Nuova ondata di dazi dagli Usa: dal 1° ottobre 100% su farmaci e mobili

Il presidente americano Donald Trump ha annunciato nuovi dazi doganali fino al 100% sui farmaci e che riguarderanno anche i camion e i mobili prodotti al di fuori degli Stati Uniti. A partire dal 1° ottobre, “applicheremo una tassa del 100% su tutti i prodotti farmaceutici di marca o brevettati, a meno che un’azienda non costruisca il proprio stabilimento farmaceutico in America”, ha scritto il miliardario repubblicano sulla sua piattaforma Truth Social.

Sebbene la definizione di questi farmaci “rimanga vaga”, sottolinea Michael Wan, economista della banca giapponese Mufg a Singapore, “partiamo dal presupposto che non includerà i farmaci generici spediti da paesi come l’India, che potrebbero quindi essere risparmiati da questi annunci”.

In un altro post, Trump ha anche annunciato dazi doganali del 25% su “tutti i veicoli pesanti prodotti in altre regioni del mondo”. Una misura che, secondo lui, dovrebbe sostenere i produttori americani di autocarri come “Peterbilt, Kenworth, Freightliner, Mack Trucks e altri”. Tra le aziende straniere che competono con questi costruttori sul mercato americano figurano la svedese Volvo e la tedesca Daimler.
Il presidente ha spiegato che questi dazi sui veicoli pesanti sono motivati da “molte ragioni, ma soprattutto da questioni di sicurezza nazionale!”. In primavera, l’amministrazione Trump aveva già annunciato l’avvio di un’indagine per determinare se le importazioni di autocarri stranieri costituissero una minaccia per “la sicurezza nazionale”.

Il repubblicano intende inoltre imporre dazi doganali su numerosi mobili. “Applicheremo una tassa del 50% su tutti i mobili da cucina, i lavandini da bagno e i prodotti correlati” a partire dal 1° ottobre e “una tassa del 30% sui mobili imbottiti”, ha scritto.

Secondo la Commissione per il commercio internazionale degli Stati Uniti, nel 2022 le importazioni, provenienti principalmente dall’Asia, rappresentavano il 60% di tutti i mobili venduti, di cui l’86% di quelli in legno e il 42% di tutti i mobili imbottiti. I titoli dei rivenditori Wayfair e Williams Sonoma, che dipendono da questi prodotti importati, sono crollati alla chiusura dopo questo annuncio.

Questa offensiva tariffaria ravviva i timori di inflazione negli Stati Uniti, la prima economia mondiale. Donald Trump si è dato come missione quella di rilanciare l’industria manifatturiera attraverso politiche protezionistiche, che segnano una completa inversione di rotta rispetto alla politica americana finora volta a mantenere un’economia aperta. La sua amministrazione ha imposto un dazio doganale base del 10% a tutti i paesi, con aliquote molto più elevate per quelli le cui esportazioni verso gli Stati Uniti superano le importazioni.

Il presidente ha in particolare imposto sovrattasse ai principali partner commerciali del paese come il Canada, il Messico, l’Unione Europea e la Cina, con cui sono ancora in corso trattative.

Quando a Trump all’Onu scivola la frizione di un quattro cilindri diesel

Non c’erano dubbi sul fatto che Donald Trump, il presidente degli Stati Uniti, fosse da tempo immemore assai scettico sulla tutela del Pianeta. Non era però immaginabile che all’Onu, nel corso del suo interminabile intervento all’Assemblea Generale, il tycoon picchiasse così duro su Green Deal e rinnovabili – definendole la più grande truffa del mondo, uno scherzo, una sorta di harakiri economico – e assurgesse a leader dei negazionisti perché – la sintesi del suo ragionamento – un centinaio di anni fa si temeva per il raffreddamento della Terra e adesso ci si angoscia per il riscaldamento. Balle, in buona sostanza, anzi bullshit. Così l’uscita dall’accordo Parigi diventa un atto dovuto trattandosi solo di “una bufala”.  Tutto condito da uno schiaffo all’Europa e un cazzoto alla Cina, la nazione che produce più CO2 del mondo e inquina gli Oceani fino a Los Angeles, per giungere al pizzicotto assestato alla Scozia che ha un sacco di risorse nel Mare del Nord e non le sfrutta in maniera adeguata.

Trump ha coccolato il carbone (pulito, eh già), ammiccato al petrolio, si è accoccolato sul gas, quello che ci vende a prezzi esorbitanti, ha confezionato una sorta di elegia delle fonti fossili. Dando nel contempo degli idioti a tutti coloro che in questi ultimi anni si sono impegnati a diminuire l’inquinamento, a pensare a soluzioni non impattanti sull’ambiente, a tutelare ciò che sta ineludibilmente degradando. Ora, se è vero che le follie di Frans Timmermans e di un certo tipo di atteggiamento ecologista sono andate paradossalmente nella direzione sbagliata, è altrettanto innegabile che il presidente degli Stati Uniti si è stabilizzato su posizioni indubbiamente estreme. E quindi non proprio condivisibili.

Più che lo stato del Pianeta a Trump interessa lo stato di salute della sua economia. Così facendo, ovvero tornando al “drill, baby drill” dell’insediamento alla Casa Bianca, gli Usa usciranno dall’impasse economico e diventeranno una specie di Eldorado, mentre l’Europa rischia il fallimento (chiaro e diretto il riferimento alla Germania) per la cocciutaggine di voler perseguire politiche ‘verdi’.

Su un tema, forse, The Donald ha ragione: per tanto che ci si impegni a Bruxelles, ci saranno sempre nazioni (India, Cina?) che anteporranno i loro interessi a qualsiasi ecopolitica di buonsenso. Vale un vecchio ragionamento di strada: basta una sgasata di un furgoncino a Nuova Delhi per vanificare gli sforzi di un’intera città della Ue. però…

…Però stavolta a Trump è scivolata la frizione (di un quattro cilindri rigorosamente diesel).

La politica di Trump sulle rinnovabili minaccia migliaia di imprese e penalizza Sud

Negli Stati Uniti l’occupazione nel settore dell’energia pulita è cresciuta 3 volte più velocemente rispetto all’economia nel suo complesso nel 2024, aggiungendo quasi 100.000 nuovi posti di lavoro e portando il numero totale di lavoratori nel settore green energy a 3,56 milioni. Tuttavia, a fronte dell’incertezza politica e di un rallentamento generale della crescita economica e delle assunzioni, l’anno scorso la crescita dei posti di lavoro nei settori green ha raggiunto il ritmo più lento dal 2020, creando circa 50.000 posti  in meno rispetto al 2023. E un’ulteriore spallata potrebbe arrivare dalle politiche dell’attuale amministrazione.

Secondo il decimo rapporto annuale ‘Clean Jobs America’ pubblicato da E2, oltre il 7% di tutti i nuovi posti di lavoro creati negli Stati Uniti e l’82% di tutti i nuovi posti di lavoro creati nel settore energetico lo scorso anno riguardavano professioni legate all’energia pulita. Nonostante questo rallentamento, i posti di lavoro nei settori del solare, dell’eolica, delle batterie, dell’efficienza, dello stoccaggio e delle reti e in altri sottosettori dell’energia pulita hanno continuato a crescere più rapidamente dell’economia in generale, rappresentando una quota sempre maggiore della forza lavoro complessiva degli Stati Uniti.

Gli analisti spiegano che sebbene non siano riflessi nei dati del 2024, le recenti azioni politiche del Congresso e dell’amministrazione Trump “hanno già causato ingenti perdite di posti di lavoro nel settore, e si prevede che ne seguiranno altre”. Alcune organizzazioni stimano che oltre 830.000 posti di lavoro potrebbero essere persi solo a causa delle modifiche alla politica energetica contenute nel One Big Beautiful Bill Act, firmato il 4 luglio.

Negli ultimi 5 anni, i settori dell’energia pulita e dei veicoli puliti hanno creato più di 520.000 posti di lavoro, con un incremento del 17%, superando di gran lunga l’aumento dell’occupazione nei settori dei combustibili fossili, dei veicoli a motore a benzina e diesel e nell’economia statunitense in generale. Il settore dell’energia pulita Usa naviga insomma nell’incertezza, scosso dalle recenti decisioni politiche federali di bloccare progetti, revocare crediti d’imposta, cancellare permessi e aggiungere nuova burocrazia normativa e ostacoli legali volti a ostacolare l’energia solare, eolica, i veicoli elettrici e altri settori.

“Questi attacchi alle politiche federali si verificano proprio mentre l’Ufficio di Statistica del Lavoro degli Stati Uniti afferma che le professioni in più rapida crescita in America sono i tecnici di manutenzione delle turbine eoliche e gli installatori di impianti solari fotovoltaici” spiega lo studio di E2, associazione di imprenditori e finanzieri con 100 miliardi di dollari di investimenti in portafoglio. I posti di lavoro nel settore delle energie pulite rappresentano ormai il 42% del totale nel settore energetico in America e il 2,3% della forza lavoro nazionale complessiva.

Attualmente, le persone impiegate in professioni legate alle energie pulite sono più numerose di quelle impiegate come infermieri, cassieri, camerieri e cameriere, o insegnanti di scuola materna, elementare e media. “Questi numeri dimostrano che questo era uno dei settori occupazionali più promettenti e promettenti del Paese alla fine del 2024 – ha affermato Bob Keefe, direttore esecutivo di E2 -. Ora la crescita dell’occupazione nel settore delle energie pulite è seriamente a rischio, e con essa, la nostra economia in generale”.

L’efficienza energetica rimane il settore principale per l’occupazione green Usa. Impiega quasi 2,4 milioni di lavoratori a livello nazionale dopo aver creato 91.000 posti di lavoro nel 2024. Seguono la generazione di energia rinnovabile (569.000 in totale, +9.000 nel 2024) e i veicoli a basse o zero emissioni dirette (398.000 in totale, -12.000 nel 2024). Nonostante un calo generalizzato dell’automotive, i posti di lavoro in quest’ultimo segmento sono infatti cresciuti del 52% dal 2020, creandone 137.000. “Ogni anno, i posti di lavoro nel settore dell’energia pulita diventano sempre più interconnessi e cruciali per la nostra economia nel suo complesso – ha affermato Michael Timberlake, direttore della Ricerca di E2 -. Questi posti di lavoro rappresentano ormai un punto fermo fondamentale per la forza lavoro del settore energetico americano. La solidità del mercato del lavoro statunitense e il futuro della nostra economia energetica sono ormai inscindibili dalla crescita dell’energia pulita”.

E2 rileva peraltro un paradosso politico-economico. Dal 2020 nessuna regione ha creato più posti di lavoro nel settore dell’energia pulita e a un ritmo più rapido del Sud: dal Texas alla Virginia, Stati che si sono rivelati cruciali per l’elezione di Trump nel 2024, le imprese hanno creato 41.000 posti di lavoro contro gli oltre 20mila della West Coast e del New England e i 13mila del Midwest. In totale, 17 Stati hanno visto la loro forza lavoro nel settore dell’energia pulita aumentare di almeno il 20% negli ultimi cinque anni.

Epitaffio di Draghi per l’Europa di Ursula che ora deve cambiare

“Grazie Mario”, ha ripetuto con enfasi Ursula von der Leyen. Grazie per tutto quello che hai detto e costruito per l’Europa. Insomma, grazie di esistere. Poi, però, Mario, nella fattispecie Draghi, ex presidente della Bce, ex premier, una luce nel buio di questi tempi, ha smontato pezzo dopo pezzo tutto quello che l’Unione europea ha fatto, anzi non ha fatto, (proprio) durante la gestione passata e presente della presidente tedesca. Perché il discorso di Draghi sullo stato di salute malandatissimo del vecchio Continente è stato molto crudo e diretto, partendo dal presupposto che “a distanza di un anno, l’Europa si trova quindi in una situazione più difficile” e che “l’inazione non minaccia solo la nostra competitività ma anche la nostra sovranità”. Liofilizzando il concetto: vi avevo avvertito ma le mie parole sono cadute nel vuoto. E adesso sono grane.

In un (per niente tranquillo) martedì di metà settembre, Draghi ha messo a nudo i difetti della Ue targata Ursula: lenta, avvitata su se stessa, incapace di decidere, imbolsita dalla burocrazia e dalla smania regolamentare, non ancora del tutto convinta che il green deal come era stato pensato da Frans Timmermans debba essere profondamente rivisitato. Giusto un anno fa l’ex premier aveva presentato il suo rapporto, un’istantanea che riscosse consensi ma che in concreto non ha spostato di un millimetro il baricentro della Ue, ormai bersaglio di critiche diffuse proprio da parte dei più europeisti tra gli europeisti. Antonio Tajani, ad esempio, ministro degli Esteri ed ex presidente del Parlamento, pochi minuti prima che Draghi si prendesse la scena aveva assestato un paio di ceffoni a Bruxelles, parlando della necessità urgente di cambiare registro, del bisogno di dire basta all’unanimità del voto, dell’imperativo di arrivare a una Difesa europea. Non proprio peanuts.

Il paragone di Draghi è quello con gli Stati Uniti e la Cina. Che sono giganti ma che agiscono velocemente, mentre l’Europa sta deludendo i cittadini per “la lentezza e la sua incapacità di muoversi con la stessa rapidità”. Il punto, ancora più grave, è che i governi che compongono l’Europa non sono consapevoli – stigmatizza l’ex commissario – della gravità della situazione. Intanto che si discute e ci si accapiglia, il “modello di crescita sta svanendo”, “la vulnerabilità sta aumentando” e “non esiste un percorso chiaro per finanziare gli investimenti di cui abbiamo bisogno”.

Una pietra tombale, un epitaffio su ‘questa’ Europa, quella di von der Leyen. Che ha incassato la scarica di cazzotti senza (quasi) fare una piega e promesso un cambio di passo su energia (nucleare), Difesa e intelligenza artificiale. Ecco: conviene che, rispetto alla prima volta, ‘questa’ volta Ursula faccia sul serio, ritrovi l’Unione (U rigorosamente maiuscola) e metta a terra promesse e sogni. A Strasburgo, una settimana fa, il suo discorso è stato coniugato sempre e solo al tempo futuro, conviene che viri sul presente oppure tra un anno saranno inutili anche le scosse di Mario.

Swatch risponde ai dazi Usa e lancia un orologio in edizione speciale ‘39%’

Gli Usa attaccano, la Svizzera risponde. Il marchio di orologi Swatch ha lanciato un’edizione speciale che gioca sul 39% di dazi imposto dall’amministrazione di Donald Trump al paese elvetico, promettendo di toglierla dal mercato “non appena gli Stati Uniti modificheranno i loro dazi doganali”. Il famoso marchio svizzero di orologi in plastica multicolore ha lanciato un modello in cui i numeri 3 e 9 sono stati invertiti per formare il 39, con il segno di percentuale scritto sul retro. In vendita sul suo sito web da mercoledì, questo modello è commercializzato solo in Svizzera al prezzo di 139 franchi (148 euro).

“Hopefully, just a limited edition” (Speriamo sia solo un’edizione limitata), precisa il marchio sotto la foto del modello sul suo sito. “Questa pubblicità va intesa come una provocazione positiva, un ammiccamento alla situazione attuale”, ha dichiarato un portavoce del gruppo Swatch all’AFP. “Non appena gli Stati Uniti modificheranno i dazi doganali nei confronti della Svizzera, smetteremo immediatamente di vendere questo orologio”, ha aggiunto, sperando che questa provocazione “non duri a lungo” ma “sia invece la più breve possibile”.

Swatch non è l’unico marchio ad aver reagito con una provocazione. Anche il marchio Raymond Weil ha lanciato un’edizione limitata di uno dei suoi modelli di punta, che sarà prodotto in 39 esemplari, in un formato di 39 millimetri, con uno sconto del 39% rispetto al prezzo abituale di questo modello, proposto a 1.575 franchi.

Il marchio ginevrino ha voluto reagire con umorismo a “una situazione complicata” per l’orologeria, “dicendo che invece di aggiungere il 39%, avremmo piuttosto dedotto il 39% dal prezzo”, ha spiegato il suo direttore generale, Elie Bernheim, all’AFP.

Le imposte al 39% sono un duro colpo per i produttori di orologi che devono essere fabbricati in Svizzera per poter apporre il prezioso marchio Made in Switzerland. Gli Stati Uniti sono il loro principale mercato di sbocco, con quasi il 17% delle esportazioni nel 2024. La scorsa settimana, il ministro dell’Economia svizzero Guy Parmelin si è recato a Washington per incontrare il ministro del Commercio Howard Lutnick, il ministro delle Finanze Scott Bessent e il rappresentante per il Commercio Jamieson Greer. Al suo ritorno, ha parlato di “discussioni costruttive”, senza fornire dettagli.

I dazi doganali del 39% imposti dagli Usa sulle esportazioni svizzere sono entrati in vigore il 7 agosto 2025 e riguardano, oltre che gli orologi, i macchinari industriali, gli alimentari, i prodotti per la cura personale, il caffè.

Trump riduce al 15% i dazi doganali sulle automobili giapponesi. Tokyo: “Attuazione fedele dell’accordo”

Il presidente americano Donald Trump ha firmato un decreto che riduce i dazi doganali sulle automobili giapponesi al 15%, invece del 25% applicato finora, e prevede che quelli applicati alla maggior parte dei prodotti giapponesi non superino questa nuova aliquota. Queste sovrattasse entreranno in vigore sette giorni dopo la pubblicazione del nuovo decreto nella Gazzetta ufficiale americana, che non è ancora avvenuta, e confermano l’interpretazione che il governo giapponese aveva dato dell’accordo firmato con Washington a luglio.

Tokyo ha accolto con favore il decreto, con il segretario generale del governo Yoshimasa Hayashi che lo ha definito “l’attuazione fedele e concreta dell’accordo” concluso tra i due paesi, che prevede un tetto massimo del 15% dei dazi doganali per la maggior parte dei prodotti giapponesi esportati negli Stati Uniti, mentre quelli già soggetti a una sovrattassa superiore a questo limite vedranno le loro aliquote invariate. Alcuni settori, come l’aeronautica, le materie prime non disponibili negli Stati Uniti o i farmaci generici, sono esenti da questa aliquota del 15%, precisa il decreto.

Con l’imposizione di una sovrattassa del 15% sulle automobili, contro il 25% applicato alla maggior parte dei veicoli che entrano negli Stati Uniti, il Giappone ottiene un trattamento simile a quello concesso all’Unione Europea.

Il documento, pubblicato sul sito della Casa Bianca, chiarisce i dubbi sulle condizioni dell’accordo firmato alla fine di luglio tra Tokyo e Washington. Il governo giapponese assicurava che quest’ultimo prevedeva un’aliquota massima del 15%, simile a quella firmata successivamente tra Washington e Bruxelles, mentre gli Stati Uniti sostenevano che questo 15% si aggiungesse invece ai dazi doganali già esistenti sui vari prodotti giapponesi. Il decreto conferma quindi la versione di Tokyo.

Firmato il 22 luglio, l’accordo prevede alcune contropartite da parte delle imprese giapponesi, in particolare attraverso investimenti per un importo di “550 miliardi di dollari”, di cui “il 90% dei profitti generati rimarrà negli Stati Uniti”, aveva assicurato il presidente americano. Nonostante la firma dell’accordo, Washington ha tardato a pubblicare il decreto che lo formalizza, suscitando l’inquietudine del governo giapponese. Il negoziatore incaricato dei dazi doganali si è quindi recato giovedì nella capitale americana per spingere Donald Trump a firmare il testo, sei settimane dopo la fine dei negoziati. “È necessario che gli Stati Uniti pubblichino un decreto presidenziale il prima possibile per modificare i dazi doganali reciproci e ridurre le sovrattasse sulle automobili e sui ricambi automobilistici”, aveva dichiarato Ryosei Akazawa prima del suo viaggio.

Tuttavia, alcuni punti rimangono in sospeso, in particolare per quanto riguarda gli investimenti giapponesi annunciati da Trump: secondo Tokyo, infatti, si tratterà principalmente di prestiti e garanzie. Oltre a questi investimenti, il Giappone si è anche impegnato ad acquistare “otto miliardi di dollari di prodotti americani”, senza specificare un calendario, e i due paesi devono studiare le condizioni di acquisto del gas naturale liquefatto (GNL) proveniente dall’Alaska. Infine, Tokyo ha promesso di acquistare “aerei commerciali di fabbricazione americana, in particolare 100 Boeing”, secondo la Casa Bianca, nonché di “revocare le restrizioni di lunga data” che impedivano l’accesso delle automobili americane al mercato giapponese. L’accordo non prevede invece alcuna modifica dei dazi doganali americani applicati all’acciaio e all’alluminio, che sono ora pari al 50%. Il Giappone sta cercando allo stesso tempo di diversificare i propri mercati: il 29 agosto Tokyo si è impegnata a investire 68 miliardi di dollari in India, con cui ha concordato di approfondire le relazioni sia commerciali che in materia di sicurezza.

Ucraina, Macron: “Sostegno militare da 26 Paesi, anche Italia”. Meloni: “Non invieremo truppe”

Ventisei Paesi si impegnano a sostenere militarmente l’Ucraina, “via terra, mare o aria“, dopo un cessate il fuoco con la Russia. Ma ognuno con modalità proprie: “Il loro contributo andrà dalla rigenerazione dell’esercito ucraino, al dispiegamento di truppe o la messa a disposizione di basi”, spiega Emmanuel Macron dopo il vertice dei volenterosi di Parigi.

L’inquilino dell’Eliseo non entra nei dettagli per non dare vantaggi a Mosca, ma precisa che Italia, Polonia e Germania sono tra i 26. “L’Italia è indisponibile a inviare soldati in Ucraina“, si affretta a precisare Giorgia Meloni in una nota, confermando però l’apertura a supportare un eventuale cessate il fuoco con “iniziative di monitoraggio e formazione al di fuori dei confini ucraini”. La premier, collegata con Parigi in videoconferenza, rilancia la proposta di un meccanismo difensivo di sicurezza collettiva ispirato all’articolo 5 del Trattato di Washington, come “elemento qualificante” della componente politica delle garanzie di sicurezza. Per Meloni una pace giusta e duratura può essere solo raggiunta con un approccio che unisca il continuo sostegno all’Ucraina, il perseguimento di una cessazione e il “mantenimento della pressione collettiva sulla Russia“. Anche attraverso le sanzioni, e “solide e credibili garanzie di sicurezza”, da definire in “uno spirito di condivisione tra le due sponde dell’Atlantico“, mette in chiaro.

Il nodo resta infatti il contributo degli Stati Uniti alle garanzie. Che ci sarà, assicura Macron, ma verrà definito nei prossimi giorni. Del sostegno o “backstop” americano si è parlato nella videoconferenza con Trump dopo il vertice, alla quale ha partecipato in parte anche il suo inviato speciale Steve Witkoff, presente all’Eliseo. La speranza degli europei è che Washington contribuisca in “modo sostanziale”, riferisce il portavoce del cancelliere tedesco Friedrich Merz. Di certo, Trump spinge l’Europa a interrompere l’acquisto di petrolio russo, che a suo dire aiuterebbe Mosca a proseguire la guerra. E’ “molto scontento che l’Europa acquisti petrolio russo”, ribadisce in conferenza stampa il presidente ucraino Volodomyr Zelensky, dopo il collegamento del Tycoon con il vertice, citando in particolare Slovacchia e Ungheria

. In base ai piani dei volenterosi, di cui Macron rifiuta di specificare i contributi paese per paese, il giorno in cui il conflitto cesserà “saranno messe in atto le garanzie di sicurezza”, fa sapere il presidente, sia attraverso un “cessate il fuoco”, un “armistizio” o un “trattato di pace”. Intanto, se Mosca non accetterà la pace, l’Europa adotterà nuove sanzioni “in collaborazione con gli Stati Uniti” e misure punitive contro i paesi che “sostengono” l’economia russa o aiutano la Russia ad “aggirare le sanzioni”. La Cina è nel mirino.

Gli europei chiedono sanzioni americane da mesi, finora senza successo. Trump, dicendosi “molto deluso” da Putin, aveva avvertito nei giorni scorsi che “succederà qualcosa” se Mosca non risponderà alle sue aspettative di pace. La Russia ribadisce che non accetterà alcun “intervento straniero di qualsiasi tipo”, con la portavoce della diplomazia russa Maria Zakharova che definisce le protezioni richieste da Kiev “garanzie di pericolo per il continente europeo”. “Non spetta a loro decidere”, replica Mark Rutte a nome della Nato. Quella di oggi è stata una “riunione cruciale“, rimarca la presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, che sull’importanza del dossier non ha dubbi: “Sappiamo tutti che la posta in gioco è il futuro e la sicurezza dell’intero continente”.

Entrano ufficialmente in vigore in Usa i dazi sui pacchi postali: imposte dal 10% al 50%

Fine dell’esenzione dai dazi doganali per tutti – o quasi – i piccoli pacchi in entrata negli Stati Uniti. Finora era possibile spedire per posta pacchi di valore inferiore a 800 dollari senza dover pagare sovrattasse al loro ingresso sul suolo americano, ma d’ora in poi saranno esentati solo i pacchi non commerciali contenenti “regali” di valore inferiore a 100 dollari Con un decreto firmato il 30 luglio, Donald Trump, aveva spiegato di voler “porre fine a una falla catastrofica utilizzata, tra l’altro, per eludere i dazi doganali e spedire oppioidi sintetici e altri prodotti pericolosi”.

Secondo l’Agenzia per la protezione delle frontiere (Cbp), i piccoli pacchi contengono il 98% dei narcotici, il 97% dei prodotti contraffatti e il 70% dei prodotti pericolosi per la salute sequestrati nel corso del 2024. “Colmare questa lacuna consentirà di salvare migliaia di vite riducendo il flusso di stupefacenti e prodotti pericolosi e proibiti”, ha assicurato un funzionario americano durante una conferenza stampa.

Il numero di pacchi postali è esploso negli Stati Uniti, passando, secondo i dati del governo, da 134 milioni di unità nel 2015 a oltre 1,36 miliardi nel 2024. D’ora in poi, ad eccezione dei “regali” di valore inferiore a 100 dollari, saranno soggetti agli stessi dazi doganali di qualsiasi altra importazione, ovvero un minimo del 10%, o del 15% per quelli provenienti dai paesi dell’Unione Europea (Ue) e fino al 50% per India e Brasile.

Ancor prima della sua entrata in vigore, la misura ha iniziato a perturbare la spedizione di pacchi verso gli Stati Uniti. Martedì, l’Unione postale universale (Upu) ha comunicato che 25 paesi hanno deciso di sospendere le consegne verso gli Stati Uniti a causa delle incertezze. Tra i servizi postali che hanno fatto questa scelta figurano quelli di numerosi paesi europei, tra cui Germania, Francia e Italia, ma anche India, Giappone, Australia e Messico. Il motivo addotto è la brevità del termine per l’attuazione della misura, mentre il testo prevede che spetti ai “vettori e alle altre parti autorizzate riscuotere in anticipo dai mittenti i dazi doganali”, prima di versarli alle autorità statunitensi, secondo l’Upu.

In assenza di ulteriori informazioni sulle condizioni tecniche di spedizione dei pacchi verso gli Stati Uniti da parte della dogana americana, non abbiamo altra scelta che sospendere temporaneamente tali spedizioni”, ha confermato all’AFP un responsabile di La Poste in Francia. Ma per il governo, “i servizi postali stranieri devono riprendere il controllo e l’utilizzo della posta internazionale al fine di combattere il traffico illecito ed evitare i dazi doganali”, assicurando che la fine dell’esenzione “non è una sorpresa per nessuno”, secondo un responsabile. I “de minimis” erano già oggetto di particolare attenzione sotto il precedente governo di Joe Biden, che aveva avviato una prima indagine sull’argomento. Trump aveva pubblicato un primo decreto che riguardava specificamente i piccoli pacchi provenienti dalla Cina, la maggior parte di quelli che entrano negli Stati Uniti, spediti in particolare da venditori come Temu, Shein o AliExpress.

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Dazi, le tariffe Usa sui prodotti indiani passano al 50%

Il dazio doganale degli Stati Uniti sui prodotti indiani, al 25% dall’inizio del mese, è salito al 50%, un modo per Donald Trump di sanzionare l’importazione di petrolio russo da parte dell’India.

L‘India è uno dei principali importatori di petrolio russo, dopo la Cina, e il presidente americano accusa Nuova Delhi di aiutare Mosca a finanziare la sua guerra in Ucraina. Il nuovo tasso non riguarderà tuttavia una serie di prodotti, il che ne riduce notevolmente la portata. Il presidente americano aveva annunciato questa tariffa punitiva all’inizio di agosto, irritato dal rifiuto di Mosca di accettare un cessate il fuoco in Ucraina. Nonostante la calorosa accoglienza riservata a Vladimir Putin in Alaska, ha mantenuto questa misura che mira a ostacolare la capacità di Mosca di finanziare la guerra.

Il petrolio russo in India nel 2024 ha rappresentato quasi il 36% delle sue importazioni in questo settore, contro circa il 2% prima dell’inizio della guerra in Ucraina nel 2022, secondo i dati del ministero indiano del Commercio. Per Nuova Delhi, la scelta è pragmatica: la produzione dei paesi del Golfo è destinata in via prioritaria all’Europa e l’India ha dovuto rivolgersi ad altri fornitori dopo la decisione del Vecchio Continente di rinunciare agli idrocarburi russi. Tra i prodotti esclusi dai nuovi Dazi, gli iPhone, la cui produzione avviene sempre più spesso in India. Questi ultimi dovrebbero però essere interessati dai Dazi settoriali, fino al 100%, che il presidente americano intende imporre gradualmente sui semiconduttori e sui prodotti elettronici. Gli esportatori indiani temono un calo degli ordini, delocalizzazioni e perdite di posti di lavoro: gli Stati Uniti sono il primo partner commerciale del Paese più popoloso del pianeta, che vi vende ogni anno merci per oltre 87 miliardi di dollari.

Martedì, l’influente Federazione delle organizzazioni esportatrici indiane (FIEO) ha sottolineato che l’attività dei produttori tessili e del settore dei prodotti ittici era già stata colpita, invitando le autorità ad agire insieme alle imprese di fronte a “questa fase di turbolenze”. Nuova Delhi ha ribadito la speranza di raggiungere un accordo commerciale con Washington. Tuttavia, un accordo potrebbe essere difficile da raggiungere, in particolare a causa dell’accesso al mercato agricolo e lattiero-caseario indiano, un tema delicato che riguarda un importante blocco elettorale per Modi. Le discussioni sono iniziate a febbraio e sono proseguite da allora, ma l’India si sta rivelando un “negoziatore molto più difficile” di quanto previsto, ha ammesso Donald Trump. Dal suo ritorno al potere a gennaio, il presidente americano ha introdotto, in più fasi, nuove sovrattasse sui prodotti provenienti da tutto il mondo che entrano negli Stati Uniti, che ora sono in media al livello più alto dall’inizio del 1910, ad eccezione di alcune settimane del 2025, secondo l’OMC e il FMI. Per limitare gli effetti di quelli che colpiscono il suo Paese, il primo ministro indiano Narendra Modi ha assicurato che avrebbe “alleggerito il carico fiscale dei cittadini comuni” durante il suo discorso per l’anniversario dell’indipendenza, il 15 agosto. Rafforzare il mercato interno potrebbe rivelarsi essenziale per l’economia indiana, mentre gli economisti stimano che, senza un accordo tra Washington e Nuova Delhi, i Dazi doganali potrebbero far scendere la crescita indiana al di sotto del 6%. Alla fine di luglio, il Fondo Monetario Internazionale (FMI) prevedeva una crescita del 6,4% dell’economia indiana nel 2025. Nel frattempo, Nuova Delhi ha intrapreso un avvicinamento a Pechino, mentre le relazioni tra le due potenze asiatiche si erano fortemente deteriorate dopo uno scontro mortale nell’Himalaya tra soldati dei due paesi nel 2020.

Usa, Trump aumenta pressione sulla Fed: licenziata governatrice Lisa Cook

Donald Trump ha annunciato il licenziamento “immediato” della governatrice della Federal Reserve Lisa Cook, con l’accusa di frode per un prestito immobiliare personale, aumentando la pressione sulla Banca centrale americana, istituzione indipendente.

In una lettera della Casa Bianca firmata di proprio pugno e pubblicata sul suo social network Truth Social, il presidente americano ha scritto alla diretta interessata che era “destituita dal suo incarico nel Consiglio dei governatori, con effetto immediato”. “Ho stabilito che ci sono motivi sufficienti per licenziarla dal suo incarico”, ha insistito il presidente, in linea di principio vincolato giuridicamente in materia.

Il miliardario repubblicano ha fatto della Fed, e in particolare del suo presidente Jerome Powell, il suo nemico numero uno a causa della sua riluttanza ad abbassare i tassi.

Venerdì, Donald Trump aveva avvertito che era disposto a “licenziare” Lisa Cook se non si fosse dimessa, mentre è accusata da un collaboratore del presidente di aver falsificato dei documenti per ottenere un mutuo immobiliare. Aveva già esercitato pressioni perché la donna afroamericana, la prima a ricoprire la carica di governatrice della Fed, si dimettesse.

Nominata nel 2022 dall’allora presidente Joe Biden (2021-2025), ex collaboratrice di Barack Obama (2009-2017), Lisa Cook è sotto pressione da diversi giorni da parte della Casa Bianca. Il responsabile dell’Agenzia per il finanziamento degli alloggi (FHFA), Bill Pulte, nominato da Trump, l’ha accusata di aver “falsificato documenti bancari e registri di proprietà per ottenere condizioni di prestito favorevoli” per due mutui immobiliari, secondo l’agenzia Bloomberg.

Cook, accusata di aver dichiarato due residenze principali – una nel Michigan (nord) e l’altra in Georgia (sud) – aveva risposto la scorsa settimana in una dichiarazione all’AFP che il suo prestito era stato contratto prima che lei entrasse a far parte della Fed. “Non ho intenzione di lasciarmi intimidire e di dimettermi dal mio incarico”, aveva assicurato. Nella sua lettera, Trump accusa la Cook di aver tenuto “come minimo una condotta che denota grave negligenza nelle transazioni finanziarie, il che solleva interrogativi sulla sua competenza e affidabilità come regolatrice finanziaria”. È la prima volta nella storia della Federal Reserve che un presidente degli Stati Uniti licenzia un governatore, riferisce la CNN.

È probabile che la decisione di Donald Trump sarà rapidamente contestata in tribunale, il che consentirebbe a Lisa Cook di rimanere in carica per tutta la durata del procedimento.

Per la senatrice democratica Elizabeth Warren, si tratta di una “presa di potere autoritaria che viola palesemente la legislazione sulla Federal Reserve”. In un comunicato, ha chiesto che la decisione “sia annullata da un tribunale”. Il presidente repubblicano conservatore ha da settimane Jerome Powell nel mirino. Quest’ultimo si è tuttavia mostrato venerdì aperto a un prossimo taglio dei tassi, al fine di sostenere l’occupazione a causa di un possibile “rapido” deterioramento del mercato del lavoro. Il mandato della Fed è quello di fissare i tassi di interesse in modo tale da mantenere stabile il tasso di inflazione (intorno al 2%) e garantire la piena occupazione. Tuttavia, i dazi doganali introdotti da Donald Trump ad aprile stanno sconvolgendo l’economia. Il presidente americano ha soprannominato Powell “Troppo tardi” perché, secondo lui, avrebbe dovuto abbassare i tassi “un anno fa”, nonostante le pressioni inflazionistiche.