cioè gli Usa e i suoi alleati, siano capaci di migliorare il mondo, di difendere le istituzioni democratiche, di allargare sempre di più il benessere dei popoli e anche di quelle fasce di lavoratori che sono stati duramente colpiti dai processi di globalizzazione. Si tratta di una visione positiva e a suo modo ottimista che contrasta con il pessimismo cosmico di osservatori e politologi soprattutto ma non solo europei (si veda ad esempio Lucio Caracciolo sull’ultimo numero di Limes “il bluff globale”) che vedono una crisi irreversibile dell’egemonia americana e occidentale e l’avvento ingovernabile di caos a livello planetario.

La positività della visione di Sullivan e quindi della presidenza americana sta non solo nella lucidità dell’analisi sulle insufficienze del passato ma anche nel fatto che le proposte sono concrete e strutturate e segnalano, dopo quasi un decennio di basso profilo internazionale sia pure per ragioni diverse delle due presidenze di Obama Trump, un ritorno della politica americana alla grande politica internazionale  e allo sforzo di occuparsi del destino del globo con una visione attiva o proattiva.

Dell’analisi di Sullivan sulle insufficienze della globalizzazione ci siamo occupati nel numero precedente.  Oggi vediamo di esaminare e dare conto delle proposte.

Gli obbiettivi sono chiari:

  • Ricostruire capacità industriale perduta e costruire nuova capacità nei settori di punta: conduttori, biotecnologie, intelligenza artificiale.
  • Costruire sicurezza strategica attraverso catene di approvvigionamento diversificate e resilienti, per evitare dipendenze da paesi non amici.
  • Mobilitare gli investimenti pubblici e privati per una giusta transizione verso un’energia pulita ma che sia sostenibile non solo ambientalmente ma anche economicamente e socialmente.

Il perseguimento di questi obbiettivi non comporta scelte protezionistiche o autarchiche, ma un approccio completamente diverso allo scambio e ai commerci internazionali.

L’Occidente non deve rinunciare alla liberalizzazione dei mercati ma bisogna perseguire accordi commerciali più moderni non solo basati sul livello delle tariffe doganali ma capaci di produrre risultati più generali di politica economica quali: la sicurezza delle catene di approvvigionamento, la creazione di buoni posti di lavoro che sostengano le famiglie, la garanzia della sicurezza e dell’affidabilità delle infrastrutture digitali, la promozione di una giusta e equa transizione energetica.

Un esempio di questi nuovi accordi è rappresentato dall’Indo Pacific Economic Framework, negoziato con 13 Paesi dell’area Indo-pacifica e volto a garantire l’accelerazione della transizione energetica, l’equità fiscale, la lotta contro la corruzione, standard elevati per accordi tecnologici e catene di approvvigionamento più resilienti.

L’approccio volto a connettere commercio e clima trova un’importante espressione nell’accordo globale su acciaio e alluminio che gli Usa stanno negoziando con l’Unione Europea, il cosiddetto Global Sustainable Steel.

Questo accordo dovrebbe affrontare contemporaneamente il tema delle emissioni climalteranti e della loro intensità e quello dell’l’eccesso di capacità produttiva che affligge storicamente i due settori. È necessario un forte intervento riformatore sulle regole del WTO (l’Organizzazione del Commercio mondiale) per garantire il perseguimento dei fini per cui è nato: concorrenza leale, apertura, trasparenza e stato di diritto. Pratiche e politiche non di mercato di numerosi Stati aderenti minacciano questi valori fondamentali. Per questo gli Usa e molti paesi occidentali stanno lavorando per riformare il sistema commerciale multilaterale in modo che vada a beneficio dei lavoratori, che tenga conto dei legittimi interessi di sicurezza nazionale, che promuova una transizione energetica giusta e equa.

Vi è poi l’enorme tema della mobilitazione di ingenti risorse economiche e finanziarie a favore delle economie dei Paesi emergenti.

Gli Usa e la Ue hanno avviato un grande sforzo per far evolvere le banche multilaterali di sviluppo in modo che siano all’altezza delle necessità dell’oggi. Fondo Monetario InternazionaleBanca Mondiale, Banche regionali devono ampliare i loro bilanci per affrontare le sfide del nostro tempo: cambiamento climatico, pandemie, fragilità dei territori, conflitti.

Contemporaneamente all’evoluzione delle banche multilaterali di sviluppo è stato lanciato un grande piano per colmare il divario infrastrutturale nei paesi a basso e medio reddito. Gli Usa mobiliteranno centinaia di miliardi di dollari per finanziare infrastrutture energetiche, fisiche e digitali da qui alla fine del decennio e per aiutare i Paesi, specie africani, indebitati pesantemente con la Cina in anni in cui l’Occidente è stato completamente assente da quel contesto strategico.

Infine, una considerazione sulla Cina.

Sullivan ribadisce, come fatto recentemente da Ursula von der Leyen, che gli Usa sono per il de-risking, cioè per ridurre le dipendenze strategiche dall’estero per le catene di approvvigionamento, e per la diversificazione, non per l’interruzione dei rapporti economici e commerciali con la Cina, cosa che sarebbe del tutto impossibile.

Il tema è il controllo sulle tecnologie che potrebbero alterare l’equilibrio militare, cioè la necessità di assicurarsi che le tecnologie statunitensi e occidentali non vengano usate contro gli Usa e il resto dell’Occidente.

Quindi, nessuno pensa all’ interruzione dei rapporti di scambio con la Cina: tutto l’Occidente continua e continuerà ad avere rapporti commerciali e di investimento molto consistenti con il gigante asiatico; non si tratta di cercare il confronto o il conflitto, ma di gestire la concorrenza in modo responsabile cooperando con la Cina laddove è possibile.

Questo il pensiero della presidenza democratica americana. Come si diceva, è una buona notizia, perché segna il ritorno degli Stati Uniti d’America, dopo anni di confusione e di incertezze, alla grande politica internazionale.

L’unico interrogativo che è lecito porsi è se questa impostazione consentirà a Biden di essere riconfermato presidente per il secondo mandato. In caso contrario con la vittoria di Trump o di altro candidato repubblicano tutto verrebbe rimesso in discussione.

Questa è la vera ragione per la quale l’Unione Europea, sia pur sempre nel quadro di una confermata amicizia e solidarietà euro-atlantiche, dovrebbe accelerare sulle politiche e sulle spese di sicurezza e di difesa comune e sulle politiche industriali, cercando di rimettere al centro dell’agenda l’industria, la sua innovazione, i suoi effetti sociali oltre che economici.

Washington consensus: gli Usa e le politiche di decarbonizzazione europee

Un importante discorso, pronunciato lo scorso 27 aprile alla Brooking Institution dal consigliere per la sicurezza nazionale degli Stati UnitiJake Sullivan, propone un’analisi critica di alcuni effetti della globalizzazione e si pone la questione di come fare affinché le società aperte e democratiche possano “costruire un ordine economico globale più equo e duraturo a vantaggio di noi stessi e delle persone di tutto il mondo”.

Sulla costruzione di questo nuovo ordine economico globale più equo e duraturo l’America di Biden è alla ricerca di un nuovo consenso che tenga conto degli sconvolgimenti che hanno investito il mondo negli ultimi decenni e che hanno messo in crisi il vecchio ordine mondiale: dalle crisi finanziarie che si sono succedute, ai sacrifici patiti dalle fasce di popolazione più impattate dal processo di globalizzazione dell’economia mondiale, alla pandemia che ha messo in luce la fragilità delle catene di approvvigionamento dell’occidente, fino all’invasione dell’Ucraina da parte della Russia che ha mostrato i rischi di dipendenza da nazioni e Paesi non democratici.

La riflessione parte, come detto, da una serie di considerazioni critiche su ciò che è successo negli anni della cosiddetta ‘globalizzazione’ e in particolare da ciò che non ha funzionato per gli Usa e per l’Occidente in tutto in quel gigantesco processo di trasformazione del mondo.

La prima grave insufficienza riguarda i sistemi industriali occidentali, che con lo spirare vorticoso dei venti della globalizzazione si sono progressivamente svuotati mettendo in sofferenza territori e classi sociali non protetti.

Liberalizzazione del commercio mondiale fine a se stessa, deregolamentazione, riduzione o scomparsa dell’intervento pubblico anche nei settori strategici con ritorni più lunghi e lenti: tutto ciò ha messo in crisi soprattutto gli apparati industriali di base, che sono fondamentali per tutte le filiere sottostanti.

Alla base di queste scelte politiche secondo Sullivan stava un assunto: che i mercati allochino sempre il capitale in modo produttivo ed efficiente, indipendentemente da ciò che fanno i concorrenti e da quali strumenti e politiche di protezione vengano adottati.

In nome di un’efficienza di mercato eccessivamente semplificata intere catene di approvvigionamento di beni strategici – insieme alle industrie e ai posti di lavoro che li producono – si sono spostate in paesi terzi che presentavano costi delle produzioni inferiori a quelli dell’Occidente. E il postulato secondo il quale una profonda liberalizzazione dei commerci mondiali avrebbe comportato per le economie occidentali, sempre e comunque, maggiori esportazioni, maggior benessere, maggiore crescita non si è verificato del tutto.

Altro postulato di questa visione era che il tipo di crescita non fosse importante: tutta la crescita era buona crescita. Così sono stati privilegiati alcuni settori dell’economia come la finanza e i servizi, mentre altri settori essenziali e strategici come i semiconduttori, le infrastrutture e parte dell’industria manifatturiera si sono atrofizzati.

La capacità industriale dell’Occidente ha subito duri colpi e con essa la capacità di fare innovazione.

Gli choc che negli ultimi 10/15 anni si sono succeduti colpendo l’economia mondiale, prima la crisi finanziaria del 2008/2009, poi la crisi pandemica del 2020/2021, hanno mostrato tutti i limiti di questa impostazione sovente segnata da estremismo liberista o mercatista, da eccesso di finanziarizzazione, da sottovalutazione dei problemi di sicurezza oltre che di economicità degli scambi mondiali.

La seconda grande insufficienza, le cui conseguenze peseranno, e molto, negli anni futuri, è stata il non capire che si stavano creando dipendenze strategiche dell’Occidente dalla scelte e dalle forniture di Paesi ed economie non occidentali, spesso conflittuali con noi, minando alle fondamenta la sicurezza del nostro vivere.

Questa insufficienza e incomprensione deriva dal fatto che l’impostazione della politica economica internazionale degli ultimi decenni si basava sulla premessa che l’integrazione economica avrebbe reso le nazioni più responsabili e aperte, e che l’ordine globale sarebbe stato più pacifico e cooperativo. In maniera quasi automatica e spontanea, secondo questo assunto, i Paesi coinvolti in questi processi di integrazione e nelle loro regole sarebbero stati progressivamente portati a fare proprie queste regole e a rispettarle.

Sullivan rileva e sottolinea che non è andata così. O meglio, alcuni casi sì in molti altri no.

L’integrazione della Cina nel novero dei Paesi aderenti all’organizzazione del Commercio Mondiale (WTO) ha rappresentato e rappresenta un’enorme sfida per gli apparati industriali dell’Occidente.

La Repubblica popolare cinese ha continuato, nonostante l’adesione al WTO, a sovvenzionare in modo massiccio sia i settori industriali tradizionali sia le industrie fondamentali per il futuro come l’energia pulita, le infrastrutture digitali, l’intelligenza artificiale, le biotecnologie avanzate.

L’Europa, più che gli Stati Uniti, ha creato, nei decenni di globalizzazione, dipendenze che si sono rivelate davvero pericolose: la dipendenza energetica dal gas russo in primis, ma anche la vulnerabilità delle catene di approvvigionamento di apparecchiature mediche, semiconduttori, minerali critici.

Sempre l’Europa, forzando ideologicamente i processi di decarbonizzazione, con il ricorso spinto alle energie rinnovabili e all’elettrificazione e alla mobilità elettrica come uniche tecnologie capaci di portare alla sostenibilità delle nostre economie (senza peraltro  porsi il problema della sicurezza degli approvvigionamenti) , sta ponendosi nuovamente in posizione di dipendenza strategica dalla Cina per tutto ciò che riguarda litio, cobalto, terre rare, nickel e cioè  tutto quello che serve per costruire batterie.

L’integrazione economica non ha impedito alla Cina di espandere le proprie ambizioni militari nella regione, né alla Russia di invadere i suoi vicini democratici. Nessuno dei due Paesi (Cina e Russia) è diventato più responsabile e collaborativo.

La terza grave insufficienza è stata, soprattutto in Europa, l’impostazione delle politiche di decarbonizzazione e di transizione energetica. In molte fasi recenti della storia dell’Unione Europea è sembrata prevalere un’impostazione dettata da un ambientalismo estremo trasformato in religione neopagana del nostro tempo, che demonizza il progresso economico e predica un futuro di sacrifici dolorosi oppure l’Apocalisse imminente.

La quarta grave insufficienza è stata quella di non occuparsi abbastanza delle diseguaglianze crescenti scaturite dai processi di globalizzazione.

L’ipotesi prevalente, anche qui sbagliata, era che la crescita indotta dall’espansione del commercio internazionale sarebbe stata una crescita inclusiva, che i guadagni del commercio avrebbero finito per essere ampiamente condivisi da vasti strati di popolazione agendo come un gigantesco meccanismo redistributivo della ricchezza.

Ciò è avvenuto in effetti per le popolazioni, o almeno per significative parti di esse, dei Paesi in via di sviluppo che, con la globalizzazione, hanno visto crescere il loro benessere. Ma in Occidente moltissimi lavoratori da questi guadagni non sono stati minimamente toccati. Le classi medie hanno perso sempre più terreno subendo processi gravi di impoverimento, mentre si è assistito ad una concentrazione della ricchezza, sempre di più nelle mani di pochi, anzi di pochissimi.

C’è stata, in altri termini, una progressiva disconnessione e tra politiche economiche internazionali e politiche interne; laddove queste ultime non sono riuscite a gestire le conseguenze pesanti della globalizzazione su molti settori industriali manifatturieri, nei confronti dei quali non vi è stata alcuna attenzione né cura.

Le conseguenze sociali di questa disattenzione e assenza di cura è stata la nascita e la crescita, nei Paesi occidentali, di populismi e estremismi che mettono in pericolo la convivenza civile e la stessa democrazia.

nucleare

Ue-Usa lanciano forum su piccoli reattori nucleari: “Importante per decarbonizzazione”

Il Consiglio Energia Ue-Usa “ha preso atto del ruolo che l’energia nucleare può svolgere nella decarbonizzazione dei sistemi energetici nei paesi che hanno deciso o decideranno di affidarsi all’energia nucleare”. Per questo, l’Unione europea e gli Stati Uniti hanno deciso di organizzare congiuntamente un forum ad alto livello sui piccoli reattori modulari (SMR) entro la fine dell’anno. E’ quanto si legge nella dichiarazione congiunta firmata da Bruxelles e Washington a seguito del 10° Consiglio sull’energia Ue-Usa che si è tenuto oggi nella capitale belga, co-presieduto dall’alto rappresentante Ue per la politica estera e di sicurezza, Josep Borrell, e la commissaria europea per l’Energia, Kadri Simson, insieme al segretario di Stato americano Antony Blinken e il vice segretario americano per l’Energia, David Turk.

Intanto, la Commissione Europea ha firmato con le parti interessate dell’industria Nucleare una dichiarazione sui “piccoli reattori modulari (SMR) dell’Ue per il 2030: ricerca e innovazione, istruzione e formazione“, per lo sviluppo di ricerca e innovazione nel campo dei piccoli reattori modulari, reattori nucleari più piccoli, sia in termini di potenza che di dimensioni fisiche, rispetto ai tradizionali reattori nucleari su scala gigawatt. Questa tipologia di reattori utilizza reazioni di fissione nucleare per creare calore che può essere utilizzato direttamente o per generare elettricità e la Commissione europea li considera “un’opzione promettente per sostituire le vecchie centrali a carbone e per integrare la penetrazione delle energie rinnovabili”. La dichiarazione è stata firmata dalla commissaria europea per la Ricerca e l’Innovazione, Mariya Gabriel, e dalle parti interessate del settore Nucleare dell’Ue: nucleareurope, Piattaforma tecnologica per l’energia Nucleare sostenibile (SNETP), Società Nucleare europea (ENS) e Rete europea per l’educazione Nucleare (ENEN).

La sovranità tecnologica dell’Ue richiederà sforzi congiunti in materia di istruzione, formazione, ricerca e innovazione, per gestire correttamente i rifiuti radioattivi e il combustibile esaurito e sviluppare le tecnologie di domani”, ha spiegato la commissaria Gabriel. La Commissione osserva che di fronte a una “forte concorrenza internazionale, l’Ue deve essere all’avanguardia dei nuovi sviluppi, garantendo una catena del valore industriale europea e al tempo stesso essere al top degli standard di sicurezza e protezione dalle radiazioni per i piccoli reattori”. Aggiunge che per “garantire la leadership e l’indipendenza strategica dell’Ue è necessario sostenere i migliori standard normativi e istituzionali“.

La pressione di una decina di Stati membri Ue guidati dalla Francia spinge la Commissione europea ad aprire al nucleare di nuova generazione e poche settimane fa ha confermato che metterà a disposizione dei governi degli orientamenti con standard comuni che possano aiutare nello sviluppo di una industria europea dei piccoli reattori, sebbene la scelta del mix energetico sia esclusivamente dei Paesi membri. La conferenza di oggi è stata anche l’occasione per presentare il programma di lavoro Euratom (Comunità europea dell’energia atomica) per la ricerca e la formazione del periodo 2023-2025 che mobiliterà fino a 132 milioni di euro, dentro il quale la Commissione sta lanciando la prima azione per l’innovazione di 15 milioni di euro sostenere la sicurezza dei piccoli reattori modulari ad acqua leggera. Inoltre, questo programma di lavoro destinerà 12 milioni di euro al cofinanziamento di ricercatori e industria per lavorare insieme sulla sicurezza dei reattori modulari avanzati (AMR), compresi gli SMR, con gli Stati membri interessati.

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Il Texas, da patria del petrolio ad avanguardia sulle rinnovabili

Campi anneriti da pannelli solari a perdita d’occhio e foreste di turbine eoliche che spezzano la monotonia delle pianure: il Texas, storica patria della produzione petrolifera degli Stati Uniti, è ora in prima linea in una nuova rivoluzione energetica, quella delle energie rinnovabili. A sud di Dallas, le contee di Navarro e Limestone sono il simbolo di questa transizione: culla dell’industria petrolifera texana alla fine del XIX secolo, che ha reso ricca la regione, sono ora all’avanguardia nell’energia verde.

La scorsa settimana è stato inaugurato un nuovo parco eolico dalla società energetica francese Engie, con 88 tralicci e una capacità produttiva di 300 megawatt (MW). Più a ovest, ad Abbott, un’altra città rurale, un parco solare da 250 MW ha iniziato a produrre elettricità, insieme a un’area di stoccaggio dell’energia con batterie. Secondo l’organizzazione americana Clean Power, il Texas è lo Stato americano con la quota maggiore di progetti commerciali e industriali di energia rinnovabile nel 2022. Con il 35% della capacità energetica, è ben più avanti del secondo Stato più grande, l’Illinois, nel nord del Paese, con il 7%. Il vasto Stato meridionale rappresenta anche il 20% dei progetti in corso. Ma le torri eoliche sono ancora molto lontane dal sostituire completamente le torri petrolifere nel paesaggio texano. “Certamente, quando pensiamo al Texas, pensiamo a un grande Stato del petrolio e del gas. Direi che il Texas è ricco di risorse naturali (…) e sono molto bravi a gestire queste diverse risorse“, afferma Frank Demaille, vice direttore generale di Engie.

Sede di raffinerie e dell’industria petrolchimica, il Texas dispone di una rete propria per rifornire i suoi 30 milioni di abitanti, un’eccezione negli Stati Uniti. Nel 2021, una grave ondata di freddo ha causato interruzioni di corrente per diversi milioni di case e ha provocato più di 200 morti, spingendo questo Stato conservatore a rafforzare e diversificare le proprie forniture. Il Texas è ancora largamente dipendente dai combustibili fossili: all’inizio del 2023 il gas costituirà ancora la parte più consistente del suo mix energetico (42%, secondo l’operatore di rete Ercot) insieme al carbone (11%). Tuttavia, sta dando sempre più spazio alle energie rinnovabili, in particolare all’eolico (29%) e al solare (11%). Il resto è fornito dal nucleare e dall’idroelettrico.

Utilizziamo energia convenzionale, basata sul carbonio, ma il Texas è ora leader nell’energia pulita. Penso che in futuro vedremo una combinazione delle due“, afferma Jeff Montgomery, presidente di Blattner Energy, che ha costruito 400 progetti di energia rinnovabile in tutto il Paese. “Il gas viene estratto per essere venduto all’Europa e la guerra in Ucraina ha rafforzato questa dipendenza dal gas americano e soprattutto texano. Allo stesso tempo, hanno sviluppato una vera e propria competenza nell’energia solare ed eolica“, afferma Frank Demaille. L’IRA, il grande piano verde del Presidente Joe Biden votato l’anno scorso, potrebbe accelerare la tendenza fornendo grandi sussidi per la transizione energetica.

Secondo alcuni funzionari locali, le tasse generate dalle energie rinnovabili hanno contribuito a migliorare le scuole. Ma alcuni sono più cauti, come John Null, un ingegnere di 42 anni della contea di Navarro, che sostiene che i residenti nelle vicinanze non stanno realmente beneficiando dell’investimento nell’energia eolica, visto che i giganteschi tralicci appaiono fuori dalle loro finestre. Durante l’ultima ondata di freddo all’inizio di febbraio, “sarebbe stato utile se un interruttore avesse potuto trasferire l’energia prodotta qui alla comunità vicina“, dice. Sono in corso progetti per l’alimentazione di aree svantaggiate, come un’ex discarica dove verrà costruito un parco eolico in un’area a basso reddito di Houston, la quarta città più grande degli Stati Uniti. “C’è bisogno di energia“, afferma Paul Curran, direttore esecutivo di BQ Energy, che quest’anno inizierà i lavori per un impianto solare da 50 MW. Per questo ex dirigente dell’industria petrolifera, le due energie non sono in competizione. “Non c’è alcun problema se si realizzano progetti solari o eolici nei posti giusti, nei mercati giusti. È persino ben accolto dall’industria petrolifera e dagli esperti“, afferma

In bici attraverso gli Usa per dire ‘no’ alla plastica: la sfida di due italiani

Oltre 100 km percorsi al giorno, per un totale di oltre 3000 km nel primo mese di viaggio e altrettanti ancora da percorrere. È “2 Italians Across the US”, il viaggio che Pietro Franzese ed Emiliano Fava stanno realizzando in bici da San Francisco (Golden Gate) e Miami (Key West) in totale autonomia, per raccogliere fondi a sostegno dell’associazione Plastic Free. I due viaggiatori sono ora a Houston in Texas a circa metà viaggio. “2 Italians Across the US” è iniziata il 19 gennaio a San Francisco, un viaggio che è un’impresa sportiva e un’azione di sensibilizzazione sull’impatto ambientale dell’uso della plastica monouso: un progetto che parte dall’Italia, viaggia negli Stati Uniti e arriva in Africa, e che ha ricevuto il Patrocinio del Comune di Milano. Pietro Franzese ed Emiliano Fava documentano con immagini video e foto la loro avventura negli USA e restituiscono il racconto chilometro dopo chilometro sui loro social e sui loro canali YouTube (qui e qui due degli ultimi video realizzati da Pietro Franzese, qui il video di Emiliano Fava da Los Angeles, a 800 km di viaggio), tra aneddoti di viaggio, incontri inaspettati e tramonti nel deserto a perdita d’occhio.

“Nei primi 10 giorni – raccontano – abbiamo affrontato molto dislivello, poi il percorso è diventato più pianeggiante e di nuovo molti sali e scendi impegnativi tra El Paso, che supera i 1000 m di altitudine, e Houston. Abbiamo percorso circa 3200 km, con tappe di un centinaio di km al giorno, valutando condizioni di vento e strade. La settimana scorsa, abbiamo approfittato del vento favorevole per percorrere 500 km in soli tre giorni. Abbiamo dormito in tenda, in motel e ospiti di locali. Il freddo di notte ci ha affaticati molto nelle notti in tenda, anche per il terreno molto umido”.

Il viaggio di Pietro Franzese ed Emiliano Fava è accompagnato a una raccolta fondi sulla piattaforma GoFundMe a sostegno di Plastic Free, associazione italiana che dal 2019 si occupa tramite la propria rete di volontari della creazione di appuntamenti di clean up, salvataggio delle tartarughe marine, sensibilizzazione nelle scuole e trasformazione dei Comuni in Plastic Free.
Ad oggi sono stati raccolti oltre 1200 euro, ma la raccolta continuerà fino al loro rientro in Italia. Non a caso hanno scelto, per il loro viaggio negli Usa, di raccogliere fondi per le azioni contro l’inquinamento da plastica. Gli Usa sono infatti il Paese che ha il più alto uso pro capite di plastica, specialmente monouso, al mondo. Anche l’Italia contribuisce negativamente all’inquinamento da plastica: è infatti il secondo Paese consumatore di plastica in Europa e gli italiani sono i più grandi consumatori al mondo di acqua minerale in bottiglia.

I soldi raccolti saranno interamente donati a Plastic Free e in particolare a uno dei progetti scelti da “2 Italians Across the US” come destinatario dei fondi raccolti: la salvaguardia della riserva naturale del Mida Creek in Kenya grazie alla collaborazione con l’associazione Sasa Rafiki. Grazie al progetto Plastic Free, la plastica viene raccolta dagli abitanti del luogo e portata in centri appositi per un corretto smaltimento, evitando così che venga bruciata o seppellita. Con il supporto derivato dalle donazioni di “2 Italians Across the Us” sarà possibile continuare la raccolta dei rifiuti e dotare la popolazione locale di ceste per la raccolta della plastica, rafforzando la missione di sensibilizzazione.

succo di frutta - arance

Tifoni e ‘dragone giallo’ in Usa: schizzano prezzi succo d’arancia

I prezzi del succo d’arancia negli Stati Uniti sono saliti alle stelle, al livello più alto della storia, spinti dalle prospettive di un raccolto fiacco, ridotto dalla malattia del dragone giallo e da diversi eventi meteorologici devastanti. L’attuale punto di riferimento del mercato alla Borsa di Chicago per il succo d’arancia congelato e concentrato è salito a 2,4385 dollari la libbra (circa 450 grammi). In una settimana, i prezzi sono balzati di oltre il 17%. A metà gennaio il Dipartimento dell’Agricoltura degli Stati Uniti ha dichiarato di prevedere che il raccolto 2022-2023 della Florida sarà inferiore del 56% rispetto all’anno precedente, il più basso dalla Seconda Guerra Mondiale. Prendendo come termine di paragone la stagione 2020-2021, si prevede addirittura una riduzione dei volumi di due terzi (66%).

Il principale responsabile è la cosiddetta malattia del drago giallo, nota anche come malattia di Huanglongbing (HLB), che può interrompere la maturazione degli agrumi e causare la caduta prematura dei frutti. È veicolata dallo psillide, un minuscolo insetto che trasporta un batterio che si nutre della linfa, interrompendo la crescita del frutto e causando persino la morte dell’albero. Non esiste ancora un trattamento per questa malattia, che è stata individuata per la prima volta in Florida nel 2005 e da allora ha contaminato la maggior parte dei frutteti dello Stato.

La California è molto meno colpita dal drago giallo rispetto alla Florida. Se fino al 2020 era piuttosto indietro rispetto al suo rivale, nel 2022/23 dovrebbe produrre, secondo le stime dell’USDA, circa 47 milioni di casse, ovvero il 68% in più rispetto al ‘Sunshine State’ (il soprannome della Florida). Tuttavia, le arance californiane sono in gran parte non lavorate, quindi la loro produzione ha un impatto minimo sul mercato del succo d’arancia.

La malattia è stata aggravata dal passaggio dell’uragano Ian in Florida alla fine di settembre, che ha attraversato la contea di Polk, la principale regione di produzione dello Stato. All’inizio di novembre, l’uragano Nicole si è abbattuto anche sulla Florida centrale, il cuore della coltivazione delle arance, causando ancora una volta la caduta prematura di migliaia di frutti. “L’offerta si sta riducendo – afferma Judy Ganes di J Ganes Consultingsoprattutto perché la malattia del drago giallo sta colpendo anche il Brasile, il più grande produttore di arance al mondo. E allo stato attuale, non c’è speranza che le cose cambino“.

In Florida, i coltivatori sono sotto pressione e molti non esitano più a vendere, attratti dall’aumento del prezzo dei terreni dovuto al frenetico sviluppo immobiliare, spiega l’analista. I prezzi stanno salendo a causa della mancanza di offerta, “ma questo potrebbe non durare, perché la domanda è crollata“, dice Ganes. Dall’inizio degli anni 2000, il consumo di succo d’arancia si è più che dimezzato, a causa della consapevolezza del suo contenuto di zucchero, ma anche della maggiore disponibilità di bevande zuccherate. Secondo Judy Ganes, i prezzi attuali potrebbero accelerare ulteriormente la tendenza e allontanare gli americani dal succo d’arancia.

AFP

In Canada niente Giorno della marmotta: Fred trovato morto nella sua tana

È tradizione secolare in Nord America che ogni 2 febbraio le marmotte escano dalle loro tane per predire la durata dell’inverno. Ma se la marmotta più celebre, Phil, nel villaggio di Punxsutawney, in Pennsylvania, ha previsto che l’inverno durerà altre sei settimane, in Canada la previsione è stata impossibile, almeno nella sua forma tradizionale. Il motivo? Fred, il roditore ‘meteorologo’ di Val-d’Espoir, in Quebec, non è uscito dal letargo ed è stato ritrovato morto nella sua tana. Roberto Blondin, organizzatore dell’evento, ha trovato l’animale senza vita giovedì mattina mentre cercava di farlo uscire dal letargo e ha annunciato al pubblico “la morte di Fred“.

Secondo la tradizione, sotto un bel sole come quello di ieri, se la marmotta avesse visto la sua ombra uscendo dalla tana, i meteorologi avrebbero potuto prevedere altre sei settimane di inverno. Nonostante la morte del mammifero, gli organizzatori del hanno tenuto in piedi una marmotta imbalsamata e hanno predetto una primavera molto tardiva grazie alla sua ombra.

La tradizione del Giorno della Marmotta, che cade il 2 febbraio di ogni anno, è stata portata negli Stati Uniti dagli agricoltori tedeschi che si affidavano al comportamento dell’animale per sapere quando iniziare a piantare nei loro campi e la cerimonia si svolge in molti paesi del Nord America. Se Phil il roditore – si chiama così dal 1887 – vede la sua ombra, perché la giornata è soleggiata, i suoi custodi di Punxsutawney concludono che l’inverno durerà altre sei settimane e che l’animale può tornare in letargo. A New York, Chuck, che si è rintanato nel quartiere di Staten Island, è stato molto più ottimista: secondo lui la primavera è dietro l’angolo, come prevede da otto anni. Nonostante questo, il vero servizio meteorologico degli Stati Uniti prevede temperature gelide per venerdì e sabato sulla megalopoli americana e stimato che le marmotte abbiano ‘azzeccato’ “solo circa il 40%” del tempo negli ultimi dieci anni.