Meloni: L’Europa di Ventotene non è la mia. E’ bufera alla Camera

Non so se questa è la vostra Europa ma certamente non è la mia”. Alla fine del suo intervento alla Camera, in una mattinata piuttosto tesa, Giorgia Meloni legge alcuni passaggi del manifesto di Ventotene, ne prende le distanze e nell’Aula si scatena l’inferno. Le opposizioni fischiano, urlano “vergogna”, i banchi diventano ring, a destra si applaude, a sinistra si grida. La seduta viene sospesa due volte.

Le frasi del testo scritto nel 1941 da Altiero Spinelli e Ernesto Rossi richiamano a una rivoluzione europea “socialista“, in cui “la proprietà privata deve essere abolita, limitata, corretta, estesa caso per caso”. Ogni frase scandita tra sguardi e pause. “Nelle epoche rivoluzionarie, in cui le istituzioni non debbono già essere amministrate, ma create, la prassi democratica fallisce clamorosamente – prosegue la premier leggendo il testo -. Nel momento in cui occorre la massima decisione e audacia, i democratici si sentono smarriti, non avendo dietro di sé uno spontaneo consenso popolare, ma solo un torbido tumultuare di passioni”. Tra gli scranni risuona l’ira delle opposizioni, Meloni si interrompe, il presidente della Camera Lorenzo Fontana richiama all’ordine, tutto viene spostato di qualche ora, al primo pomeriggio, per rimettere in ordine le idee e il bon ton istituzionale.

E comunque, prima della bufera, in sede di replica, la premier accarezza già l’argomento dell’Europa, che deve occuparsi di “meno cose” e “meglio”. Meloni si prepara al Consiglio europeo di domani bollando come un errore la “pretesa” di affidare a Bruxelles “qualsiasi materia di riferimento”, comprese quelle sulle quali gli stati nazionali sarebbero un valore aggiunto. La prima ministra cerca una via d’uscita per rispondere ai dazi di Donald Trump senza apparire debole o suddita di certe dinamiche.

Ma se, a cascata, l’ombrello della difesa degli Stati Uniti dovesse chiudersi definitivamente per il Vecchio Continente, non ci troverebbe ancora pronti. Per questo, l’invito è quello di riflettere su una risposta che non danneggi noi, prima che gli americani. “Non c’è dubbio che per noi siano un problema”, ribadisce. L’Italia è una nazione esportatrice, la quarta al mondo. Al momento, c’è un surplus commerciale nei confronti degli Stati Uniti nei beni e gli Stati Uniti hanno nei nostri confronti un surplus commerciale nei servizi. Potrebbe essere una carta da giocare per cercare una soluzione che eviti una guerra commerciale.

Sulla difesa, il punto è capire come pagare gli 800 miliardi per il Piano proposto da Ursula von der Leyen. L’Italia ha chiesto e ottenuto lo scorporo delle spese della difesa dal calcolo del patto di stabilità. Ma Meloni va oltre e domanda l’intervento dei privati. “Non possiamo non porre il problema che l’intero piano si basa quasi completamente sul debito nazionale degli Stati”, chiosa in Aula. E’ la ragione per la quale con il ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti sta elaborando una proposta che ricalca quello che accade attualmente con InvestEU: “garanzie europee per gli investimenti privati”.

I fondi di Coesione, in Italia, non saranno toccati, garantisce. Resta da chiarire cosa si intenda per spese di difesa. Per questo il governo ha posto la questione: “Io penso che Rearm Europe confonda i cittadini”, sottolinea. La maggioranza sull’investimento nelle armi è spaccata. Oggi da Bruxelles lo stesso Matteo Salvini lancia un avvertimento chiaro alla premier: “Giorgia Meloni ha mandato per difendere l’interesse nazionale italiano, punto. Non penso che quello di cui sta parlando qualcuno a Bruxelles corrisponda all’interesse nazionale italiano, e neanche all’interesse dei cittadini europei”, mette in chiaro. Ma la presidente del Consiglio allarga il perimetro del dominio della sicurezza, “molto più ampio del banale acquisto di armi”, spiega. “Nel tempo in cui viviamo – ripete – riguarda le materie prime critiche, riguarda le infrastrutture strategiche, riguarda la cyber sicurezza, riguarda la difesa dei confini, riguarda la lotta ai trafficanti, riguarda la lotta al terrorismo, sono spesso materie che non si fanno, che non si affrontano comprando armi. Quando mi occupo di cyber sicurezza non lo faccio con le armi, lo faccio per esempio con l’intelligenza artificiale”.

Mercato europeo dell’auto stabile nel 2024: prendono sopravvento modelli ibridi

Secondo i dati pubblicati martedì dalla lobby dei costruttori automobilistici Acea, nel 2024 le auto ibride prenderanno il controllo del fiacco mercato automobilistico europeo, mentre le elettriche perderanno terreno. La quota di mercato delle auto elettriche in Europa è scesa per la prima volta da quando il mercato è decollato nel 2020, attestandosi al 13,6% nel corso dell’anno (ma al 15,9% a dicembre). Con il loro elevato prezzo di acquisto, i modelli elettrici sono stati penalizzati dall’abolizione dei sussidi in Germania, il principale mercato europeo, ma l’elettrificazione del mercato sta assumendo forme molto diverse a seconda del Paese e del marchio. Le vendite di auto elettriche hanno continuato a crescere in Belgio, Danimarca e Paesi Bassi e nel 2025 potrebbero registrare una ripresa con l’arrivo di modelli meno costosi. Sulle coste europee, nel Regno Unito, l’introduzione di obiettivi di vendita ambiziosi ha portato a un’esplosione delle vendite (+21,4%).

Tra i marchi, il pioniere dell’elettricità Tesla ha visto le sue vendite diminuire del 13,1% nell’Unione Europea, mentre Volvo (+28%) ha beneficiato del lancio di nuovi modelli elettrici. Soprattutto le auto elettriche sono state superate dall’esplosione delle vendite di auto ibride. Questi modelli più versatili e meno costosi, dotati di un motore a benzina ma anche di una piccola batteria elettrica che si ricarica durante la guida, permettendo di percorrere alcuni chilometri senza inquinare, hanno conquistato il 30,9% del mercato (33,1% a dicembre). Le ibride stanno rosicchiando la quota di mercato dei modelli a benzina (-4,8% al 33,3% su base annua) e hanno addirittura raddoppiato la loro quota negli ultimi quattro mesi del 2024. Il diesel ha continuato a crollare (-11,4%), tranne che nell’Europa dell’Est. Le buone vendite di ibridi hanno favorito Toyota-Lexus (+17,5%) e il gruppo Renault (+1,9%), campioni di questi propulsori.

Questa è l’anticamera della transizione verso i veicoli elettrici”, ha sottolineato il direttore di Renault Fabrice Cambolive presentando i dati di vendita a metà gennaio. Dopo aver conquistato i SUV di grandi dimensioni, gli ibridi stanno guadagnando quote di mercato sui modelli Renault più piccoli, come il SUV Captur e la compatta Clio, e potrebbero fare ulteriori progressi in Paesi ancora esitanti nei confronti dei veicoli elettrici, come Italia e Spagna, ha sottolineato Cambolive. La lobby automobilistica chiede inoltre all’Unione Europea “flessibilità” nella sua politica di riduzione delle emissioni di gas serra. I produttori europei si oppongono alle possibili multe che potrebbero essere imposte dall’UE se non dovessero raggiungere gli obiettivi di riduzione delle emissioni fissati per il 2025.

In un’intervista rilasciata all’Afp il 16 gennaio, il direttore generale dell’Acea Sigrid de Vries ha parlato di un rischio “esistenziale” per l’industria, in un momento in cui diversi produttori hanno annunciato tagli di posti di lavoro in Europa. Il mercato delle auto elettriche “non si sta sviluppando come dovrebbe”. L’Ue “non può accontentarsi di avere obiettivi sulla carta ed essere molto rigida. Dobbiamo adattarci alle condizioni del mondo reale”, ha affermato. Considerando tutte le energie, il mercato automobilistico è rimasto stabile nel corso dell’anno (+0,8%), con 10,6 milioni di nuove auto immatricolate nell’Unione Europea, ancora lontane dai livelli pre-Covid.

Francia, Germania, Italia e Belgio hanno messo in circolazione meno auto nel 2024, mentre Spagna, Portogallo e Polonia hanno registrato un aumento delle vendite. Il leader di mercato Volkswagen è cresciuto del 3,2%, grazie soprattutto al marchio Skoda, mentre Fiat e Opel hanno registrato un crollo delle vendite che si è riflesso sul -7,2% della casa madre Stellantis.

Ripulire l’Europa dai PFAS costerebbe tra i 95 e i 2mila miliardi di euro in 20 anni

Ripulire l’acqua e il suolo europeo dagli ‘inquinanti eterni’ (PFAS) costerebbe almeno 95 miliardi di euro in 20 anni nelle condizioni più favorevoli, e il conto potrebbe raggiungere i 2.000 miliardi di euro, secondo un sondaggio di diversi media coordinato da Le Monde. La fascia alta “è molto probabilmente la più realistica”, scrive Le Monde, sulla base di ricerche universitarie e di un’indagine condotta dal consorzio mediatico Forever Lobbying Project su queste sostanze per- e polifluoroalchiliche. Inoltre, la stima “non include l’impatto dei PFAS sui nostri sistemi sanitari, né una miriade di esternalità negative troppo difficili da quantificare”, aggiunge il quotidiano. Si tratta del seguito di una vasta indagine pubblicata nel 2023, che ha rivelato “almeno 23.000 siti” nel continente inquinati da queste sostanze chimiche apprezzate per le loro proprietà antiaderenti, idrorepellenti o antimacchia.

Virtualmente indistruttibili, questi ‘inquinanti eterni’ comprendono più di 4.700 molecole e si accumulano nel tempo nell’aria, nel suolo, nei fiumi e persino nel corpo umano. Secondo gli studi iniziali, se esposti per un lungo periodo, possono avere effetti sulla fertilità o favorire alcuni tipi di cancro. Per quantificare i costi della bonifica, i media, in collaborazione con due ricercatori, hanno attinto alle “scarse informazioni scientifiche ed economiche disponibili” e ai “dati locali raccolti da pionieri del settore”. “Ciascuno degli scenari della nostra valutazione si basa su una serie di scelte conservative, il che significa che i costi sono quasi certamente sottostimati”, spiega in dettaglio lo studio. La fascia bassa – 4,8 miliardi di euro all’anno – corrisponde a “uno scenario irrealistico” con ipotesi “ultra-ottimistiche”: nessun nuovo inquinamento da PFAS “da domani”, bonifica limitata ai siti prioritari e agli inquinanti attualmente regolamentati – ignorando le nuove sostanze utilizzate dai “primi anni 2000”. Se l’inquinamento continuasse e si procedesse a una bonifica approfondita, “il conto salirebbe a 2.000 miliardi di euro in vent’anni”, ovvero 100 miliardi di euro all’anno, secondo Le Monde, soprattutto perché “la decontaminazione rappresenta un’immensa sfida tecnologica e logistica”.

Alcune tecniche avanzate di filtraggio dell’acqua, ad esempio, richiedono molta acqua ed energia. E gli inceneritori convenzionali non sono abbastanza potenti per distruggere i PFAS nei rifiuti domestici, sottolinea l’indagine. Viste le somme colossali in gioco, “limitare le emissioni di PFAS per fermare l’aumento della bolletta è essenziale”, conclude Le Monde. L’inchiesta, basata su “migliaia di documenti”, mette in luce anche una campagna dei produttori, descritta come “molestie alle autorità pubbliche da parte di un’armata di lobbisti”, per “annacquare o addirittura uccidere” una proposta di divieto dei PFAS a livello europeo.

Se a Trump il rapporto con l’Europa interessa poco o nulla

Donald Trump ha vinto le elezioni americane ed è nuovamente presidente degli Stati Uniti d’America.

La vittoria è stata netta in tutti gli stati chiave e anche in termini di numero di votanti Trump ha superato di larga misura la Harris (quasi 71 milioni di voti contro 66). Trump ha preso più voti in tutte le classi sociali, in tutte le classi di età.

Grazie alla schiacciante vittoria Trump avrà la maggioranza sia al Congresso che al Senato, dove la maggioranza degli eletti è fatta da senatori “trumpiani” di stretta osservanza, e ciò attribuisce al nuovo Presidente poteri quasi assoluti se si considera che controlla anche la Corte Suprema. Io non ricordo, nella più importante democrazia del mondo, una situazione di concentrazione di poteri simile con il venir meno dei classici balance.

Ci sarà tempo e modo per analizzare e comprendere la dimensione e le determinanti di questo voto a partire dalla debolezza e dalla mancanza di leadership della candidata democratica. Una consistente maggioranza di cittadini americani ha votato per un signore molto discusso, sul quale pendono ancora giudizi penali, che non ha mai riconosciuto di aver perso le elezioni precedenti, che ha appoggiato se non ispirato una sedizione popolare contro la vittoria di Biden sfociata nell’assalto a Capitol Hill.

Bisognerà capire il perché di tutto ciò e chiedersi se, al di là di Trump che in definitiva è un uomo in carne e ossa come tutti noi, di 78 anni, provato da anni di vicende difficili e che perde qualche colpo come si è visto in campagna elettorale, la sua vittoria sia il segno di un cambiamento epocale nella storia della democrazia statunitense.

Ma bisognerà anche chiedersi come abbia pesato su questo voto il concentrarsi della proposta dei democratici Usa e di Kamala Harris prevalentemente sui diritti civili con una sempre più scarsa attenzione ai diritti sociali, al tema del lavoro e a quello della tutela delle categorie più colpite (ceto medio e classe operaia) dai venti impetuosi della globalizzazione e alle loro richieste di benessere, stabilità e sicurezza.

Nel frattempo è lecito chiedersi che cosa la vittoria di Trump significhi per gli europei, per l’Europa e per la nostra Italia e quali saranno le conseguenze per il mondo intero della nuova Presidenza. Si tratta di questioni difficili sulle quali dico la mia opinione con molta umiltà e dal mio punto di vista di operatore economico internazionale ma molto concentrato sui temi dell’industria europea e italiana.

Ho detto e scritto più volte che probabilmente l’ultimo Presidente Usa con un po’ di sensibilità atlantica è stato Biden. A Trump il rapporto con l’Europa interessa poco o nulla essendo totalmente concentrato sulla confrontation con la Cina nell’area pacifica.

Ciò ha una serie di conseguenze che potrebbero essere non positive per l’Europa a meno che non diventino dei veri e propri shock destinati finalmente a far comprendere all’Unione Europea quali sono le sfide che le stanno dinanzi, a farle cambiare l’attitudine da prima della classe che, sul piano economico e del confronto con gli Usa e con la Cina, è stata fino ad oggi disastrosa. Un atteggiamento che in venti anni ha fatto perdere all’Europa un terzo del suo PIL nei confronti di quello statunitense e che la vede superata in tutti i settori di punta e innovativi dagli Usa e dalla Cina.

Vediamo rapidamente quali potrebbero essere le conseguenze dell’elezione di Trump.

È molto probabile che ci sarà da parte americana un ulteriore indurimento delle politiche protezionistiche e di protezione dell’industria nazionale che, per la verità, anche la presidenza Biden ha mantenuto. Si parla di dazi monstre sulle auto elettriche cinesi e ciò significa che le esportazioni cinesi, spinte dalla sovra capacità produttiva in tutti i settori industriali di quel Paese, si riverserà nelle aree più aperte, quali appunto l’Europa, mettendo ancora più in crisi i nostri sistemi industriali.

Trump continuerà con tutte le politiche finanziarie e di supporto ai sistemi economici e produttivi statunitensi, allenterà le politiche contro il climate change e la transizione aumentando ulteriormente l’asimmetria con le politiche europee di transizione e ciò causerà ulteriore svantaggio competitivo  per le nostre imprese industriali.

Probabilmente ci sarà negli USA una nuova fase di deregulation finanziaria molto pericolosa tenuto conto dell’importanza delle banche e dei fondi americani e dell’enorme liquidità da questi raccolta.

Ci sarà poi, quasi sicuramente, la richiesta del nuovo Presidente americano ai Paesi europei di aumentare le loro spese per la difesa e la loro contribuzione annuale alle spese Nato così da consentire agli Usa di ridurre il loro contributo che oggi è preponderante. Ciò obbligherà l’Europa a vere decisioni sul tema della difesa comune e della sicurezza strategica, decisioni che impatteranno i bilanci dei Paesi europei con il rischio di un’ulteriore compressione della spesa sociale e sanitaria.

Più in generale c’è il rischio di un indebolimento della solidarietà occidentale per disimpegno statunitense da tutti i teatri che non siano il Pacifico e il confronto con la Cina.

Fa bene Ursula Von der Leyen a rilanciare la necessità di un rinnovato patto atlantico che leghi ancora di più Usa ed Europa. Ma questo appello, fatto dopo la vittoria di Trump, rischia di essere tardivo e di apparire strumentale.

Infine ci sono i due grandi punti interrogativi relativi alle due guerre in corso e sul confronto prossimo venturo con la Cina.

Trump ha detto che farà terminare le due guerre  in pochi giorni e che mai ci sarà una nuova guerra nel corso del suo mandato.

A proposito della aggressione russa all’Ucraina cosa significa questo? Minore aiuto militare a Kiev? Concessioni a Putin sulle sue richieste territoriali e di “finlandizzazione” dell’Ucraina? Ma è possibile che il Presidente degli Stati Uniti d’America faccia vincere Putin? Difficile crederlo ma vedremo.

In Medio Oriente l’appoggio a Israele invece sarà mantenuto e addirittura potenziato nella difesa del suo diritto all’esistenza e nel contenimento delle politiche di destabilizzazione dell’area da parte dell’Iran. Non bisogna dimenticare che gli accordi di Abramo firmati nel 2020 da Israele, Emirati Arabi Uniti, Bahrain, Marocco e Sudan e che, prima dell’assalto di Hamas ad Israele del 7 ottobre 2023, stavano per essere firmati anche dall’Arabia Saudita furono probabilmente il maggior successo diplomatico della prima amministrazione Trump.

Infine la confrontation con la Cina. I legami economici e finanziari e l’interscambio (nonostante i dazi) tra le prime due potenze del mondo sono talmente importanti che ci si chiede fino a dove potrà spingersi questa confrontation. Quanti Apple vengono venduti in Cina ogni anno? Quanti billions del debito americano sono sottoscritti dalla Cina?

La vittoria di Trump apre tutti questi interrogativi. Il tempo ci aiuterà a comprendere quella che a tutti gli effetti appare come una svolta epocale nei destini del mondo.

Mattarella: “Indispensabile creare ‘campioni’ europei. Ue completi sistema finanziario”

Photo credit: Quirinale

La prima visita di Stato di Sergio Mattarella in Germania conferma e rafforza la partnership con l’Italia. Il capo dello Stato tocca diversi temi negli incontri previsti dalla sua agenda a Berlino, che inizia dal colloquio con il presidente della Repubblica federale di Germania, Frank-Walter Steinmeier, a Palazzo Bellevue. “È assolutamente indispensabile creare ‘campioni’ europei” che possano reggere il confronto a livello internazionale, in uno spirito “collaborativo e non competitivo con ‘campioni’ di altre parti del mondo”.

Lo spunto viene da una domanda dei cronisti sulla stretta attualità, con la trattativa Unicredit-Commerzbank e il rapporto sulla competitività elaborato dall’ex governatore della Bce, Mario Draghi. “I settori più avanzati sono decisivi per il futuro, ma sono anche quelli in cui i soggetti europei sono in grandissima minoranza”, per cui è indispensabile avviare un percorso “suggerito anche dal rapporto Draghi”. In questo senso la storica collaborazione tra Italia e Germania può essere di grande aiuto: “Le nostre economie sono strettamente connesse, come dimostrano sia i dati sull’interscambio commerciale che gli investimenti diretti” e “la collaborazione si sviluppa in tanti settori, soprattutto quelli altamente tecnologici, che sono più proiettati verso il futuro e dove ci sono interessi condivisi”, dice Mattarella. Ricordando che Berlino “non è solo alleato della Nato e co-fondatore dell’Unione europea, ma un partner imprescindibile”, dice ancora Mattarella. Anche nella sfida della transizione energetica e green, che “non può essere vinta dai singoli Paesi, ma va affrontata con collaborazione e solidarietà”.

Sulla lotta ai cambiamenti climatici, il capo dello Stato si sofferma anche al brindisi in occasione del pranzo di Stato offerto a Berlino per la sua visita dal presidente Steinmeier, definendola “indispensabile e indifferibile”. Il tema sarà anche al centro della sessione conclusiva del seminario ‘La cooperazione tra Italia e Germania: un importante strumento per il contrasto al cambiamento climatico e la transizione energetica globale’, organizzato per sabato al Campus delle Nazioni Unite di Bonn.

Mattarella, a Berlino, vede anche il cancelliere tedesco, Olaf Scholz, col quale affronta argomenti come l’Ucraina, la guerra in Medio Oriente e la crisi di Gaza, la questione del Libano e l’Unione europea. Ribadendo, come fatto in mattinata nel bilaterale con Steinmeier, quanto sia necessario “il completamento del sistema finanziario comune, perché una grande moneta unica deve averne uno definito e non parziale”, così come procedere con “la Difesa comune” e “procedure decisionali più snelle e veloci, per dare risposte alle sfide. Perché – avverte il presidente della Repubblica – se l’Ue non è in grado di fornirle velocemente, lo faranno altri per noi e con verrebbe meno il senso della convivenza pacifica dell’Unione”.

Temi su cui il presidente della Repubblica federale tedesca concorda in pieno. Confermando la “profonda amicizia italo-tedesca” che “vogliamo approfondire e mantenere”. Steinmeier mette l’accento anche sul ruolo centrale del nostro Paese nel Mediterraneo. “Sappiamo che gli approvvigionamenti energetici vanno ampliati e diversificati, Italia e Germania sono uniti nella transizione energetica e nella lotta ai cambiamenti climatici”, spiega. Aggiungendo che il suo Paese si sta attivando “per accelerare lo sviluppo delle energie rinnovabili e delle infrastrutture transfrontaliere”, guardando con molta attenzione alla produzione di idrogeno su cui sta concentrando buona parte delle attenzioni l’industria italiana. In questo modo, per il presidente tedesco, “possiamo fare un passo avanti importante per la decarbonizzazione delle nostre industrie”.

Ma tutto parte da un principio base, che lo stesso Steinmeier esprime, ma su cui Mattarella è pienamente d’accordo: “Bisogna profondere ogni sforzo perché l’Ue resti forte e unita”, perché è quella “la base su cui costruire il futuro comune”.

 

Il globalismo mercatista non sa proteggere l’industria europea

L’annunciata possibile chiusura di stabilimenti di produzione della Volkswagen in Germania appare come il simbolo della crisi profonda in cui versano molti settori dell’industria europea (l’automotive è uno di questi) per troppo tempo maltrattati dalle politiche dell’Unione.

Per i tedeschi la vicenda è uno shock: sarebbe la prima volta in 87 anni di storia che il colosso automobilistico chiude una sua fabbrica in patria.

La ragione delle ventilate chiusure è, secondo l’AD di Volkswagen Olivier Blume, che “la Germania come sede di produzione di auto sta perdendo terreno in termini di competitività, e che il clima economico è diventato ancora più difficile, e nuovi operatori stanno entrando in Europa”.

Il tema della perdita di competitività dell’Europa e della sua industria, e del gigantesco gap di crescita nei confronti di altre aree economiche forti del mondo (Usa e Cina innanzitutto), si impone con brutalità nel dibattito sul futuro della nostra economia e del nostro modello sociale; e richiama i gravi errori commessi dall’Unione Europea negli ultimi 20 anni.

Abbiamo la speranza che l’Europa si interroghi con umiltà su questi errori e che cerchi realisticamente di porvi rimedio.

È di questi giorni la notizia che settori maggioritari della CDU, colpiti dalla vicenda Volkswagen e dall’esito delle elezioni in Turingia e Sassonia, chiederebbero di rivedere in sede europea la scadenza del 2035 per l’eliminazione delle auto con motore endotermico. Questo della messa al bando dei motori endotermici è un perfetto esempio dell’estremismo ideologico ambientalista che ha permeato le decisioni dell’Unione, e che è stato subìto e poco contrastato anche dalle case automobilistiche europee, che avevano una leadership a livello mondiale proprio su questo tipo di motori.

La crisi è così grave da aver indotto Ursula Von der Leyen a commissionare a Mario Draghi uno studio proprio sul recupero di competitività; studio che è stato presentato proprio in questi giorni e che, a tratti, ha accenti drammatici.

Ma del lavoro di Mario Draghi ci occuperemo nel prossimo numero di PL.

Oggi ci interessa approfondire il tema, comunque connesso alla tenuta dell’industria europea, della sua protezione tramite diverse misure compresi i dazi.

Storicamente l’Unione Europea è stata l’area del mondo più aperta al commercio internazionale, nella quale i principi di libero scambio e dell’apertura totale, così come quello della limitazione all’intervento dello Stato in economia, sono stati costitutivi dell’Unione stessa.

Da più parti, alla luce tanto della performance di crescita così modesta dell’economia europea negli ultimi venti anni quanto della conclamata crisi di interi settori industriali esposti alla competizione internazionale, si chiede oggi di rivedere quei principi ritenendoli non più adeguati alla fase che stiamo vivendo.

Il ragionamento che viene fatto è più o meno il seguente: le due grandi economie che hanno sopravanzato l’Europa in termini di crescita e innovazione nei settori di punta come IA, biotecnologie, farmaceutica ecc., cioè Stati Uniti d’America e Cina, non declinano i principi del libero scambio e del non intervento dello Stato in economia ma, al contrario, sono caratterizzate da forti politiche protezionistiche a difesa delle industrie interne (USA) e da un forte intervento dello Stato: in USA attraverso la spesa militare, in Cina attraverso le sovvenzioni gigantesche a quasi tutti i settori industriali. Se si guardano i loro risultati in termini di crescita del PIL, dell’occupazione e della leadership tecnologica questa impostazione sembrerebbe molto più efficace di quanto non siano le politiche europee di libero scambio e di non intervento dello Stato in economia.

A questa tendenza critica nei confronti dell’impostazione di politica economica e industriale dell’Unione, che ritiene sempre più necessario un cambio di passo e che guarda alle protezioni come strumenti necessari nelle condizioni date, si oppongono correnti politiche e di pensiero che sostengono e sottolineano i benefici della globalizzazione e dei mercati aperti.

Questa seconda visione si rifà alla ‘mano invisibile’ di Adam Smith (per cui l’interazione sul libero mercato degli agenti economici, ciascuno mosso soltanto dal proprio self interest, determinerebbe il massimo benessere per l’intera collettività) e alla teoria dei ‘vantaggi comparati’ di Ricardo (per cui ogni paese può trarre vantaggio dal commercio internazionale perché lo stesso favorisce a specializzazione produttiva, garantisce una maggiore produzione a livello mondiale e consente un miglioramento del tenore di vita delle popolazioni) e sostiene con forza la tesi che l’Europa non debba infilarsi in una spirale protezionistica ma debba continuare ad essere il più grande presidio mondiale dell’apertura dei mercati.

Come industriale ed esponente di Confindustria, spesso mi si chiede di esprimere la mia opinione in materia, anche perché in questi anni non ho lesinato forti critiche ad un’impostazione europea che non ha messo l’industria al centro.

La mia opinione è che il tema vada affrontato con spirito pragmatico, tenendo conto delle condizioni reali in cui si trovano l’economia e l’industria europee e ricordando sempre che anche le teorie economiche sono figlie della storia e rispecchiano quindi le diverse fasi e i diversi interessi degli attori in campo.

Ovviamente per un paese esportatore come l’Italia (nel 2023 l’industria manifatturiera italiana ha fatturato 1200 miliardi di euro ed ha esportato per 670 miliardi di euro; e nei primi sei mesi del 2024 abbiamo probabilmente superato il Giappone in quanto a esportazioni) un’impostazione favorevole al commercio e agli scambi internazionali è obbligatoria. Tra l’altro essendo l’Italia un Paese senza materie prime importiamo anche moltissimi beni primari, semiprodotti e componenti, che vengono interiorizzati nei nostri manufatti. Da una chiusura dei commerci internazionali trarremmo solo danni.

Allo stesso tempo anche l’industria italiana vede interi settori di base (posso citare quello della ceramica e delle piastrelle perché è un caso emblematico) esposti alla concorrenza internazionale e fortemente danneggiati e spiazzati: dall’alto costo dell’energia che penalizza l’Europa rispetto alle altre aree del mondo concorrenti; dalle insensate modalità con cui nell’era Timmermans l’Europa ha condotto le politiche di decarbonizzazione; e dalla lentezza con cui fino ad oggi l’Unione Europea ha gestito le pratiche di antidumping e di contrasto alla concorrenza internazionale sleale.

Questi settori rischiano di scomparire non per loro inefficienza ma per condizioni al contorno penalizzanti.

Non parliamo poi di quando, come nel caso delle auto elettriche, i concorrenti (Cina innanzitutto) sono sovvenzionati dallo Stato e riescono a essere competitivi in maniera sleale perché appunto favoriti da sussidi e aiuti pubblici. La sovracapacità produttiva cinese, estesa a quasi tutti i settori dell’industria manifatturiera, e la decisione del Governo di Pechino di non rallentare mai le produzioni, neanche nei momenti di crisi, cercando sbocchi nelle esportazioni sostitutive della domanda interna che non beve, costituisce, e costituirà sempre di più in futuro, un gigantesco fattore di destabilizzazione dell’economia mondiale. Il tasso di statalizzazione dell’industria cinese sta crescendo velocemente per scelta politica e quindi la competizione sarà sempre più viziata e distorta.

Se non si interviene con forti misure di protezione, ad esempio per il comparto automobilistico e per altri settori dell’industria europea, questi sono destinati a sparire in pochi anni, con tutte le conseguenze economiche e sociali del caso. Lo stesso Draghi nel suo rapporto sostiene la necessità di questa protezione.

Sempre Draghi per giustificare questo approccio di protezione di taluni settori industriali ha affermato, con efficace metafora, che in una giungla abitata da animali carnivori è difficile sopravvivere essendo erbivori.

Un’altra considerazione che mi sento di fare è quella relativa ad un quadro geo-politico in forte cambiamento all’interno del quale l’Occidente, che difende libertà e democrazia, deve fare i conti con economie e Paesi autocratici, teocratici, dittatoriali, neo-imperialisti che hanno come obiettivo la sconfitta dell’Occidente e dei suoi valori.

È il tema che va sotto il nome di de-risking, che significa che il commercio internazionale non può diventare uno strumento per mettere a rischio i livelli di sicurezza delle nostre democrazie. Ovviamente ciò vale soprattutto per le forniture militari, ma anche per l’elettronica, le biotecnologie, l’aereospazio ecc.

In questa nuova situazione dobbiamo abituarci a pensare ad aree di libero scambio tra Paesi amici, che condividono gli stessi valori e interessi, e a una maggiore cautela negli scambi con chi non perde occasione per attaccare l’Occidente.

Ciò complica ancora di più il quadro e ci fa capire come si devono usare contemporaneamente, e in misura mirata, strumenti di protezione e di apertura ai mercati calibrando attentamente il peso e la portata degli interventi. E ciò lo si deve fare senza ideologismi ma con tanto pragmatismo.

Si tratta di un esercizio difficile e sofisticato che l’Europa finora non è stata in grado di fare.

C’è un caso recente che spiega bene il concetto e mostra gli errori compiuti anche in tempi recenti dalla Commissione e la sua incapacità a capire il nuovo: durante la sua presidenza Trump introdusse un sistema di dazi a protezione dell’acciaio e dell’alluminio americani. L’UE giustamente ha protestato a lungo contro questa misura ritenendola incompatibile con le regole del Wto (l’Organizzazione del Commercio Internazionale), regole che per la verità solo l’Europa rispetta.

Il Presidente Biden, per venire incontro alle lamentele europee, ha aperto un negoziato con l’UE proponendo un’area di libero scambio fatta da Usa, Canada, Messico, UE, Corea del Sud, Giappone e Australia nella quale questi dazi su acciaio e alluminio non sarebbero più esistiti, a condizione di mantenere la protezione daziaria nei confronti della Cina.

L’Europa, per ragioni ideologiche e probabilmente per il terrore tedesco ogni volta che vengono ventilate misure nei confronti della competizione sleale della Cina, ha rifiutato la proposta di Biden, così oggi i dazi americani sull’acciaio e l’alluminio sono ancora lì, e ancora la siderurgia europea non riesce a esportare un Kg di acciaio negli Usa.

Ciò che facciamo fatica a far capire alla politica e alla tecnocrazia comunitaria, intrise di ideologia globalista e mercatista, è che i cambiamenti vanno governati e che senza attenzione all’industria e alla sua sopravvivenza ben presto anche il modello sociale europeo di cui siamo tanto orgogliosi non esisterà più. I ceti sociali più deboli, non sentendosi protetti, si rivolgono al populismo e alla protesta estrema e anche per questo le nostre democrazie saranno in pericolo.

Lo sbandamento politico di Francia e Germania deve fare riflettere al riguardo.

Se la manifattura è debole… il petrolio (forse) sta peggio

Una manifattura debole in mezzo mondo, dagli Usa alla Cina passando per l’Europa, e le voci insistenti di un possibile aumento della produzione dei Paesi Opec hanno sgonfiato i prezzi del petrolio, che rivedono i minimi da un anno. Nemmeno l’attacco ad opera degli Houthi nello Yemen a una petroliera saudita ha ravvivato gli acquisti. Anzi, proprio l’assenza di smentite del club di Vienna, dove ha sede l’organizzazione internazionale degli Stati esportatori di greggio, su un cambio di rotta della politica di tagli alla produzione (comunque non del tutto rispettata) che prosegue da un paio di anni, ha fatto peggiorare le quotazione di Wti texano e Brent europeo, i quali lasciano sul terreno circa il 4%, col primo che scivola a 70,6 e il secondo a 74,2 dollari al barile.

Venerdì la Reuters ha rilanciato sei fonti dell’Opec+ che inizieranno ad allentare i tagli alla produzione a partire da ottobre. Se l’organizzazione decidesse di avviare il processo di incremento della produzione a ottobre, ciò sarebbe ampiamente compensato dalle significative perdite nella produzione di petrolio della Libia, membro dell’Opec, iniziate la scorsa settimana. Finora, la produzione della Libia ha visto un -700.000 barili al giorno per la chiusura dei giacimenti petroliferi da parte del governo orientale della Libia. Un calo che offre all’Opec+ un po’ di margine agli altri membri per iniziare il lento processo di aumento della produzione di greggio senza alterare il numero complessivo di barili che entrano nel mercato. Sarebbero 8 i Paesi membri dell’Opec+ pronti a pompare 180.000 barili al giorno in più a ottobre come parte del piano esistente del gruppo per annullare i 2,2 milioni di barili al giorno di tagli volontari.

Certo è che, al di là della battaglia per il controllo del mercato petrolifero tra Opec e Paesi non Opec (dagli Usa alla Guyana), sono anche i dati economici a indicare un rallentamento della manifattura e di conseguenza della domanda di greggio. I prezzi sono stati appesantiti infatti dagli ultimi dati economici dalla Cina, che hanno mostrato che l’attività delle fabbriche continua a contrarsi, con l’indice ufficiale dei direttori degli acquisti dell’Ufficio nazionale di statistica che ha mostrato come l’attività manifatturiera di Pechino si sia contratta per il quarto mese consecutivo ad agosto, raggiungendo il  valore più basso degli ultimi sei mesi.

In Europa, Francia e Germania continuano a navigare all’interno di una profonda fase di contrazione come hanno testimoniato ieri gli indici Pmi industriali. E oggi pomeriggio l’indice Ism manifatturiero americano è risalito leggermente a 47,2 ad agosto, dal minimo di novembre 2023 di 46,8 registrato a luglio, ma è risultato inferiore alle stime di mercato di 47,5, segnalando così la 21esima contrazione mensile dell’attività manifatturiera statunitense negli ultimi 22 mesi. Quinto ribasso di fila.
La Federal Reserve e la Bce taglieranno i tassi nelle prossime settimane per allentare la pressione e non deprimere ulteriormente la domanda. Da vedere se non sia troppo tardi.

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Pichetto: “Le e-car sono il futuro, ma ora diciamo no alla monocultura dell’elettrico”

Le e-car saranno sicuramente il futuro “tra 15-20 anni“, ma per il momento l’Italia dice “no alla monocultura dell’elettrico“. Parola di Gilberto Pichetto. Il ministro dell’Ambiente e della sicurezza energetica, ospite del panel sui cambiamenti climatici alla quinta edizione della ‘Venice Soft Power Conference‘, riprende la vecchia ‘battaglia‘ sulla neutralità tecnologica e annuncia una delle prime mosse che il governo intende portare avanti una volta che si sarà insediata la nuova Commissione Ue: “Chiederemo di iscrivere i biocarburanti nella tassonomia europea, allargando il loro uso oltre aviazione e marina“.

Il concetto base non cambia: “Per raggiungere i nostri ambiziosi obiettivi dobbiamo fare in modo che la politica climatica vada di pari passo con la nostra economia e la nostra società”, dunque anche l’Europa deve attivarsi per tenere insieme la tutela ambientale, i target climatici ma anche la sostenibilità per le tasche dei cittadini. Altrimenti “il rischio che si corre è di introdurre riforme e provvedimenti che rendano la transizione ecologica invisa all’opinione pubblica – avverte -. Che il cambiamento sia vissuto come un peso, un limite, non come un’opportunità”. Non a caso, sfruttare appieno le opportunità che arrivano dallo sviluppo della tecnologia è proprio la strada che Roma suggerisce a Bruxelles: “Non abbiamo bisogno di un’Europa proibizionista, ma di un’Europa innovativa che ponga le esigenze economiche, finanziarie e sociali dei suoi cittadini al centro del futuro approvvigionamento energetico”.

In questo senso non si può rinviare ancora la discussione su uno dei temi maggiormente divisivi nel dibattito pubblico e politico. “Sul nucleare il Parlamento si è espresso per andare avanti con ricerca e sperimentazione, ma tutte le forze politiche devono essere coscienti, e ancor di più lo devono essere i cittadini, perché ci sono stati due referendum sul tema, che senza questa tecnologia non ci sono altre forme di energia per raggiungere gli obiettivi”, sia energetici che ambientali.

Le sole fonti alternative non bastano è mantra ripetuto spesso da chi ha responsabilità di governo. Ma Pichetto coglie l’occasione per togliersi anche qualche sassolino dalle scarpe: “Il problema del consenso è fondamentale, anche se colgo qualche contraddizione in chi a Roma ci accusa di essere negazionisti e poi blocca le rinnovabili a livello locale dove governa”. Ogni riferimento al braccio di ferro con la Sardegna sulla legge per le aree idonee dove installare nuovi impianti, appare puramente voluto.

Nel discorso, molto articolato, che il ministro porta al tavolo della discussione a Venezia, c’è anche la necessità di cambiare approccio con i Paesi da cui oggi ci forniamo per gli approvvigionamenti energetici. Primo tra tutti l’Africa. L’Italia ha lanciato da tempo il Piano Mattei: “Il nostro Governo vuole invertire la rotta, puntando a un cambio di prospettiva per costruire con i nostri vicini della sponda Sud del Mediterraneo un rapporto partitario e non predatorio”, assicura Pichetto. Che allarga la riflessione: “Il Piano Mattei incarna una missione storica dell’Italia, che oggi si riprende con orgoglio il proprio spazio” nel Mediterraneo, dove “riveste un ruolo cruciale” anche come “ponte” con l’Europa.

Ma i vantaggi sono potenzialmente più ampi e importanti, per tutti. Perché “la diffusione delle rinnovabili in Nord Africa è un contributo essenziale alla transizione energetica, sia diminuendo le emissioni globali complessive sia fornendo energia pulita da esportare nell’Europa che ne ha bisogno”. La stagione politica è ripresa.

Verdi, l’italiano Luca Guidi in corsa per il ruolo di co-portavoce della Fyeg

Luca Guidi dei Giovani Europeisti Verdi, la giovanile di Europa Verde, è candidato per il ruolo di co-portavoce della Federazione dei Giovani Verdi Europei (Federation of Young European Greens). La Federazione riunisce tutte le giovanili dei partiti Verdi d’Europa contando oltre 60mila iscritti.

Finora i due co-portavoce sono stati Sean Currie dei Giovani Verdi Scozzesi e Benedetta Scuderi dei Giovani Verdi Italiani, recentemente eletta come eurodeputata nelle file di Alleanza Verdi e Sinistra. Luca Guidi sarà dunque l’unico candidato di tutto il sud Europa all’Assemblea Generale della Federazione dei Giovani Verdi Europei, che si terrà a Dublino dal 22 al 23 agosto prossimi.

Green Deal trascurato e inevitabile tra fondi Ue e sponde capitalistiche

Secondo un parere della Commissione Politica di coesione territoriale e bilancio dell’Ue (Coter) del Comitato europeo delle regioni (Cdr), adottato mercoledì 3 luglio, l’Unione europea dovrebbe sostenere tutte le regioni nella realizzazione di una transizione giusta ed equa, in particolare quelle fortemente dipendenti da un unico settore economico o da industrie ad alta intensità energetica. Come sostiene la Coter, le difficoltà incontrate nell’approvazione dei piani di transizione e la riduzione dei fondi alla fine del periodo di programmazione evidenziano la necessità di prorogare il termine per l’utilizzo delle risorse del “Fondo per la transizione” nell’ambito del piano di ripresa dell’Ue di prossima generazione. Il parere invita la Commissione europea a semplificare i finanziamenti e a migliorare la trasparenza nel prossimo quadro finanziario pluriennale (Qfp) dell’Ue post-2027. Presa a prestito da Agence Europe, uno dei punti di riferimento dell’informazione da Bruxelles e su Bruxelles, questa notizia offre lo spunto per rivisitare il Green Deal nell’ottica della Commissione che sarà.

E intanto… Manfred Weber, nominato presidente del Ppe, ha ribadito in un recente intervista che dal Green Deal non si torna indietro. Weber è stato seguito a ruota da Ursula von der Leyen che, nel delicato tentativo di mettere insieme una maggioranza non traballante, ha posto sempre il Green Deal tra le cinque priorità dei prossimi cinque anni di governo. Ovviamente ammesso che, come accade spesso nei Conclave, chi entra Papa non esca cardinale. Green Deal, per la verità, che è stato sorpassato a sinistra da altre tematiche cogenti come la competitività, la Difesa, le questioni sociali e la semplificazione normativa. Sintetizzando: la transizione verde è indispensabile ma non così indispensabile come nel 2019. Ora: cosa sia cambiato in meglio o in peggio dopo un lustro di propositi più o meno buoni è difficile da stabilire con determinazione matematica, ma che siano indispensabili delle correzioni ‘in corsa’ questo è ineluttabile.

Con o senza i Verdi, oppure anche solo con l’appoggio esterno, il Green Deal continuerà a esserci. Giusto. Ma qui si torna al punto di partenza: più delle ideologie e di certe rigide ottusità saranno i denari da investire nella transizione verde a fare la differenza. E di denari ne serviranno davvero tanti: in fondo, più le pratiche sono virtuose più i costi aumentano. Saranno determinanti i fondi privati e il buonsenso collettivo, sarà determinante coinvolgere sempre di più Cina, India e Stati Uniti in un percorso che abbia cura del Pianeta senza creare ulteriori diseguaglianze non solo tra Paesi ma tra blocchi di Paesi, come ad esempio la Ue e i Brics.

Il presidente di Federacciai, Antonio Gozzi, scrive in un suo intervento che “dietro l’estremismo ambientalista, ideologico ed astratto, che purtroppo ha orientato negli ultimi dieci anni anche le politiche europee contro il climate change e per il così detto green deal, ci siano anche alcuni ‘grandi vecchi’, sconfitti nel loro credo dalla storia, ma che hanno rivestito lo spirito e il pregiudizio anticapitalista e anti-impresa con le bandiere dei verdi”. Cita Noam Chomsky e Robert Pollin e giunge a sostenere che Occidente e Stati Uniti andranno avanti ma dovranno fare i conti con il popolo. “’Voi parlate della fine del mondo ma noi ci preoccupiamo della fine del mese. Come sopravviveremo alle vostre riforme?, è questa la domanda pressante a cui bisogna dare risposte concrete onde evitare un rigetto totale delle politiche ambientaliste”, sottolinea Gozzi.

Non è indispensabile essere d’accordo, è fondamentale riflettere. E fornire risposte concrete. Il cambiamento climatico è sotto i nostri occhi, “non ci sono più le stagioni di una volta” direbbe qualcuno, ed è una evidenza che si abbatte sulle economie, sul turismo, sull’agricoltura. Come se ne esce? E’ chiaro che ricerca, innovazione, nuove tecnologie, rinnovabili, nucleare sono gli ingredienti indispensabili di una ricetta che, comunque, dovrà avere il sostegno economico di Stati e di industrie. Finanziare il futuro delle generazioni future: non è uno slogan ma una necessità. Insomma, adelante ma con juicio.