Trump-Putin, 3 ore di colloquio ma non c’è il cessate il fuoco in Ucraina. Lunedì Zelensky vola in Usa

Tre ore di colloquio in un angolo sperduto del mondo (Anchorage, la capitale dell’Alaska) tra Donald Trump e Vladimir Putin hanno portato a “grandi progressi” ma non al cessate il fuoco in Ucraina. Il presidente americano e quello russo, in buona sostanza, hanno imbastito un dialogo per arrivare a un accordo di pace e a una convergenza su altri temi economici (terre rare, energia, commercio), ma siamo appena all’inizio di un percorso. Il prossimo appuntamento (“Ci vedremo a Mosca”, ha rilanciato Putin alla fine della conferenza stampa), sarà allargato anche a Volodimir Zelensky, a cui il tycoon ha rivolto un messaggio chiaro in una intervista all’emittente Fox: conviene accordarsi perché la Russia è più grande.

CESSATE IL FUOCO Fosse stato un successo, Trump l’avrebbe sbandierato ai quattro venti, smanioso com’è di accaparrarsi il Nobel per la pace. Si è dovuto accontentate del “fosse stato lui il presidente non ci sarebbe stata la guerra”, sentenziato dal capo del Cremlino: pochino. Ma era chiaro che il vertice di Anchorage non avrebbe portato a risultati definitivi nonostante molti sperassero nel cessate il fuoco come base di partenza per poter iniziare una vera trattativa. Invece non è successo nulla e chissà quali riflessioni ha maturato nel suo intimo Trump che, prima di sedersi al tavolo con Putin, aveva dichiarato sull’Air Force One che “non sarebbe stato contento se il cessate il fuoco non sarebbe arrivato oggi”. Eppure, nella conferenza stampa congiunta, i due leader si sono mostrati soddisfatti e propositivi per il futuro, senza però svelare niente di cosa si sono detti.

LE PAROLE DI PUTIN Dietro un pannello con la scritta ‘Pursuing peace’, inseguiamo la pace, Trump e Putin hanno parlato per 12 minuti, facendo saltare il protocollo che prevedeva anche una colazione di lavoro. Putin si è esposto per primo e ha fatto i complimenti a Trump, definendo “costruttivi” i negoziati, anche se sull’Ucraina non ha compiuto una marcia indietro: “La situazione ha a che fare con la nostra sicurezza nazionale, per arrivare a una soluzione bisogna eliminare le radici primarie di quel conflitto”, ha spiegato. E le ‘radici’ sono evitare l’ingresso dell’Ucraina nella Nato, limitarne le capacità militari, fare in modo che a Kiev ci sia un governo favorevole a Mosca. Sorridente e soddisfatto, Putin ha poi lasciato la parola a Trump, consapevole che le immagini del suo arrivo ad Anchorage e il calore dell’accoglienza che gli sono state riservate gli restituiscono l’immagine di un leader non isolato dal resto del mondo ma assolutamente protagonista. Putin su cui, va ricordato, pende una mandato di cattura della Corte di giustizia internazionale, non riconosciuta dagli Usa. Il capo del Cremlino ha comunque inviato un messaggio chiaro all’Europa nell’augurarsi che le “capitali europee e Kiev non creeranno ostacoli, non cercheranno di danneggiare i progressi emergenti attraverso provocazioni o intrighi dietro le quinte”.

LE PAROLE DI TRUMP Trump è stato molto più asciutto del presidente russo. Tre minuti di intervento e nessuna risposta alle domande lanciate dai giornalisti presenti in sala con la premessa di un vertice che è stato “molto produttivo. Su molti punti ci siano trovati d’accordo, la maggior parte, ma su un paio di grossi punti non ci siano ancora ma abbiamo fatto progressi e ci lavoreremo”. Il tycoon ha annunciato che “parlerà con gli alleati europei e con Zelensky” di quanto emerso dall’incontro con Putin ma senza svelare nulla e senza chiarire in che ambito sono stati fatti progressi. Un atteggiamento mantenuto anche sucessivamente, in una intervista a Fox: “Una grande cosa su cui non c’è stato accordo… Preferisco non dirlo. Credo che qualcuno lo rivelerà ma io non voglio farlo. Voglio vedere se possiamo risolverlo”, la frase che mette in dubbio la buona riuscita del vertice che altrimenti avrebbe portato al cessate il fuoco. Poi, sempre nell’intervista Fox, ha consegnato un messaggio a Zelensky: “Fai un accordo. La Russia è una potenza molto grande, l’Ucraina no”.

ZELENSKY A WASHINTGON Ora la palla passa nella mani dell’Unione europea e soprattutto di Zelensky che lunedì sarà a Washington, protagonista di un incontro con Trump al quale sono stati invitati anche i capi di governo europei. Nelle prossime ore si capirà quale piega può prendere il vertice di Anchorage: la sensazione è di una pace possibile a costo di rinunce dolorose, come il Donetsk

Trump (per ora) vince e Pichetto riavvolge il nastro: Ci fosse Kamala…

L’Europa è spaccata, il Parlamento è spaccato, nel mondo delle imprese non tutti sono uniti. L’effetto Trump, al riparo dalla reazioni di pancia sui dazi imposti al 15%, è questo. Ed è anche piuttosto preoccupante. Germania e Italia sono considerati i Paesi più ‘deboli’ di fronte alle minacce del Tycoon americano, da più parti si chiedono le dimissioni della presidente Ursula von der Leyen, qualcuno (Renzi) azzarda addirittura dell’intera Commissione, il commissario Sefcovic viene considerato un lacchè, né più né meno del segretario della Nato Rutte, prono di fronte al presidente americano quando il tavolo negoziale era quello della Difesa. E si potrebbe continuare così, perché ci sono reazioni di tutti i tipi all’intesa raggiunta nella club house di un campo da golf (esclusivo) in Scozia, tra chi dice che poteva andare molto peggio e chi sostiene che si poteva fare molto meglio usando il famigerato bazooka contro il capo della casa Bianca. Su tutte le riflessioni ne enucleiamo una: quella di Gilberto Pichetto Fratin, ministro dell’Ambiente e della Sicurezza energia. “Avesse vinto Kamala Harris forse questo problema non lo avremmo avuto”.

La riflessione di Pichetto è banale e geniale al tempo stesso e, di rimbalzo, attribuisce a Trump una valenza superiore ai dazi al 15%. E’ vero che se si ascoltano i pareri di illuminati economisti la tassazione coatta si ritorcerà contro l’economia americani e gli americani medesimi, però la realtà dei fatti, al momento, è che il presidente Usa con il suo comportamento indecifrabile, con la sua capacità strategica di cambiare idea dalla sera alla mattina, ha messo in ginocchio più di un Paese. Allargando il concetto, addirittura un continente, quello europeo, vittima delle proprie debolezze e soffocato dalla mania di regolamentare tutto, anche l’irregolamentabile. Così, mentre tra Bruxelles e Strasburgo ci si parla addosso , a Washington si finge di essere matti per ottenere qualcosa di più e di diverso dal passato.

Tornando a Pichetto, non è scritto da nessuna parte che con la signora Harris sarebbe andata più morbida, però è un dato di fatto che la presidentessa si sarebbe mossa con andamento più felpato e non avrebbe squassato la quiete di molti dormienti (Canada, Giappone, Europa) con dichiarazioni e minacce che qualcuno ha accostato ai bulli di periferia, però è fuori discussione che Trump ha messo a segno il primo colpo, anche se (forse) la lotta è ancora lunga.

Usa-Cina, Amazon chiude laboratorio di ricerca su intelligenza artificiale a Shanghai

Il gigante tech americano Amazon ha chiuso il suo laboratorio di ricerca sull’intelligenza artificiale (IA) a Shanghai. Lo conferma venerdì all’Afp una fonte vicina al dossier.

L’annuncio della chiusura del laboratorio, che apparteneva alla divisione Amazon Web Services (AWS), arriva in un momento in cui l’IA occupa un posto sempre più importante nella rivalità tra Pechino e Washington. La chiusura è “dovuta all’adeguamento strategico tra Cina e Stati Uniti”, ha affermato Wang Minjie, uno scienziato del laboratorio, secondo uno screenshot di un messaggio WeChat ampiamente diffuso sui social network.

La scorsa settimana, AWS aveva già annunciato tagli di posti di lavoro in tutte le sue attività, con alcuni media che parlavano di centinaia di posti di lavoro interessati. Amazon non ha confermato direttamente la chiusura del laboratorio di Shanghai. “Abbiamo preso la difficile decisione di eliminare alcuni posti di lavoro in team specifici di AWS”, ha semplicemente commentato il portavoce Brad Glasser, precisando che “queste decisioni sono necessarie in un momento in cui continuiamo a investire, assumere e ottimizzare le nostre risorse per portare innovazione ai nostri clienti”.

Una pagina dedicata al laboratorio sul sito cinese di AWS non è tuttavia più accessibile. Secondo un archivio di questa pagina, il laboratorio era stato creato nell’autunno 2018. Una delle sue missioni era quella di “promuovere attivamente la collaborazione con la comunità di ricerca”, secondo il sito web.

Altre aziende tecnologiche statunitensi come Microsoft e IBM hanno recentemente ridotto le dimensioni delle loro divisioni di ricerca in Cina, in un contesto di rafforzamento del controllo statale sui settori considerati sensibili e di crescente concorrenza tecnologica tra Washington e Pechino.

Dazi, Ue verso intesa al 15% con Usa. Ma Paesi preparano contromisure e guardano a bazooka

Dopo il Giappone, anche l’Unione europea va verso il 15% nella trattativa con gli Stati Uniti d’America sui dazi commerciali e la partita starebbe per chiudersi. Intanto, a Bruxelles, a quanto si apprende da fonti diplomatiche Ue, la situazione attuale sul tavolo prevede una percentuale base del 15% – inclusa la clausola di Nazione più favorita (Npf) che corrisponde a una media del 4,8% per gli scambi commerciali tra Ue e Usa – con alcune esenzioni ancora da definire. L’Ue potrebbe a sua volta ridurre i suoi dazi a livello di Npf, dunque al 4,8%, o allo 0% per alcuni prodotti nell’ambito dell’accordo. “La decisione finale spetta al presidente Usa, Donald Trump”, spiegano le fonti.

Nel frattempo, rispetto alle contromisure che Bruxelles sta affilando, il portavoce della Commissione europea responsabile per il Commercio, Olof Gill, ha spiegato che l’esecutivo ha deciso di accorpare i due elenchi in uno solo, che resterebbe sospeso fino al 7 agosto: il primo, in risposta ai dazi Usa del 25% (poi saliti al 50%) su acciaio e alluminio, che colpisce 21 miliardi di euro di prodotti Usa e che è in stand-by; il secondo, in risposta alle imposte doganali reciproche, che mira a 72 miliardi di beni a stelle e strisce e che è in fase di definizione. Dunque, un totale di 93 miliardi di euro di prodotti statunitensi che verrebbero colpiti con tariffe fino al 30%, in risposta alla lettera con cui Trump ha annunciato la stessa percentuale sulle merci europee a partire dal primo agosto dazi.

“Sebbene la nostra priorità siano i negoziati, continuiamo parallelamente a prepararci a tutti gli esiti, comprese eventuali contromisure aggiuntive. Per rendere le nostre contromisure più chiare, semplici e più efficaci, uniremo le liste 1 e 2 in una unica che non entrerà in vigore prima del 07 agosto e la sottoporremo agli Stati membri per l’approvazione”, ha annunciato Gill. E proprio giovedì i Ventisette voteranno, nel comitato per le barriere commerciali dell’Ue – un organismo della comitologia Ue che prevede che la Commissione consulti i Paesi prima di adottare un atto di esecuzione – la lista unica di misure Ue da 93 miliardi di euro, “con dazi fino al 30%, in linea con quelli degli Stati Uniti”.

Il portavoce della Commissione ha comunque ribadito che “l’obiettivo principale dell’Ue è raggiungere un risultato negoziato con gli Stati Uniti” e che “sono in corso intensi contatti a livello tecnico e politico”, con il commissario europeo al Commercio, Maros Sefcovic, che nel pomeriggio di mercoledì ha avuto un confronto con il Segretario Usa al Commercio, Howard Lutnick, e con la Commissione che, in una riunione dei Ventisette ambasciatori dei Paesi membri (Coreper) ha informato gli Stati Ue sullo stato del percorso.

Ma i Paesi guardano anche al futuro e rispetto al possibile impiego dello Strumento Anti-Coercizione (Aci), ribattezzato ‘bazooka’, fonti diplomatiche registrano che “l’umore è cambiato” tra i Paesi membri, dopo la minaccia di Trump di dazi del 30%. Tanto che ora, in caso di mancato accordo, “sembra esserci un ampio voto a maggioranza qualificata per stabilire l’anticoercizione”. Su questo punto, la Commissione ha condiviso una scheda informativa sui passi da intraprendere in preparazione al processo Aci. Mentre, per ora, “solo la Francia ha chiesto l’immediata istituzione” dello strumento che permette di imporre restrizioni all’importazione e all’esportazione di beni e servizi, ma anche di diritti di proprietà intellettuale e investimenti esteri diretti. Inoltre, l’Aci consente l’imposizione di diverse restrizioni all’accesso al mercato dell’Ue, in particolare agli appalti pubblici, nonché all’immissione sul mercato di prodotti soggetti a norme chimiche e sanitarie.

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Dazi, Meloni: “Al lavoro per scongiurare guerra commerciale”. Urso: “Intesa con Usa vicina”

Scongiurare una guerra commerciale con gli Stati Uniti. E’ il mantra della presidente del Consiglio Giorgia Meloni e, a cascata, di tutti i ministri coinvolti nell’infinita trattativa con gli Stati Uniti dopo la minaccia di tariffe al 30% verso l’Europa e la successiva missione a Washington del capo negoziatore europeo Maros Sefcovic. La premier lo ribadisce sul palco del congresso della Cisl all’Eur, sottolineando il lavoro assiduo e costante dell’esecutivo: “Tutti i nostri sforzi sono rivolti a questo, chiaramente in collaborazione con gli altri leader, con la Commissione Europea”. La guerra commerciale “non avrebbe alcun senso”, “impatterebbe soprattutto sui lavoratori”, precisa. A maggior ragione perché il caos scoppia “in un periodo complesso, segnato da tensioni geopolitiche che rendono il contesto internazionale molto incerto e instabile, con conseguenze inevitabili su economia reale, tenuta dei livelli occupazionali e produzione”.

L’intesa “è in procinto” di essere raggiunta, azzarda poco dopo sullo stesso palco Adolfo Urso. Il ministro delle Imprese e del Made in Italy fornisce informazioni in suo possesso che arrivano dagli Stati Uniti: “Da quel che apprendiamo ci siamo, l’intesa sta per essere raggiunta. Ci auguriamo che sia equa, costruttiva, positiva e sostenibile”. Il presidente Usa, Donald Trump, infatti, in un’intervista a Real America’s Voice, ha spiegato che un accordo con l’Ue è vicino, anche se “sono molto indifferente al riguardo”. Il governo italiano, secondo Urso, ha fatto tutto il necessario operando “in modo costruttivo e collaborativo, affinché ci fosse un negoziato sia in termini bilaterali che con le istituzioni europee, in modo specifico con la Commissione Europea”.

Le opposizioni non ci stanno e incalzano l’esecutivo. Per il leader dei Verdi, Angelo Bonelli, la premier deve “svegliarsi dal torpore. La guerra commerciale con gli Stati Uniti non è un rischio ipotetico: è già iniziata, ed è stata innescata da Donald Trump, non certo dall’Europa”. I dazi al 30% dal primo agosto, secondo Bonelli, “sono un’estorsione, un atto di violenza economica che rischia di causare una crisi gravissima”, solo l’Italia “potrebbe perdere 35 miliardi di export e oltre 180.000 posti di lavoro”. Piero De Luca, deputato Pd e capogruppo in commissione Affari europei, giusto negoziare “ma a schiena dritta. Serve un’intesa, non una resa”, portando al tavolo delle trattative “una posizione unitaria Ue, evitando azioni bilaterali che rischiano di indebolire Italia ed Europa stessa”. Preoccupazioni anche sulla tutela dell’agroalimentare. Coi dazi al 30%, denuncia Antonella Forattini, capogruppo Pd in commissione Agricoltura alla Camera, verrebbero colpiti “prodotti simbolo del Made in Italy, dai formaggi alla pasta, fino al vino, in un contesto già segnato dalla svalutazione del dollaro”. Per Simona Bonafè, vicepresidente vicaria del Gruppo Pd alla Camera, i dazi avrebbero un impatto gravissimo su alcuni dei settori più competitivi del nostro export, come “moda e farmaceutica, colonne portanti del Made in Italy”.

Dazi, lettere Trump ad altri 6 Paesi: stangata del 50% sul rame e prodotti dal Brasile

Il Brasile e il rame sono i due nuovi obiettivi dell’offensiva doganale di Donald Trump, il primo in nome della difesa dell’ex presidente Jair Bolsonaro, sotto processo per tentato colpo di Stato, e il secondo per proteggere la “sicurezza nazionale”. “Annuncio un dazio aggiuntivo del 50% sul rame, che entrerà in vigore il 1° agosto 2025, dopo aver ricevuto una valutazione approfondita in materia di sicurezza nazionale”, spiega il presidente americano sul suo social network, senza dubbio in riferimento a un’indagine del Dipartimento del Commercio. “Il rame è il secondo materiale più utilizzato dal Ministero della Difesa!”, tuona, evocando le esigenze del Paese per la costruzione di semiconduttori, aerei, navi, munizioni, centri dati e sistemi di difesa antimissile, tra le altre cose.

In nome del riequilibrio delle relazioni commerciali a vantaggio degli Stati Uniti, Donald Trump ha imposto ad aprile un dazio minimo del 10% sulle importazioni, anche se non possono essere prodotte in loco, ma con alcune esenzioni, in particolare per oro, rame, petrolio e medicinali. Martedì è tornato sulle eccezioni, prevedendo ad esempio un dazio del 200% sui prodotti farmaceutici e del 50% sul rame, una minaccia che ha fatto salire il prezzo del metallo di quasi il 10% a New York martedì, superando il suo massimo storico. Se i dazi sul rame entreranno in vigore, i prezzi dei beni fabbricati con questo metallo (frigoriferi, automobili, ecc.) potrebbero aumentare, come per gli altri prodotti soggetti a sovrattassa all’importazione.

Mercoledì il presidente americano ha anche annunciato un dazio del 50% sui prodotti brasiliani, finora risparmiati, poiché gli Stati Uniti registrano un surplus commerciale nei loro scambi con il gigante sudamericano. In una lettera indirizzata al suo omologo Lula, Trump afferma che questi dazi doganali saranno imposti in risposta al procedimento giudiziario avviato contro Jair Bolsonaro, sotto processo nel suo Paese per tentato colpo di Stato. “Il modo in cui il Brasile ha trattato l’ex presidente Bolsonaro è una vergogna internazionale”, scrive Trump nella sua lettera, ritenendo che il procedimento contro l’ex leader brasiliano di estrema destra sia “una caccia alle streghe che deve cessare immediatamente”. “Qualsiasi misura unilaterale di aumento dei dazi doganali avrà una risposta alla luce della legge brasiliana sulla reciprocità economica”, risponde il presidente brasiliano Luiz Inacio Lula da Silva in un comunicato.

Da lunedì, una ventina di paesi hanno ricevuto una lettera che annuncia il sovrattassa che si applicherà a partire dal 1° agosto sui loro prodotti in entrata negli Stati Uniti.

Nel dettaglio, i prodotti algerini dovrebbero essere tassati al 30% (invariato rispetto all’annuncio iniziale di inizio aprile), così come quelli provenienti dalla Libia (-1 punto percentuale), dall’Iraq (-9pp) e dallo Sri Lanka (-14pp), quelli provenienti dalla Moldavia e dal Brunei saranno tassati al 25% (rispettivamente -6 pp e +1 pp). Per quanto riguarda i prodotti filippini, la sovrattassa sarà del 20% (+3 pp). Lunedì, quattordici capitali, principalmente asiatiche, hanno ricevuto una lettera con un sovrattassa che va dal 25% (Giappone, Corea del Sud, Tunisia in particolare) al 40% (Laos e Birmania) passando per il 36% (Cambogia e Thailandia). Martedì Donald Trump aveva fatto sapere che avrebbe inviato altre lettere questa settimana, in particolare all’Unione europea. Ieri, un portavoce della Commissione europea ha assicurato che l’Ue intende raggiungere un accordo con gli Stati Uniti “nei prossimi giorni”. L’obiettivo dell’Ue è quello di evitare qualsiasi sovrattassa (oltre la soglia minima del 10%), con esenzioni per settori chiave come l’aeronautica, i cosmetici e le bevande alcoliche. Inizialmente, i nuovi dazi avrebbero dovuto essere riscossi a partire dal 9 luglio, dopo un precedente rinvio, ma all’inizio della settimana Trump ha firmato un decreto per posticipare la data al primo agosto. Nelle sue lettere, Trump avverte che qualsiasi ritorsione sarà punita con un’ulteriore sovrattassa di pari entità. All’inizio di aprile, il presidente americano aveva annunciato dazi punitivi fino al 50% sui prodotti dei paesi con un surplus commerciale con gli Stati Uniti, prima di concedere, di fronte al panico dei mercati, una pausa di 90 giorni per negoziare accordi bilaterali. Per il momento ne sono stati annunciati solo due, con il Regno Unito e il Vietnam, mentre è stato raggiunto un compromesso con la Cina.

Prosegue negoziato Ue-Usa su dazi. Trump: “Tra due giorni la lettera ai 27. No altri rinvii”

L’Unione europea prende atto del rinvio al primo agosto della scadenza della pausa sui dazi più severi imposti dagli Stati Uniti d’America, ma continua a lavorare per arrivare a un accordo il prima possibile perché il punto centrale ora è superare l’instabilità e dare certezze al mondo economico.

“Quello che vogliamo raggiungere è una soluzione negoziata con gli Usa ed evitare una ulteriore escalation delle tensioni commerciali“, afferma in conferenza stampa dopo l’Ecofin il commissario europeo all’Economia, Valdis Dombrovskis, che ricorda che l’Unione ha lavorato “avendo in mente la scadenza del 9 luglio”. “A quanto pare però gli Usa hanno posticipato al primo agosto la scadenza. Ciononostante, i negoziati tra Ue e Usa proseguono a livello politico e tecnico per raggiungere un accordo di principio prima di tale data”, sottolinea. E se da un lato la nuova scadenza “ci dà più tempo”, dall’altro “rimaniamo concentrati”.

La scorsa settimana, con la missione a Washington di una squadra tecnica Ue e del commissario al Commercio, Maros Sefcovic, “ci sono stati intensi colloqui per un accordo di principio e sono stati compiuti progressi in tal senso”. E “stiamo portando avanti i negoziati sia politici che tecnici nel merito. Quindi, in un certo senso, prima riusciremo a raggiungere l’accordo, meglio sarà perché ciò eliminerebbe l’incertezza sulla questione dei dazi e vediamo che è atteso dall’economia e dalle aziende nelle loro decisioni di investimenti”, osserva.

E mentre oltre oceano il presidente Donald Trump esclude ulteriori rinvii“Le tariffe inizieranno ad essere pagate a partire dal 1 agosto 2025. Non vi è stata alcuna modifica a tale data e non vi saranno modifiche. In altre parole, tutte le somme saranno esigibili e pagabili a partire dal 1 agosto 2025. Non saranno concesse proroghe”, scrive su Truth -, nella plenaria del Parlamento europeo, a Strasburgo, Sefcovic si mostra ancora una volta aperto a tutte le possibilità: “Continuiamo a collaborare strettamente con le nostre controparti statunitensi sui dazi imposti sui prodotti europei. Voglio assicurarvi che stiamo lavorando a pieno ritmo per assicurare soluzioni negoziate eque e reciprocamente vantaggiose. Ma dobbiamo essere preparati a ogni esito e pronti a riequilibrare, se necessario”, dettaglia. Non bisognerà aspettare molto:  “Mancano circa due giorni all’invio della lettera”, al blocco dei 27 Paesi dell’Unione europea, fa sapere il presidente degli Stati Uniti, durante una riunione di gabinetto. Trump sottolinea che sta ancora discutendo con i negoziatori del blocco, ma che è scontento delle politiche europee nei confronti delle aziende tecnologiche statunitensi.

Se il lavoro tecnico di Bruxelles continua, la politica alza la voce. In particolare dai primi due gruppi politici al Parlamento europeo, popolari e socialisti. “Parliamo di milioni di posti di lavoro, un enorme impatto sull’Europa, del futuro della nostra economia europea”, commenta in conferenza stampa a Strasburgo il presidente del Partito popolare europeo (Ppe), Manfred Weber. “Von der Leyen e Sefcovic stanno facendo un lavoro eccellente e il mio primo messaggio è che l’Unione europea e gli Stati Uniti, dal punto di vista del mercato, sono sullo stesso piano: loro rappresentano il 25% del Pil mondiale, noi il 22% del Pil mondiale. Nessuno può metterci sotto pressione come sta facendo Donald Trump con altre economie, probabilmente più piccole, a livello globale“, afferma. Per il capo della famiglia politica più numerosa dell’aula, e che esprime la presidente della Commissione, “la precondizione è stare uniti”. In più, “se si arriverà a un accordo generale, la questione della reciprocità sarà sul tavolo” anche perché “i dazi orizzontali del 10% sono una sfida” per gli europei. “Dal mio punto di vista, tenendo presente la forza del mercato unico europeo, siamo potenti. Siamo forti. Credo che dobbiamo parlare di reciprocità, quando si parla del 10%”, illustra.

Nel frattempo, a margine della plenaria a Strasburgo, il secondo gruppo al Parlamento europeo, quello dei Socialisti e democratici, ha avuto un incontro con Sefcovic. Al temine, la presidente del gruppo, la spagnola Iratxe Garcia Perez ha espresso rammarico per “questa guerra commerciale, che aumenta i costi, danneggia posti di lavoro e aggrava la disuguaglianza globale” e ha ricordato che “l’Ue ha bisogno di una strategia ferma e unita, con chiare linee guida, conseguenze concrete e prontezza ad agire”. E ha avvertito: “Non ci piegheremo al bullismo” ed “è ora di guidare un commercio globale equo e basato su regole”. Anche l’eurodeputato del Pd (S&d), Brando Benifei, ha sottolineato l’importanza di una risposta ferma da parte di Bruxelles. “Le tariffe statunitensi attualmente in vigore, così come l’incertezza giuridica che avvolge il futuro delle relazioni commerciali transatlantiche, danneggiano le imprese e i cittadini europei. Abbiamo negoziato in buona fede, come si fa tra alleati. Non possiamo continuare ad essere trattati come un Paese terzo ostile”, ha affermato nel briefing organizzato dal gruppo S&d con la partecipazione di Bernd Lange, presidente della commissione Inta, e Kathleen Van Brempt, vice presidente del gruppo S&d. “Se non vi sarà una chiara volontà da parte statunitense di sospendere immediatamente queste misure, mentre i negoziati procedono su un accordo quadro i cui dettagli saranno da definire nelle successive settimane, l’Unione europea dovrà adottare subito contromisure serie”, ha scandito.

Mattarella scrive a Trump: “Stati Uniti partner insostituibile per l’Italia”

È il secondo messaggio inviato da Sergio Mattarella a Donald Trump dopo il ritorno alla Casa Bianca. Come ogni 4 luglio il capo dello Stato scrive, a nome della Repubblica e suo personale, al presidente Usa per celebrare l’Independence Daydell’amico popolo americano”, ma quest’anno il significato è particolarmente importante.

Mattarella già dalle prime righe sottolinea che “gli Stati Uniti costituiscono un partner insostituibile per l’Italia”. Nel pieno del negoziato con l’Unione europea per scongiurare la guerra dei dazi, a poche ore dalla fine della missione a Washington del commissario Ue al Commercio, Maros Sefcovic, il presidente della Repubblica ricorda “la solidità dei rapporti bilaterali e la straordinaria intensità del dialogo politico” con l’Italia, “riflesso di un legame fortemente sentito e partecipato dai nostri popoli”. Non solo: “Proficui scambi a livello economico, culturale e sociale (che si avvantaggiano dell’apporto della dinamica comunità italo-americana) contribuiscono ad uno storico partenariato che intendiamo continuare a consolidare su basi di equità e reciproca prosperità”, scrive ancora Mattarella.

Nei primi mesi del nuovo mandato, Trump è stato in Italia soltanto lo scorso 25 aprile, per partecipare ai funerali di Papa Francesco, ma non c’è stato un passaggio ufficiale al Quirinale, né a Palazzo Chigi con la premier, Giorgia Meloni, che lo ha incontrato sul sagrato di San Pietro ma era stata ricevuta alla Casa Bianca, in visita ufficiale, appena una settimana prima. L’ultima volta in cui il tycoon è stato ricevuto al Colle risale al 2017, durante il suo primo mandato, mentre Mattarella è stato a Washington nell’ottobre del 2019, un anno prima delle elezioni presidenziali che segnarono il passaggio di testimone con Joe Biden. Da allora il mondo ha subito diversi cambiamenti, a partire dalla pandemia, seguita poi dalla guerra scatenata in Ucraina dalla Russia e quelle in Medio Oriente, tra Israele e Palestina prima e Israele-Iran poche settimane fa, dove c’è stato anche l’intervento militare Usa che ha preceduto l’accordo per il cessate il fuoco tra Tel Aviv e Teheran.

Le tensioni, però, restano. Di fatti, nella missiva inviata a Trump, Mattarella mette in luce che “di fronte a una congiuntura internazionale caratterizzata da sfide molteplici e complesse, a partire dalle drammatiche situazioni in Ucraina e Medio Oriente, Stati Uniti e Italia condividono l’obiettivo di promuovere percorsi di stabilizzazione e di pace, oggi così compromessi, favorendo la cooperazione e la sicurezza globale”. Nel passaggio, inoltre, il capo dello Stato ribadisce un concetto che più volte ha espresso: “In questo contesto, denso di criticità e tensioni, la perdurante centralità del vincolo transatlantico resta la chiave per affrontarle con efficacia”. Un punto cruciale nella fase storica che vive la Nato e l’Alleanza atlantica.

Dazi, si scaldano prezzi per festa 4 luglio Usa: +13% per grigliate, utensili barbecue e birra

I rincari indotti dai dazi (e dall’inflazione) non risparmiano nemmeno la sentitissima festa del 4 luglio negli Stati Uniti. Tutto ciò che utilizzeranno gli americani nelle tradizionali gite fuori porta e per le grigliate sono infatti soggetti ad aumenti che in certi casi raggiungono la doppia cifra. Secondo un nuovo rapporto della minoranza democratica al Congress Joint Economic Committee del Senato, il tipico ‘paniere dei beni’ composto da carne, birra e altri articoli comuni da barbecue, costeranno in media il 12,7% in più rispetto al 2024. Il calcolo si basa sull’indice dei prezzi al consumo per i prodotti alimentari e le bevande più richiesti per una grigliata estiva di 10 persone dal 2 aprile, ovvero dall’annuncio del presidente Donald Trump sull’introduzione dei dazi.

Le confezioni da 6 di due delle birre più popolari (Miller Lite e Coors Light) sono aumentate di oltre il 13% da Walmart da prima dell’ormai famigerato ‘Liberation Day’. Anche i costi delle birre importate più diffuse sono aumentati. Una confezione da 6 bottiglie di Peroni Nastro Azzurro (Italia) ha subito un aumento del 10,5%, una di Modelo Especial (Messico) è rincarata del 9,5% Si prevede che i dazi sull’acciaio e sull’alluminio imposti dall’amministrazione Trump porteranno a ulteriori aumenti dei prezzi. I piccoli produttori di birra, in particolare, spesso non sono in grado di assorbire i costi delle tariffe su prodotti come l’alluminio: “Una confezione di birra da 12,99 dollari finirà a 18,99 dollari”, ha dichiarato di recente Bill Butcher, proprietario di una piccola impresa della Virginia. Anche le grandi aziende produttrici di birra potrebbero essere costrette a fare scelte difficili: secondo stime indipendenti, le tariffe potrebbero far salire di 1 o 2 dollari il costo di una confezione, ovvero fino a un aumento del 32% sul prezzo mediano.

Lo studio dei Dem rileva che “il prezzo di due dei più importanti cibi da barbecue – la carne macinata e il gelato – ha raggiunto livelli record da quando i dati sono stati resi disponibili negli anni ’80. Il prezzo di altri prodotti popolari associati alle grigliate è salito di oltre il 10%”, spiega lo studio. Anche i costi di altri prodotti popolari associati alle grigliate sono aumentati negli ultimi mesi. Su Amazon il prezzo della griglia a gas più popolare è aumentato di 30 dollari, ovvero del 5%, tra l’1 aprile e il 26 giugno. Altre inserzioni per le principali categorie di attrezzature da barbecue indicano costi lievitati di 55 dollari, pari al +7,7%. Ad esempio, una sedia pieghevole da esterno costa il 47,7% in più dall’1 aprile, il kit base da 35 utensili è soggetto a un +17,7% e persino i rotoli di alluminio costano il 7% in più.

Un altro rapporto di maggio di Rabobank, banca globale del settore alimentare e agroalimentare, ha rilevato che il costo di un barbecue per 10 persone è aumentato del 4,2% quest’anno e raggiungerà i 100 dollari per la prima volta in assoluto. Il suo indice del barbecue ha evidenziato come un fattore contribuente sia stato l’aumento dei prezzi della carne bovina. Costi notevolmente superiori a quelli stimati dall’American Farm Bureau Federation (Afbf), secondo cui quest’anno una grigliata per il Giorno dell’Indipendenza costerà 70,92 dollari per 10 persone. Facendo la media, con 7,09 dollari a persona, il 2025 potrebbe essere il secondo anno consecutivo con il costo più alto da quando Farm Bureau ha avviato l’indagine nel 2013: l’anno scorso l’indice dell’inflazione alimentare tra aprile e giugno era al 2,2%, lo stesso tasso rilevato quest’anno dal governo in merito ai prezzi al consumo per gli alimenti consumati a casa.

“L’inflazione e la minore disponibilità di alcuni prodotti alimentari continuano a mantenere i prezzi ostinatamente alti per le famiglie americane – ha spiegato Samantha Ayoub, economista dell’Afbf -. Tuttavia, i prezzi alti non significano più soldi per gli agricoltori. Gli agricoltori subiscono i prezzi, non li determinano. La loro quota del fatturato della vendita al dettaglio di prodotti alimentari è solo del 15%. I costi di gestione delle loro aziende agricole sono in aumento, dalla manodopera e dai trasporti, alle tasse”. L’indagine MarketBasket evidenzia un aumento del costo della carne di manzo, dell’insalata di patate e della carne di maiale e fagioli in scatola, mentre si registrano cali nel costo delle costolette di maiale, delle patatine fritte e dei panini per hamburger. Il prezzo al dettaglio di 2 libbre di carne macinata di manzo è aumentato del 4,4%, raggiungendo i 13,33 dollari. La carne di maiale con fagioli costerà 2,69 dollari, con un aumento di 20 centesimi rispetto al 2024. L’insalata di patate è aumentata del 6,6%, raggiungendo i 3,54 dollari.

Diversi fattori influenzano questi aumenti, riflettendo le difficoltà che gli agricoltori affrontano regolarmente. Sono disponibili meno bovini per la lavorazione, il che sta incidendo sulle forniture. I dazi su acciaio e alluminio comportano un aumento dei prezzi dei prodotti in scatola. Il costo delle uova, utilizzate nell’insalata di patate, è ancora elevato, sebbene molto inferiore ai massimi storici di inizio anno, poiché le popolazioni di galline ovaiole si stanno riprendendo dall’influenza aviaria. Il sondaggio di fine giugno dell’Afbf ha comunque rilevato anche una riduzione del costo di 5 prodotti ‘essenziali’ per le grigliate. Tra questi, una confezione da 1,35 kg di costolette di maiale, in calo dell’8,8% rispetto all’anno scorso, a 14,13 dollari. Le patatine fritte costano in media 4,80 dollari al sacchetto, dieci centesimi in meno rispetto al 2024. I panini per hamburger costano il 2,6% in meno, a 2,35 dollari.

Tagli di Trump agli aiuti internazionali rischiano di causare oltre 14 mln morti nel mondo

Il crollo dei finanziamenti statunitensi destinati agli aiuti internazionali, deciso dall’amministrazione di Donald Trump, potrebbe causare oltre 14 milioni di morti in più entro il 2030 tra le persone più vulnerabili, di cui un terzo bambini, secondo una proiezione pubblicata su The Lancet.

Questi tagli rischiano di interrompere bruscamente, o addirittura di invertire, due decenni di progressi nella salute delle popolazioni vulnerabili. Per molti paesi a basso e medio reddito, lo shock che ne deriverebbe sarebbe di portata paragonabile a quella di una pandemia globale o di un conflitto armato su larga scala“, ha commentato Davide Rasella, coautore dello studio e ricercatore presso il Barcelona Institute for Global Health, citato in un comunicato.

La pubblicazione di questo studio sulla prestigiosa rivista medica coincide con una conferenza sul finanziamento dello sviluppo che riunisce in Spagna i leader di tutto il mondo, con gli Stati Uniti tra gli assenti. L’incontro si svolge in un contesto particolarmente cupo per gli aiuti allo sviluppo, duramente colpiti dai massicci tagli ai finanziamenti decisi da Donald Trump dal suo ritorno alla Casa Bianca a gennaio.

Esaminando i dati di 133 paesi, il team internazionale di ricercatori ha stimato retrospettivamente che i programmi finanziati dall’USAID hanno evitato 91 milioni di morti nei paesi a basso e medio reddito tra il 2001 e il 2021. E, secondo i loro modelli, il taglio dell’83% dei finanziamenti statunitensi – cifra annunciata dal governo all’inizio del 2025 – potrebbe causare oltre 14 milioni di morti in più entro il 2030, di cui oltre 4,5 milioni di bambini sotto i cinque anni, ovvero circa 700.000 morti in più all’anno. Infatti, secondo i calcoli dei ricercatori, i programmi sostenuti dall’USAID hanno portato a una riduzione del 15% dei decessi per tutte le cause. Per i bambini sotto i cinque anni, il calo dei decessi è stato doppio (32%). L’impatto maggiore di questi aiuti è stato osservato per le malattie prevenibili. Secondo lo studio, la mortalità dovuta all’HIV/AIDS è stata ridotta del 74%, quella dovuta alla malaria del 53% e quella dovuta alle malattie tropicali trascurate del 51% nei paesi che hanno beneficiato del livello di aiuti più elevato rispetto a quelli con finanziamenti USAID scarsi o nulli.

Un’altra fonte di preoccupazione è che altri importanti donatori internazionali, principalmente europei, come Germania, Gran Bretagna e Francia, hanno annunciato tagli ai loro bilanci per gli aiuti esteri sulla scia degli Stati Uniti. Ciò rischia di “causare ancora più morti nei prossimi anni”, ha avvertito Caterina Monti, coautrice dello studio e ricercatrice presso l’ISGlobal. Circa 50 capi di Stato e di governo, tra cui il presidente francese Emmanuel Macron e la presidente della Commissione europea Ursula Von der Leyen, partecipano alla conferenza sul finanziamento dello sviluppo a Siviglia per quattro giorni, insieme a 4.000 rappresentanti della società civile. “È il momento di aumentare, non di ridurre” gli aiuti, ha affermato Davide Rasella. Prima dei tagli al finanziamento, l’USAID rappresentava lo 0,3% della spesa federale statunitense. “I cittadini americani versano circa 17 centesimi al giorno all’USAID, ovvero circa 64 dollari all’anno. Penso che la maggior parte delle persone sarebbe favorevole al mantenimento dei finanziamenti all’USAID se sapesse quanto un contributo così piccolo possa essere efficace per salvare milioni di vite”, ha dichiarato James Macinko, coautore dello studio e professore presso l’Università della California (UCLA)