La competitività dell’Ue passa anche dal settore farmaceutico. Foti: “Ridurre burocrazia”

Un’industria che investe 37 miliardi all’anno in ricerca e sviluppo, che dà lavoro a 800 mila persone altamente qualificate e che rappresenta un valore aggiunto di oltre 100 miliardi sui mercati internazionali. Ma un settore ancora altamente frammentato e in cui le carenze rischiano di divenire strutturali. È il complesso stato dell’arte dell’industria farmaceutica europea fotografato oggi all’evento Connact Pharma dal titolo ‘Il rilancio della competitività europea attraverso il settore farmaceutico’. Il rilancio passa inevitabilmente dalle riforme in cantiere a Bruxelles, il pacchetto farmaceutico e la legge sui medicinali critici.

In apertura alla tavola rotonda, il direttore dell’ufficio del Parlamento europeo in Italia, Carlo Corazza, ha fissato l’obiettivo: “Dobbiamo rafforzare un settore che è assolutamente essenziale per la nostra autonomia strategica”. Per farlo, la Commissione europea ha messo sul tavolo già nell’aprile del 2023 un pacchetto di riforma della legislazione farmaceutica, pronto ora per approdare ai negoziati interistituzionali tra Consiglio dell’Ue ed Eurocamera. A corredo della riforma, questa primavera, il commissario per la Salute, Olivér Varhelyi, ha presentato una legge per assicurare ai Paesi membri l’approvvigionamento di farmaci essenziali.

In un videomessaggio, Varhelyi ha sottolineato alla platea che di fronte ci sono “enormi opportunità di porre l’Ue all’avanguardia nel mondo”. I segnali positivi non mancano: il surplus commerciale di prodotti medicinali e farmaceutici – ha sottolineato l’ungherese – “è passato da 157 miliardi nel 2023 a 194 miliardi nel 2024”. Secondo il commissario, il primo passo è la creazione di uno spazio europeo dei dati sanitari, “un sistema federato senza precedenti per l’uso di big data nella ricerca medica”.

Dopodiché, c’è bisogno di norme “moderne, flessibili e snelle”. La legislazione farmaceutica vigente, d’altronde, risale a più di vent’anni fa. Ora, le priorità sono “ridurre la burocrazia, accorciare i tempi di valutazione per l’autorizzazione di nuovi medicinali nel mercato, semplificare la struttura dell’agenzia Ue per i medicinali”. Ma soprattutto, rispondere alle preoccupanti carenze periodiche di medicinali che si verificano in alcuni Stati membri. Come certificato proprio ieri dalla Corte dei conti europea, secondo cui su farmaci e medicinali esistono ancora “troppe barriere alla libera circolazione”.

L’innovazione “deve raggiungere chi ne ha bisogno, indipendentemente da dove viva nell’Ue”, ha affermato Varhelyi, convinto che la riforma in cantiere “creerà le condizioni per un migliore accesso dei pazienti senza compromettere gli interessi delle aziende”. In particolare, il Critical Medicines Act prevede un nuovo regime per gli aiuti di Stato, un maggior supporto a progetti strategici e l’istituzione di appalti collaborativi transfrontalieri e partenariati internazionali.

Gli Stati membri hanno adottato la propria posizione sul pacchetto farmaceutico prima della pausa estiva, ed hanno iniziato le discussioni sulla legge sui medicinali critici. Sul primo, “l’Italia in stretto coordinamento con la Francia ha ribadito l’importanza di un giusto equilibrio tra accesso ai farmaci e sostegno all’innovazione”, ha spiegato Tommaso Foti, ministro per gli Affari europei. Sul secondo, Roma ha evidenziato “l’impianto molto burocratico e non adeguato alla natura strategica del tema”.

Il ministro ha avvertito sul rischio di “indebolimento della proprietà intellettuale” insito alla riforma della legislazione europea, sottolineando che per l’Italia “la priorità è valorizzare i distretti produttivi nazionali e garantire il ruolo decisionale degli Stati membri nelle valutazioni della vulnerabilità della filiera”. Per rafforzare la capacità produttiva europea e scongiurare dipendenze da Paesi terzi, Foti suggerisce di puntare su “incentivi semplici, criteri di aggiudicazione degli appalti che non siano basati esclusivamente sul prezzo” e soprattutto sull’eliminazione di “duplicazioni di obblighi per i produttori”, una “follia che produce burocrazia su burocrazia del tutto inutile”.

“Senza soluzioni concrete per ricerca, produzione e accesso, l’autonomia strategica dell’Europa in materia di salute rischia di diventare una chimera. Servono urgentemente soluzioni per allineare le aspettative sul settore e riconoscere pienamente il valore dell’innovazione e della produzione a 360°” ha commentato Paolo Saccò, global public affairs del Gruppo Chiesi per le politiche interne. “Il settore farmaceutico europeo – ha detto Piero Rijli, corporate director regulatory affairs&market access del Gruppo Menariniè da sempre fondamentale per la salute dei cittadini, ma oggi rischia di vacillare. Senza interventi mirati, l’Europa rischia di diventare meno competitiva e sempre più dipendente dall’estero, anche per quei farmaci essenziali che dovrebbero essere la base della nostra autonomia strategica”.

Industria, Gozzi: “Non c’è più tempo, l’Ue deve cambiare. Ma sono pessimista”

Il Rapporto Draghi sulla Competitività ha avuto una cassa di risonanza enorme sull’Europa un anno fa. Dodici mesi dopo, sembra essere rimasta solo la eco, o quasi. Lo stesso ex presidente della Bce, su invito della presidente della Commissione Ue, Ursula von der Leyen, ha fatto il punto sullo stato delle cose dalla pubblicazione di quel documento, notando e annotando che molti dei punti sono rimasti ancora nella lista delle cose da fare. Con tanto di aumento a 1.200 miliardi di euro del conto delle risorse necessarie a realizzarle. “Il problema è che le cose devono accadere o è finita anche la funzione di stimolo di Draghi, che non può ogni sei mesi dire all’Europa ‘fate qualcosa’. Questo è il vero nodo”. A dirlo è il presidente di Federacciai e Special Advisor di Confindustria per l’Autonomia strategica europea, Piano Mattei e competitività, Antonio Gozzi, che a GEA commenta, a mente fredda, l’intervento dell’ex premier.

Presidente Gozzi, come giudica il quadro disegnato da Draghi?

In termini di analisi facciamo un grosso passo avanti, nel senso che una persona così autorevole, con questa reputazione e questa credibilità, dice ciò che noi sosteniamo da anni: questo ci rincuora perché non eravamo proprio fuori strada, ma se qualcuno ci avesse ascoltato, probabilmente avremmo perso meno tempo. Colpisce il fatto che inizialmente Draghi disse che ci volevano 500 miliardi all’anno per recuperare il gap, poi al Parlamento disse che ci sarebbero voluti 800 miliardi, mentre ieri ha parlato di 1.200 miliardi di euro l’anno. Questo significa che il fattore tempo non è neutrale, cioè la distanza continua ad aumentare e l’ex Bce all’Europa dice che non c’è più tempo”.

In molti punti è sembrato di sentire le voci degli imprenditori italiani, e anche la sua.

Draghi è molto critico sul Green Deal, dice che i presupposti sulla base dei quali è stato pensato e disegnato non ci sono più, che il mondo è cambiato. Inoltre, dice una cosa molto forte sul 2035, che bisogna garantire transizione energetica e decarbonizzazione fatti secondo la neutralità tecnologica, quindi che i motori endotermici, i plug-in, gli ibridi e i motori endotermici con biocarburanti e combustibili sintetici sono da lui sdoganati. Il fatto che sostenga queste cose è molto importante, ma non ha lui in mano le leve delle decisioni. Purtroppo, se vedo questo anno di governo von der Leyen II, sono usciti documenti in cui si faceva formale ossequio al rapporto Draghi, al tema della competitività e anche della neutralità tecnologica, poi però non c’è stato niente. Solo un po’ di semplificazione, con l’eliminazione degli obblighi di rendicontazione dei bilanci di sostenibilità per le piccole imprese, poi basta”.

Cosa prevede per il futuro?

Sono pessimista, perché in questo anno, al di là dei proclami, vedo un immobilismo totale. Di misure vere non ne sono state prese, si continua con questo tran tran e nella migliore delle ipotesi si va avanti a comprare tempo. Adesso vedremo cosa succederà sull’auto”.

L’Automotive resta uno dei temi più caldi in Europa, con il dibattito sullo stop ai motori endotermici al 2035 che riprende quota.

Draghi ha detto chiaramente che è sbagliato e ha avuto il coraggio di dire che hanno disintegrato un’eccellenza industriale europea. Mi ha colpito molto anche ciò che ha detto il presidente dell’Associazione europea dell’indotto automobilistico: nel 2025 il settore, in Europa, ha perso 80mila posti di lavoro e stimano che ne perderanno altri 20-30mila nel 2026. Questo vuol dire che in due anni, solo sull’indotto automobilistico, si saranno persi 100mila posti di lavoro. Poi si stupiscono che gli operai della Volkswagen votano Afd”.

Questo è un argomento interessante.

Se i temi dell’industria e degli effetti economici e sociali non interessano più a nessuno, e in particolare non interessano ai partiti socialisti perché sono tutti innamorati di Greta Thunberg, non ci si può lamentare che estremismi di sinistra e di destra stiano prevalendo in Europa. I non tutelati esprimono un dissenso di soddisfazione nei confronti di questa politica. In più, abbiamo questa aggressione cinese con prodotti ormai di altissima qualità tecnologica, a prezzi scottati del 30%, nei confronti dei quali l’Europa non riesce a difendersi. Spesso li fanno con le sovvenzioni dello Stato, quindi si rendono protagonisti di una competizione sleale nei confronti dell’industria europea”.

La situazione sta sfuggendo di mano?

Senza sistema industriale non esiste più il Welfare. Arrivo a dire che senza sistema industriale non esiste manco più la democrazia, perché gli estremismi di destra e di sinistra diventano talmente radicali che c’è anche al rischio di sommovimenti politici. Anzi, li stiamo rivedendo in Francia. In Germania non hanno coraggio di andare alle elezioni (anche se la Grosse Koalition è un elemento di blocco, perché i socialisti alcune cose non le vogliono fare) perché c’è il rischio che l’Afd sia il primo partito e in Olanda vinceranno i sovranisti di destra. Ciò che mi colpisce è che non c’è mai un accenno autocritico di chi ha gestito l’Europa negli ultimi 10-15 anni. Non voglio colpevolizzare nessuno, però l’autocritica serve per cercare di capire dove si è sbagliato e provare a non sbagliare più in futuro”.

Draghi, però, parla anche di energia ancora a prezzi troppo alti come freno per la competitività.

Non è successo niente sull’acciaio, nonostante sia uscito il documento sull’acciaio, e non è successo niente sull’energia, nel senso che continua a essere cara. Anche lì c’è un tema molto chiaro, Draghi non si è spinto fino là, ma io l’avrei fatto. Siccome in tutta Europa il prezzo dell’elettricità è determinata col sistema del marginal price, quindi vuol dire che il costo del megawatt è determinato dal costo della centrale turbogas più inefficiente, per l’order merit, questo metodo di calcolo del prezzo dell’elettricità porta in sé 25 euro di effetto ETS. Draghi ieri ha parlato di disaccoppiamento, ma questa è una norma assolutamente europea. Basterebbe eliminare transitoriamente l’ETS dai turbogas e immediatamente l’energia elettrica in Europa costerebbe 25 euro al Megawattora in meno. Ma non hanno il coraggio di farlo, perché il tema dell’ETS è un tabù. La proposta di Confindustria, che vede anche Elettricità Futura d’accordo, è dare i 20 Twh degli impianti a fondo corsa per gli incentivi al GSE, al presso di 65 euro al MWh, cioè quello dell’Energy Release, per ampliarne la potenza di fuoco, facendo un’operazione equilibrata dal punto di vista anche del climate change e della decarbonizzazione”.

Nell’elenco degli ostacoli c’è da mettere anche l’accordo sui dazi Usa, non trova?

Abbiamo anche la beffa: nell’accordo fatto con Trump sui dazi c’è scritto che le imprese americane, in Europa, non sono tenute a rispettare quella norma sul CS3D”.

In questo scenario, l’Italia che ruolo può svolgere?

Siamo il secondo Paese industriale d’Europa, godiamo di una stabilità di governo che tutti ci invidiano e ci ammirano nel casino generale che c’è in Europa. Però, la stabilità non è un fine ma un mezzo e deve servire a fare qualcosa. Al tavolo europeo l’Italia deve rivendicare la forza del suo sistema industriale, la necessità di cambiare strada sulle politiche industriali e lo deve fare senza titubanze. In questo momento godiamo di una finestra che non abbiamo mai avuto. Bisogna sfruttare questa credibilità e questa reputazione per cercare di cambiare i destini europei. Poi si farà la battaglia e si perderà, magari. Però vale la pena giocare questa partita”.

Chiudiamo con una buona notizia, perché i dati di Federacciaio dicono che la produzione di acciaio in Italia è aumentata del 7,3% ad agosto e del 3% nei primi 8 mesi del 2025.

Guardiamo al 2026 con relativo ottimismo, pensiamo che non sarà un anno brutto. Abbiamo goduto del Pnrr, perché i grandi investimenti infrastrutturali hanno generato domanda d’acciaio, soprattutto nei prodotti lunghi, come travito e cemento armato, però non c’è solo quello. In questo momento c’è un po’ di rimbalzo di domanda, i clienti tornano ad acquistare, ma questo lo fanno quando pensano che domani il prezzo salirà. Gli acquisti e l’aumento di produzione derivano da un aumento della domanda e i clienti stanno andando a scale di anticipazione degli acquisti, perché prevedono che i prezzi domani saranno più elevati. Naturalmente, ci sono fattori geopolitici internazionali che sono imponderabili, ovvero le due guerre. Pensi cosa succederebbe se si fermassero i due conflitti, con le esigenze di ricostruzione che ci sono in Ucraina, in Medio Oriente e altrove. Cosa significherebbe in termini di domanda d’acciaio”.

Germania, fiducia delle imprese sale a sorpresa ma peggiorano giudizi su situazione attuale

Migliora a sorpresa la fiducia delle imprese tedesche, raggiungendo il livello più alto dal 2022. L’indice delle aspettative Ifo, il più importante in Germania, è aumentato per il quarto mese consecutivo, segnando su agosto 91,6 punti dai 90,8 di luglio, mentre quello di fiducia si è alzato leggermente a 89 punti dagli 88,6 di luglio (ottavo incremento di fila). Un aumento comunque inaspettato per il mercato che si attendeva un calo di circa un decimo di punto data l’incertezza causata dai dazi e da un Pil in contrazione nel secondo trimestre. Peggiora in effetti l’indicatore sulla situazione attuale (da 86,5 a 86,4, ai livelli di aprile), a segnalare che la ripresa dell’economia tedesca rimane debole. Nel settore manifatturiero, l’indice è sceso leggermente così come quello sulle aspettative. Non si registrano ancora segnali di ripresa degli ordini. Anche tra i servizi il clima è peggiorato (a 2,6 punti rispetto ai 2,8 di luglio): da un lato, la valutazione della situazione attuale è notevolmente migliorata, mentre dall’altro è aumentato lo scetticismo.

Secondo Carsten Brzeski, analista Ing, “non è ancora chiaro da dove provenga l’ottimismo” che ha innalzato l’indicatore Ifo, ma al momento tutte le speranze per una ripresa sostenibile della Germania risiedono nel maxi piano di investimenti in infrastrutture, energia e difesa del governo Merz. Tuttavia, spiega Brzeski “l’attuale dibattito politico sulle possibili misure di austerità potrebbe indebolire l’impatto, almeno psicologico, degli stimoli fiscali annunciati per le infrastrutture e la difesa”. Secondo Ifo, le aspettative dei datori di lavoro a 6 mesi sono migliori nei settori dell’edilizia e della vendita al dettaglio, ma sono peggiorate appunto nell’industria e nei servizi. A pesare sulla situazione attuale, invece, sono i dazi statunitensi sulle importazioni nonostante l’accordo di fine luglio tra Usa e Ue per un’aliquota al 15% che comprende anche auto e relativi pezzi di ricambio. “Le imprese stanno sfruttando l’accordo commerciale con Washington per migliorare la loro capacità di pianificazione piuttosto che l’innegabile peso delle tariffe doganali più elevate” ha spiegato Elmar Völkel di LBBW Bank.

Secondo l’istituto nazionale di statistica (Destatis), nel secondo trimestre il Pil tedesco è sceso dello 0,3% (annullando la crescita registrata tra gennaio e marzo), penalizzato proprio dalle difficoltà dell’industria, colpita dal primo giro di dazi doganali americani. Economia e industria tedesche saranno particolarmente influenzate dal commercio, dal tasso di cambio e dagli stimoli fiscali. “Sebbene i mercati finanziari sembrino essere diventati insensibili agli annunci di dazi, non dimentichiamo che i loro effetti negativi sulle economie si manifesteranno gradualmente nel tempo – ricorda Brzeski di Ing -. Le Pmi potrebbero diventare vittima prediletta dei dazi Usa, poiché avranno più difficoltà a delocalizzare la produzione rispetto alle grandi aziende”. Se a ciò si aggiunge il rafforzamento del tasso di cambio dell’euro, non solo rispetto al dollaro Usa ma anche con altre valute, “è difficile immaginare come l’economia tedesca, dipendente dalle esportazioni, riuscirà a uscire da una stagnazione apparentemente infinita nella seconda metà dell’anno”.

Ok Ue a Energy Release 2.0. Pichetto: Sosteniamo industria e acceleriamo su transizione

Disco verde della Commissione europea all”Energy Release 2.0‘ del Mase a sostegno dei grandi energivori. Bruxelles conferma la compatibilità della misura con le regole del mercato interno e con la disciplina in materia di aiuti di Stato.

“Abbiamo costruito un modello che tiene insieme competitività industriale, transizione ecologica e rigore europeo”, rivendica Gilberto Pichetto Fratin. Il sostegno ai grandi consumatori elettrici, osserva il ministro, “non è un privilegio, ma uno strumento per difendere l’occupazione, rafforzare le filiere strategiche e attrarre investimenti”. Il ministero dell’Ambiente risponde così al grido d’aiuto delle imprese, davanti a un caroprezzi che non sembra arrestarsi, vincolando al tempo stesso l’aiuto pubblico a un impegno industriale e ambientale chiaro: “restituire quanto ricevuto con nuova energia pulita”. Pichetto parla di un confronto con la Commissione Europea “leale e costruttivo”: “È una misura che guarda al futuro e rappresenta un esempio di buona collaborazione tra istituzioni nazionali ed europee”, spiega.

Iniziamo a dare una risposta reale a migliaia di imprese, per contenere i costi energetici e affermare le rinnovabili”, fa eco il ministro degli Esteri Antonio Tajani, secondo cui l’Italia si pone come “apripista in Europa di una misura innovativa, che coglie in pieno la necessità di sostenere le aziende energivore, in un’ottica di decarbonizzazione dei settori produttivi”.

Aiutare le aziende “significa tutelare occupazione, filiere strategiche e crescita. Questo risultato dimostra che è possibile unire supporto economico e responsabilità ambientale per rafforzare la competitività italiana”, sostiene la viceministra dell’Ambiente, Vannia Gava.

Il provvedimento si articola in due fasi: una prima di sostegno tramite fornitura di elettricità a prezzo calmierato, 65 euro al MWh, e una seconda fase che prevede l’obbligo, per i beneficiari, direttamente o tramite terzi, di restituire integralmente il vantaggio ricevuto attraverso la costruzione o il finanziamento di nuova capacità da fonti rinnovabili.

A seguito delle interlocuzioni con la Commissione sono state introdotte modifiche, tra cui la facoltà offerta agli energivori di trasferire l’impegno alla restituzione e alla realizzazione della nuova capacità a soggetti terzi individuati tramite una apposita asta da parte del GSE. Il meccanismo, basato sull’utilizzo dell’energia rinnovabile già gestita dal GSE e sull’attivazione di nuova capacità green, consente di sostenere le imprese più esposte al caro energia, contribuendo al tempo stesso agli obiettivi di decarbonizzazione, autonomia energetica e transizione giusta.

La produzione industriale italiana torna a salire oltre le stime dopo 26 mesi di calo

Il taglio continuo dei tassi e un calo degli ordini meno forte spinge la produzione industriale italiana a battere un colpo. Ad aprile segna un balzo dell’1% rispetto a marzo, superando le previsioni di una crescita zero. Inoltre, dopo 26 mesi consecutivi di calo tendenziale, si registra un +0,3% anno su anno. Nella media del periodo febbraio-aprile – evidenzia l’Istat – l’incremento del livello della produzione è dello 0,4% rispetto ai tre mesi precedenti. Mese su mese, buon andamento per beni di consumo (+1,8%), strumentali (+0,8%) e intermedi (+0,2%).

A livello tendenziale energia +1,8% e beni di consumo +1,1%. Calano, invece, i beni intermedi (-0,4%) ei beni strumentali (-0,7%). In particolare i settori di attività economica che registrano gli incrementi tendenziali maggiori sono l’industria del legno, della carta e stampa (+4,7%), la fornitura di energia elettrica, gas, vapore ed aria (+4,3%) e la fabbricazione di computer e prodotti di elettronica (+3,3%). Le flessioni più ampie si registrano nella produzione di prodotti farmaceutici di base e preparati farmaceutici (-11%), nella fabbricazione di mezzi di trasporto (-9,5%) e nella fabbricazione di coke e prodotti petroliferi raffinati (-5,0%). “Ad aprile l’indice destagionalizzato della produzione industriale registra un incremento congiunturale (+1,0%); si osserva una moderata crescita anche su base trimestrale (+0,4%).

“Anche oggi l’ Istat certifica il disastro delle politiche industriali del Governo Meloni. Non sarà certo il primo mese di flebile aumento della produzione industriale su base annua, ovvero aprile 2025, a cancellare l’immane gravità del record storico di 26 mesi precedenti di crollo della produzione stessa. Del resto i conti più importanti si fanno annualmente”, commentano in una nota i parlamentari M5S delle Commissioni bilancio, finanze e attività produttive di Camera e Senato. “La storia è nota: provvedimenti fallimentari o impalpabili come Transizione 5.0 o l’Ires premiale costituiti micidiali concause del peggior periodo industriale della storia italiana”, concludono i pentastellati. “La produzione industriale riparte dopo due anni di contrazione, e questo grazie alle politiche del governo Meloni. ritrovata linfa del nostro tessuto produttivo dopo due anni in cui la sinistra ha colto ogni occasione per mettere i bastoni tra le ruote al nostro esercizio senza peraltro riuscirsi. Appare ovvio che sia solo un inizio ma significativo sicuramente in cui va sottolineata la ritrovata capacità dell’Italia governata dalla destra con misure tese a sostenere imprese, famiglie, lavoratori ed artigiani”, replica il senatore di Fratelli d’Italia, Matteo Gelmetti, componente la Commissione Bilancio a Palazzo Madama.

Sul fronte sindacale, per il segretario confederale della Cisl Giorgio Graziani, “questo segnale positivo, pur contenuto, può rappresentare, pur in uno scenario di incertezza dovuto alle politiche americane sui dazi e ai conflitti in corso, un punto di svolta importante per il nostro sistema manifatturiero”. Ora però “serve urgentemente un Patto per l’Industria – prosegue Graziani – che coinvolga istituzioni, parti sociali e imprese in una strategia condivisa che trasforma la possibile ripresa in crescita strutturale, attraverso investimenti mirati in ricerca, digitalizzazione e transizione verde, affrontando il gap competitivo rispetto alla media europea negli investimenti industriali, valorizzando il potenziale del Mezzogiorno come risorsa strategica nazionale, accompagnando le transizioni senza sacrificare l’occupazione, investendo massicciamente in formazione e riqualificazione professionale”.

Il ministro delle Imprese e del Made in Italy, Adolfo Urso, ha invece usato la risoluzione della crisi de La Perla per commentare il dato diffuso da Istat. “Pochi credevano” al salvataggio “perché la materia era estremamente complessa”, ma “è importante che questo coincida proprio oggi coi segnali positivi per la ripresa industriale del Paese. E’ importante che accada proprio oggi che un’icona così significativa del Made in Italy ha una prospettiva di rilancio industriale importante grazie a investitori internazionali”, ha concluso.

La produzione industriale rialza la testa e vede la luce in fondo al tunnel

Rialza subito la testa la produzione industriale. Dopo il -3,1% mensile di dicembre, gennaio ha aperto l’anno con un +3,2% congiunturale. Un dato nettamente superiore alle attese che indicavano un +1,5%. Una volatilità così elevata nella misura destagionalizzata ha a che fare con la distribuzione dei giorni lavorativi nei due mesi.

Confrontando infatti il periodo novembre-gennaio con il trimestre precedente, abbiamo una crescita piatta, che è un quadro più credibile dello stato effettivo delle condizioni industriali. “La fase debole del settore manifatturiero non è ancora finita, ma si sta stabilizzando”, commentano gli analisti di Ing. Nel dettaglio a gennaio l’indice destagionalizzato della produzione industriale è aumentato del 3,2% rispetto a dicembre, confermando una crescita anche se più moderata rispetto al mese precedente. Tuttavia, nella media del trimestre novembre-gennaio, il livello della produzione è rimasto stabile rispetto ai tre mesi precedenti. Nonostante questo incremento, l’andamento mensile non è stato uniforme.

Aumenti significativi sono stati registrati per i beni strumentali, i beni intermedi e i beni di consumo, con rispettivamente +4,1%, +4,0% e +2,6%. Al contrario, l’energia ha subito una flessione del 3,4%, rappresentando l’unica categoria in negativo su base mensile. Anno su anno invece l’indice generale della produzione industriale ha visto una diminuzione dello 0,6% a gennaio, a causa della differenza nei giorni lavorativi rispetto al gennaio 2024.

Solo i beni di consumo hanno visto una leggera crescita (+0,4%), mentre tutti gli altri settori principali hanno mostrato segnali di rallentamento, in particolare i beni strumentali e l’energia, che sono diminuiti dello 0,8%, e i beni intermedi, con un calo dello 0,6%. Tra i settori più dinamici, spiccano i prodotti farmaceutici, con un aumento del 21,7%, seguiti dall’industria del legno e della carta, che ha registrato un incremento del 6,2%, e dalla fabbricazione di prodotti chimici (+4,3%). D’altro canto, le flessioni più rilevanti si sono verificate nella produzione di mezzi di trasporto, che ha visto una contrazione del 13,1%, nell’industria tessile e dell’abbigliamento (-12,3%) e nella fabbricazione di coke e prodotti petroliferi raffinati (-6,2%).

Visti i dati di gennaio e il nuovo taglio dei tassi di interesse, il peggio potrebbe essere passato. A febbraio la fiducia delle aziende manifatturiere è leggermente cresciuto e l’indice Pmi manifatturiero è aumentato a 47,4: ancora in contrazione, ma registrando il tasso di declino più debole in cinque mesi. “Se le prospettive a breve termine sono stabili, il piano europeo Re-Arm e la spesa infrastrutturale tedesca probabilmente avranno un impatto positivo sull’industria italiana a lungo termine”, spiegano gli analisti di Ing. Certo, “ci vorrà del tempo prima che questi investimenti si riflettano in modo significativo nelle cifre della produzione italiana. Tuttavia, c’è un po’ di luce alla fine del tunnel”, sottolineano dalla banca olandese

Crolla l’industria in Italia. Opposizioni: “Urso si dimetta”. Il ministro: “Crisi in tutta Ue”

Crolla la produzione industriale in Italia. A dicembre 2024 l’Istat stima una perdita del 3,1% rispetto a novembre, del 7,1% su base annua. Nella media del quarto trimestre il livello della produzione si riduce dell’1,2% rispetto ai tre mesi precedenti, quando le stime erano solo per un -0,1% mensile dopo il +0,3% congiunturale di novembre.

Nel 2024, spiega l’istituto commentando i dati, la dinamica tendenziale dell’indice corretto per gli effetti di calendario è stata negativa per tutti i mesi, con cali in tutti i trimestri. Solamente per l’energia c’è un incremento nel complesso e, nell’ambito della manifattura, solo le industrie alimentari, bevande e tabacco sono in crescita rispetto all’anno precedente, mentre le flessioni più marcate si rilevano per industrie tessili, abbigliamento, pelli e accessori e fabbricazione di mezzi di trasporto.

Una catastrofe secondo le opposizioni, che chiedono la testa del ministro delle Imprese e del Made in Italy. “La crisi della produzione industriale non è italiana, ma europea, a partire da Paesi come la Germania“, si difende Alfonso Urso. L’idea è quella di rafforzare la posizione italiana come seconda industria manifatturiera europea, anche perché, osserva, “la Germania ha problemi strutturali maggiori dei nostri“.

Intanto però i parlamentari del Movimento 5 Stelle ricordano i 42 miliardi di ricavi “bruciati” nel 2024, oltre al “calo eclatante” della produzione. Si tratta del 23esimo mese in fila di “crollo inesorabile” che per i pentastellati è ascrivibile in toto alla “inesistente politica industriale del governo Meloni“. I deputati M5S domandano le dimissioni del titolare del Mimit, accusando la premier di aver affidato un ministero chiave a “una figura assolutamente inadeguata“.
Di “desertificazione industriale” in Italia parla il responsabile Economia nella segreteria nazionale del Pd, Antonio Misiani, un “disastro” di fronte al quale qualunque governo correrebbe ai ripari. Nell’ultima legge di bilancio, denuncia l’esponente Dem, è stato “drasticamente tagliato non solo il fondo automotive (-75%) ma l’insieme delle risorse stanziate per le politiche industriali, che passeranno dai 5,8 miliardi del 2024 a 3,9 miliardi nel 2025 fino a 1,2 miliardi nel 2027“. Il parlamentare chiede che il governo riferisca in Parlamento per spiegare all’Italia cosa ha intenzione di fare.
L’Italia “non è il Paese delle meraviglie come vuoi farci credere“, tuona il co-portavoce di Europa Verde e deputato di Avs, Angelo Bonelli, rivolgendosi alla premier: “E’ il Paese in cui la produzione industriale cala a picco, in cui il caro energia mette in ginocchio le famiglie italiane e la disoccupazione giovanile aumenta. Basta propaganda, Giorgia Meloni, comincia a raccontare il Paese reale“.

ROBERTO CINGOLANI

Nucleare, spinta dal mondo produttivo. Cingolani: “Si può investire nella IV generazione”

Il nucleare resta il tema principale del dibattito sul futuro dell’energia. Il disegno di legge delega del governo è atteso in uno dei prossimi Consiglio dei ministri, ma già si accendono i riflettori del mondo politico, ma anche di quello produttivo.

In questa partita l’esecutivo può contare sull’appoggio di buona parte delle imprese, da tempo ormai impegnate in quella che un tempo sarebbe stata chiamata ‘l’arte dei salti mortali’ per resistere ai colpi del caro bollette. La parte più difficile – ma questo lo sanno bene dalle parti di Palazzo Chigi e del Mase – sarà semmai la campagna di comunicazione tra i cittadini per convincere gli italiani sull’utilità di inserire anche questa tecnologia nel nostro mix.

Già nelle sue vite precedenti, da professore e ministro dell’Ambiente, Roberto Cingolani è stato uno dei pochi a parlare di nucleare come fonte di approvvigionamento sicura, pulito e stabile, con impatti economici meno gravosi rispetto ad altre forme di energia. Oggi che è a capo di un colosso come Leonardo non ha di sicuro cambiato idea. Anzi: “Ho detto in tempi forse meno popolari che era la tecnologia che produceva meno anidride carbonica per unità di energia e aveva tutta una serie di altri parametri buoni”, ribadisce a margine della presentazione della Fondazione Leonardo Ets. Ma ora “tutti i Paesi stiano capendo che per accelerare la decarbonizzazione il nucleare va potenziato e credo che l’Italia si stia muovendo nella direzione di rivedere la sua posizione in materia”.

Leonardo, assieme a Enel e Ansaldo Energia sta dando vita a una newco che avrà il compito di approfondire la ricerca sul tema. Non c’è ancora la firma, ma Cingolani assicura “si sta procedendo, ci siamo scambiati l’ultima versione, l’accordo è quello, adesso dovremmo trovare il momento per chiudere”.

Il lavoro di questa nuova società potrebbe essere molto utile per le imprese. “La quarta generazione è quella che non fa utilizzo di Uranio 135 e in questo momento, secondo me, nella fase intermedia in attesa della fusione, potrebbe essere qualcosa su cui investire”, sottolinea infatti l’amministratore delegato di Leonardo. Mettendo l’accento sull’importanza di “costruire un percorso che ci porti da oggi alla fusione termonucleare, che sarà la soluzione per l’umanità in futuro. Che poi avvenga in tre decadi, in due decade o 5 decadi questo dipenderà da tante cose”.

Favorevole al nucleare, e non da oggi, è anche Davide Tabarelli. “In questo momento è la prima fonte di produzione in Europa, con circa il 25% e se venissero meno le 56 centrali saremmo messi malissimo: le bollette sarebbero molto più alte e di notte saremmo in blackout”, spiega il presidente di Nomisma Energia in audizione davanti alle commissioni riunite Ambiente e Attività produttive della Camera. Osando quella che lui stesso definisce una “provocazione”, cioè “cominciare a pensare di riaprire la centrale di Caorso, mettendoci un nuovo reattore, piccolo o grande o quello che stanno costruendo in Polonia”. Proprio per rendere chiara a tutti l’urgenza di riprendere un percorso.

Di cui è straconvinto, ovviamente, il presidente dell’Associazione italiana Nucleare, Stefano Monti, che aspetta lo schema di legge dal governo con ansia. Per essere precisi, sono i decreti attuativi il suo obiettivo principale: “In particolare, è molto importante avanzare rapidamente sulla questione dell’autorità di sicurezza e della comunicazione o è impossibile avviare un programma nucleare nel nostro Paese”.

Ue, Tridico (M5S): Crisi industriale sia priorità della nuova legislatura

Oggi c’è “una crisi comune a livello industriale in Europa. In particolare il settore automotive è colpito da una grave crisi e qui, a mio parere, l’Europa deve concentrare i maggiori sforzi, i maggiori investimenti. Vediamo come la trasformazione tecnologica, l’intelligenza artificiale, la digitalizzazione stiano avanzando velocemente”. Lo ha detto Pasquale Tridico, capodelegazione del Movimento 5 Stelle al Parlamento europeo, a margine dell’evento ‘Il sistema Italia nella nuova legislatura UE’, primo annual meeting di Connact, la piattaforma di eventi che favorisce il confronto tra soggetti privati e istituzioni attraverso momenti di incontro e networking, che si è svolto a Bruxelles.

Di fronte alla transizione ecologica e digitale, ha aggiunto, “gli Stati Uniti, i cinesi – partner e allo stesso tempo anche competitor importanti dell’Europa – le stanno affrontando con ingenti investimenti pubblici, con politiche pubbliche e importanti. Ecco io penso che la competitività europea, che certamente rimane il principale obiettivo per fronteggiare i giganti che sono nostri competitor, si possa e si debba a far crescere attraverso politiche pubbliche a partire da investimenti comuni”.

Durante il Covid, ha detto Tridico, “abbiamo affrontato la crisi in un modo comune, anche con investimenti pubblici e ne siamo usciti meglio. La crisi dell’industria e, in particolare, quella dell’automotive, a mio parere si può superare con un approccio europeo che finalizzi gli investimenti pubblici, anche attraverso gli Eurbond e quindi debito comune. Penso che sia una priorità per questa legislatura dell’Unione Europea”.

Adesso anche il Pd torna a occuparsi di industria? Domande alla segretaria Schlein

In una recente intervista al ‘Corriere della Sera’ Romano Prodi afferma che “l’industria italiana è in grave crisi così come quella tedesca, ma a differenza che in Germania da noi non se ne discute. Non lo fa neppure Confindustria”, e a proposito del Pd di Elly Schlein l’ex presidente della Commissione Europea afferma “non vedo grandi discussioni, a partire dalla direzione e dalla segreteria sulla politica industriale”.

Per la prima parte non mi sento di condividere le affermazioni di Prodi.

Mettere sullo stesso piano la situazione dell’industria tedesca con quella dell’industria italiana non tiene conto delle specificità del nostro sistema industriale, più volte richiamate su queste pagine, e in particolare della sua maggiore diversificazione e resilienza rispetto a quello della Germania, molto più concentrato su automotive e chimica, due settori oggi in grave crisi.

Non può invece essere in grave crisi almeno per ora un’industria manifatturiera come quella italiana, prevalentemente costituita da pmi a conduzione familiare, che è diventata la quarta in termini di esportazioni mondiali superando Giappone e Corea del Sud e che, in un momento di caduta generale della competitività dell’industria europea, mostra tutta la sua forza e il suo vantaggio competitivo fatto di intensità di lavoro delle famiglie proprietarie e dei loro collaboratori, di qualità dei prodotti, di design, bellezza, innovazione ecc.

Inoltre è ingeneroso dire che Confindustria non si occupa della situazione dell’industria nazionale e che non parla delle difficoltà che pure ci sono. La presidenza di Emanuele Orsini, fin dalle prime battute, ha posto con coraggio temi centrali per il futuro dell’industria europea e italiana e per la loro competitività, quali quelli del prezzo dell’energia e della necessità del nucleare di quarta generazione; delle distorsioni ideologiche del “green deal” che, se gestito come si è fatto fino ad oggi, rischia di trasformare la decarbonizzazione in desertificazione industriale; della crisi dell’automotive e della necessità di applicare il principio della “neutralità tecnologica”, che significa non cancellare i motori endotermici ma sviluppare accanto all’elettrico anche i biocombustibili e i combustibili sintetici; e così via.

La chiarezza e la forza del messaggio di Confindustria sono emersi nel trilaterale di Parigi di due settimane fa di cui ho parlato nel mio editoriale della settimana scorsa.

Prodi ha invece ragione quando dice che il Pd non parla da tempo di industria e di politiche industriali. E ciò stupisce non poco perché nella tradizione della sinistra italiana i temi dell’industria e del lavoro sono sempre stati storicamente centrali.

Negli ultimi giorni Elly Schlein, forse anche a seguito della critica di Prodi, ha dichiarato di volersi occupare di industria. Molto bene, ben tornati.

Le grandi questioni dell’industria europea e italiana, nel contesto del rapido cambiamento globale e di una sempre più serrata competizione con Stati Uniti d’America e Cina, richiedono un impegno generale non solo del mondo delle imprese e delle loro rappresentanze ma di tutte le forze politiche e sociali, senza il sostegno delle quali sarà difficile vincere le dure sfide che stanno dinanzi all’industria nel nostro continente.

C’è un problema di consenso su alcune questioni fondamentali e sulle cose da fare subito, perché tale consenso ancora non c’è. Il rapporto Draghi, al quale Von der Leyen dice di volersi ispirare per definire un Clean Industrial Deal nei primi 100 giorni del suo mandato, può aiutare nella ricerca di una linea condivisa.

Occuparsi di industria in maniera non astratta e non retorica significa entrare nel merito dei problemi e misurarsi con le contraddizioni e gli errori che sono stati compiuti dall’Europa negli ultimi vent’anni e che sono ascrivibili, come ho detto più volte, a un problema culturale, la “sindrome dei primi della classe”, con tutto il suo portato iper-regolatorio, di estremismo ambientalista e di fastidio nei confronti dell’industria, specie quella di base.

Tali errori hanno portato ad una situazione di grave crisi economica europea e di sempre maggiore gap con gli Stati Uniti d’America, in termini di PIL, di reddito pro-capite, di primato perduto nel valore aggiunto prodotto dall’industria, di ritardo nella ReS e nell’innovazione, di scomparsa delle grandi aziende europee nel ranking delle grandi imprese mondiali.

Siccome la segretaria del Pd dice di volersi occupare di industria, mi permetto di sottoporle una serie di punti e di questioni rispetto alle quali non si conosce la posizione del suo partito. Tali questioni dovrebbero invece costituire oggetto di una seria riflessione interna per giungere a posizioni chiare non solo del Pd ma di tutti i socialisti europei. Si tratta di problemi vitali per l’industria europea. Ecco un piccolo elenco.

1 – L’Europa è responsabile per il 7% delle emissioni mondiali di CO2. L’industria europea per meno della metà di questo 7%. Per contro, le emissioni di CO2 a livello mondiale stanno crescendo di anno in anno, perché le altre grandi aree economiche del mondo, a partire dagli Usa e dalla Cina, non si allineano alle politiche europee contro il climate change, dando così alle loro industrie un vantaggio competitivo enorme rispetto alle nostre. Che fare? Il Pd ritiene che si debba proseguire con l’estremismo ambientalista che ha caratterizzato l’era Timmermans o, senza disconoscere l’obiettivo strategico della decarbonizzazione, ritiene lo si possa perseguire con modi e tempi che non desertifichino industrialmente il nostro continente? In questo caso quali sono, secondo il Pd, le modifiche da apportare all’approccio europeo?

2 – L’era digitale, con la crescita dei Data Center e delle applicazioni di IA, avrà caratteristiche fortissimamente energivore. Le sole energie rinnovabili, seppure importanti, non saranno sufficienti a soddisfare il fabbisogno crescente di energia specie elettrica. Il Pd è favorevole al concetto di neutralità tecnologica? E cioè, per dirla alla Deng Xiaoping, ‘non è importante che il gatto sia bianco o nero, l’importante è che prenda il topo (in questo caso la CO2)’? Ciò significa essere consapevoli che le energie rinnovabili da sole non bastano e che per rispondere alla domanda crescente di energia e nel contempo decarbonizzare occorreranno tutte le altre tecnologie disponibili, quali il nucleare di quarta generazione, le carbon capture, i biofuel ecc. Il Pd è d’accordo? E in particolare, quale è la posizione del Pd sul nucleare di quarta generazione, SMR e microreattori?

3 – La promessa che i posti di lavoro creati dal green deal sarebbero stati molto superiori a quelli distrutti nelle industrie europee tradizionali si è rivelata, fino ad oggi, vana. In realtà l’Europa con il green deal ha creato una gigantesca occasione di business per la Cina, che è dominante in tutte le aree legate alla decarbonizzazione: dai pannelli solari, agli inverter, dalle pale eoliche al litio, alle batterie, alle auto elettriche. Ciò ha creato e creerà una nuova dipendenza strategica. Come evitare questa dipendenza? Le prime esperienze di ricerca di autonomia, ad esempio nella fabbricazione di batterie e pannelli in Europa, sono state spesso fallimentari. Quale è la posizione del Pd rispetto a questo rischio? A proposito di eventuali dazi che dovrebbero proteggere le auto elettriche europee dalla concorrenza sleale di quelle cinesi sovvenzionate dallo stato, Draghi scrive nel suo rapporto che in una giungla di carnivori gli erbivori rischiano la pelle. L’avvento di Trump e i suoi propositi di incremento dei dazi rendono la situazione ancora più difficile. Il Pd condivide il concetto espresso da Draghi? I due governi europei a guida socialista (quello tedesco e quello spagnolo) si sono dichiarati contro l’applicazione di dazi rinforzati alle auto elettriche cinesi.

4 – Un motore endotermico ha un indotto dalle 10 alle 12 volte superiore di quello elettrico. Solo in Italia sono a rischio 70.000 posti di lavoro nelle nostre fabbriche di subfornitura automobilistica. È favorevole il Pd a spostare in avanti la scadenza del 2035 per la messa al bando delle auto con motore endotermico? In molte nazioni europee, come Svezia e Germania, si pensa di riconvertire parte dell’industria automobilistica messa in crisi (anche) dal green deal in industria della difesa. Cosa dice il Pd al riguardo?

5 – Il sistema ETS, che ha creato il mercato delle quote di CO2 per le imprese emittenti gas climateranti con i loro processi industriali, non è mai stato sottoposto a un’analisi di impatto. Dopo 20 anni di funzionamento sarebbe il caso di fare uno studio oggettivo di cosa questo sistema ha dato e cosa ha tolto. Il Pd è favorevole alla proposta fatta due anni fa dal premier spagnolo Sanchez, e rifiutata dalla Commissione Europea, relativa alla estromissione dal mercato delle CO2 degli intermediari finanziari, banche di affari e fondi, che speculano sulle quote che gli industriali devono acquistare, facendone sovente esplodere il prezzo?

6 – Il Pd è favorevole ad una revisione del CBAM (il meccanismo di dazio ambientale introdotto nel tentativo di proteggere l’industria europea dalle industrie di altre parti del mondo non sottoposte a tasse carboniche)? Tale sistema da un lato è insostenibile soprattutto per le pmi per la sua complessità e macchinosità; dall’altro a partire dal 2027-2030 eliminerà le quote gratuite di CO2 per le imprese hard to abate. Ciò significherà la chiusura della siderurgia da alto forno, di pezzi importantissimi di chimica, di tutta la ceramica, dell’industria del vetro, delle fonderie, della carta. Il Pd e il gruppo socialista al Parlamento europeo pensano di fare qualcosa per impedire questo disastro?

7 – A causa dell’iper-regolamentazione e delle politiche del green deal l’Europa, nonostante sia ancora il mercato più grande e ricco del mondo, ha perso progressivamente attrattività per gli investimenti esteri. Le imprese extra-europee sono sempre più restie ad investire in Europa. Non solo, assistiamo al fatto che sempre più industrie e industriali europei pensano di investire e crescere fuori dall’Europa, negli USA in particolare. Cosa si deve fare secondo il Pd per ridare attrattività agli investimenti esteri in Europa, che spesso significano innovazione e occupazione?

8 – Il Pd è favorevole ad un’industria europea della difesa, premessa indispensabile per politiche comuni della difesa in Europa? Il Pd è favorevole, a questo fine, a portare la spesa militare italiana al 2% del PIL come da impegni internazionali?

9 – L’occupazione è cresciuta molto in Italia negli ultimi anni specie nella forma di contratti a tempo indeterminato. Il tasso di disoccupazione in Italia, ci dice l’Istat, è il più basso da molto tempo. L’industria italiana ha un enorme problema quantitativo e qualitativo di mano d’opera. Si calcola che ci siano 400.000 posti di lavoro non coperti. Per questo le imprese cercano in ogni modo di fidelizzare il rapporto con i propri collaboratori. Non ritiene il Pd che porre il tema in termini di salario minimo e lotta alla precarietà non colga le vere questioni che attengono al mercato del lavoro per l’industria? Perché si è promosso un referendum contro il Jobs Act, misura adottata da un Governo a guida Pd, che attraverso meccanismi flessibili ha creato più di 1 milione di posti di lavoro ed è stato molto gradito dall’industria italiana? Perché non si è lavorato sulla parte centrale e più strategica del provvedimento, che è quella relativa alla formazione e riqualificazione dei lavoratori?

10 – Il meccanismo del 5.0, che ha a disposizione oltre sei miliardi per la transizione energetica e digitale dell’industria italiana, è praticamente bloccato per la complessità applicativa dovuta all’incrocio tra regole italiane e regole europee. Cosa dice il Pd al riguardo?

11 – Il Pd è favorevole alla proposta di Confindustria di un’IRES premiale per le imprese che trattengono gli utili in azienda e ne reinvestono una parte consistente in innovazione e formazione del capitale umano?

Si tratta di questioni cruciali per il futuro dell’industria italiana ed europea.

Sarebbe interessante avere la posizione ufficiale del Pd su ciascuna di esse, tanto per comprendere, al di là delle parole, la reale disposizione di quel partito nei confronti dell’industria.