Le guerre fatte sulle tasche dei cittadini e la retromarcia della Ue

Schiacciati tra la guerra in Ucraina e gli orrori di Gaza, onestamente non si sentiva necessità di un altro fronte conflittuale, ancor più pericoloso, aperto da Israele contro l’Iran. Le evidenze di questi giorni testimoniano una svolta nell’accezione politica a questa terza guerra: mentre sull’Ucraina a tratti le posizioni non sono allineate, mentre sulla Striscia la condanna del mondo è univoca per ciò che ha scatenato la mattanza e per la reazione inusitata che continua a esserci, sulle incursioni dell’esercito di Netanyahu a Teheran e dintorni c’è la quasi sintonia del pianeta, al massimo (ed è il caso della Russia) si registrano silenzi imbarazzati. La minaccia atomica di un regime poco incline alla salvaguardia dei diritti umani, quello degli ayatollah, sta mettendo tutti d’accordo nella speranza che il conflitto non si allarghi e da regionale diventi planetario.

Fatta questa premessa, c’è la poi la sostanza delle cose che va a impattare sul cittadino comune, in Europa e in Italia. Già fiaccati dal ‘tiraemolla’ di Donald Trump che minaccia di mettere dazi anche ai sogni – a proposito, manca meno di un mese alla tregua di luglio – i sistemi economici occidentali devono rifare i conti con altri rincari, in particolare quelli dell’energia, cioè gas e petrolio. E’ vero che l’Iran attualmente ha un’incidenza minima nel mercato globale ed è vero che non si è verificato uno sconquasso dei prezzi (a giugno 2022, quattro mesi dopo l’invasione russa, aveva toccato i 122 dollari al barile, oggi è a 75), però la timida ripresa delle scorse settimane è andata a farsi benedire. E al signor Brambilla o alla signora Pautasso, che smaniano per andare in vacanza e magari non posseggono tutta questa sensibilità geopolitica, l’unica cosa che li rende irascibili sono il rincaro delle bollette e il pieno di diesel o benzina. Perché, alla resa dei conti, è sempre l’energia a fare da discriminante.

Prima c’erano gli Houty, adesso c’è lo stretto di Hormuz, che è grande come il Mare Adriatico e collega il Golfo Persico e il Golfo di Oman, là dove transitano ogni giorno 20 milioni di barili via nave. Se l’Iran decidesse di bloccare quel passaggio, mezzo mondo resterebbe a secco con conseguente impazzimento dei prezzi, perché una goccia di greggio varrebbe quanto un’oncia d’oro. Non a caso, l’Unione europea ha innestato la marcia indietro per quanto riguarda il tetto al petrolio russo, che doveva passare da 60 dollari (stabiliti nel 2022) a 45, in maniera da intaccare i ricavi di Vladimir Putin e togliergli le sovvenzioni per continuare il conflitto con l’Ucraina. Ma di fronte all’incedere minaccioso della guerra tra Israele e Iran e all’inevitabile aumento del prezzi, Ursula von der Leyen ha detto che conviene pazientare. Al contrario dell’Alta Commissaria Kaja Kallas che non vorrebbe arretrare di un millimetro, testimonianza di una distonia strategica all’interno della Commissione. A metterle d’accordo è intervenuto Trump, con un no secco e ultimativo all’inasprimento delle misure contro Mosca. E allora?

Allora lo spauracchio è quello degli Anni Settanta e delle targhe alterne legate alla crisi petrolifera. Assetati di benzina, vennero introdotte misure di austerity – mutuate da un’idea americana – per limitare la circolazione dei veicoli privati la domenica: una era vietata alle targhe pari, quella dopo alle targhe dispari. Tornare indietro di cinquant’anni senza capire il perché…

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Energia cara per Italia: 15% in più dell’Area Euro. Pesano oneri e tasse

Luce e gas costano caro agli italiani. Purtroppo, non è una novità ma adesso ci sono i dati della Relazione annuale di Arera a certificarlo: nel 2024 i consumatori domestici del nostro Paese hanno pagato il gas il 15,1% in più del resto dell’Area euro (13,1 centesimi al kWh), con tariffe superiori del 5,3 percento rispetto alla media. Non va meglio per quel riguarda l’energia elettrica. Nonostante una diminuzione generalizzata in Europa, sebbene con intensità diverse (la media dell’Area euro è 14%, ma si va dal -2,7% della Germania al -20,2% della Francia), l’Italia ha infatti perso nuovamente competitività rispetto alla maggior parte degli altri Paesi europei.

In entrambi i casi il peso maggiore è quello di oneri, imposte e tasse che, per la luce, sale del 28%annullando le riduzioni registrate dalla componente energia e dai costi di rete”; mentre per il gas è di 3,2 centesimi/kWh, a cui si sommano i costi di rete lievitati a 3 centesimi/kWh. Fattori che giustificano, dunque, l’erogazione di bonus sociali (su base Isee) a 4,5 milioni di famiglie anche nel 2024 (-40,5% rispetto all’anno precedente), cui 2,8 milioni per l’energia elettrica e 1,7 milioni per il gas.

I dati di Arera, comunque, vanno letti in controluce, perché lo scorso anno, nonostante il perdurare delle guerre tra Russia e Ucraina alle porte del Vecchio continente, e tra Israele e Palestina in Medio Oriente, i prezzi sono diminuiti in 17 Paesi, tra cui appunto l’Italia (-8%) e il Lussemburgo (-33%), mentre in 10 sono schizzati in alto, come in Francia (+19%) e Portogallo (+15). Risultati che ci hanno permesso di ridurre di quasi dieci punti percentuali il differenziale dalla media Ue, che oggi passa al 15%. Gli effetti positivi si sono riverberati anche sulle imprese, che lo scorso anno hanno pagato un prezzo lordo “più conveniente rispetto a quasi tutti i principali competitor europei”. Ad esempio, -9,8% nel confronto con la Francia e -7,7% rispetto alla Germania. Solo la Spagna fa meglio (+38%). Buone notizie, per carità, ma la situazione resta comunque complicata per il sistema produttivo di casa nostra.

Spostando i riflettori su altri aspetti dello stesso tema, nel 2024 Arera registra un incremento della produzione mondiale di gas dell’1,4%, che non trova alimento però in Italia, dove il calo è del 4,1% (poco sotto i 2.600 milioni di metri cubi). Di contro, i consumi nel nostro Paese sono risaliti 0,3 miliardi di metri cubi, “riportando la domanda a 61,8 miliardi di metri cubi dai 61,5 del 2023”. Tutt’altra musica, invece, per l’energia elettrica, dove la produzione schizza del 3,2 percento a 273,3 TWh, con un boom delle rinnovabili (+14,9%) sotto la forte spinta dei 52,8 TWh di idroelettrico, che dunque sale del 30,2%. Numeri che permettono di soddisfare l’83,7% della domanda italiana. L’energia, dunque, resta una priorità, per le aziende ma soprattutto per le istituzioni, cui è demandato il compito di trovare le soluzioni per dare ossigeno a chi produce ma anche alle famiglie.

Ragioni che spingono il presidente di Arera, Stefano Besseghini, a plaudire l’iniziativa del governo sul nucleare: “Non perché sia possibile nel breve una rilevante e significativa penetrazione nel mix, ma perché anche lì soffia il vento dell’innovazione e un Paese industrializzato, rilevante, con la competenza tecnico scientifica dell’Italia – sottolinea nella sua Relazione -, non può non avere un contesto normativo in grado di agevolare lo sviluppo delle soluzioni innovative in ogni settore”. Così come il “disaccoppiamento della remunerazione di mercato elettrico fra le fonti di produzione con o senza costi marginali di produzione” diventa un “punto centrale”.

Il numero uno dell’Authority, inoltre, ricorda che “a partire dal prossimo 1 luglio, la bolletta di energia elettrica e gas naturale in Italia cambierà volto” e “ogni operatore sarà tenuto a pubblicare in modo visibile e accessibile le condizioni tecnico-economiche delle proprie offerte”. Un cambiamento che Besseghini definisce “un investimento in trasparenza”. Che fa il paio con il suo monito sul ruolo del regolatore, che a suo modo di vedere “assume anche una funzione comunicativa e culturale: deve informare, spiegare, motivare, educare, accorciando le distanze, alleggerendo il tono e semplificando il linguaggio senza essere fuorvianti e con spirito di servizio”. Non a caso, infatti, il Servizio conciliazione ha permesso di ottenere, sulle oltre 34mila domande presentate, più di 21 milioni di euro “con un tasso di soddisfazione degli utilizzatori del Servizio Conciliazione pari al 95%”. Fattori che in una fase storica di incertezza “che rischia di minare le fondamenta stesse della nostra società”, diventano cruciali per vincere la sfida della transizione energetica.

Dal fagiolo di Meloni al tappo delle bottiglie di Metsola

Il fagiolo di Giorgia Meloni e il tappo delle bottiglie di plastica di Roberta Metsola sono stati i momenti più ‘alti’ dell’assemblea di Confindustria, là dove il presidente Orsini è stato molto diretto nel lanciare l’allarme energia, nel chiedere all’Europa un brusco cambio di passo e nell’invocare un nuovo piano industriale, anzi un piano industriale straordinario per l’Italia, quantificabile in 8 miliardi all’anno per i prossimi tre, meglio sarebbe per cinque.

Il fagiolo (se è più piccolo di un centimetro non è europeo) è il paradosso che ha usato la premier per fare capire come questa Europa sia fuori dal tempo e distante dalla realtà, vittima di regole che si autoimpone e di dazi interni che sono molto peggio di quelli ballerini millantati da Donald Trump. Il tappo attaccato al collo delle bottiglie di plastica è invece l’immagine usata dalla presidente del Parlamento Ue per dire che la Ue medesima non è quella di questo provvedimento ecologico ma può e deve essere qualcosa di diverso. Delicata ma netta, insomma. Quasi critica. Poi l’una ha aperto le porte di Chigi agli industriali sul tema dell’energia (come dire: se avete un problema venite da me e non lamentatevi pubblicamente), l’altra ha voluto chiarire subito, ad inizio intervento, che il parlamento di Strasburgo e gli uffici ovattati di Bruxelles stanno dalla parte degli imprenditori e sono al fianco degli industriali. Non sia mai.

Riavvolgendo il nastro dell’appuntamento bolognese, emerge che Orsini, Meloni e Metsola la pensano allo stesso modo sull’Europa. Che va cambiata. Che va riformata. Che va adeguata alle necessità dei 400 milioni e passa di cittadini. E in fretta. Ma la nota dolente è che troppe volte si è sentito questo refrain senza che nulla di concreto sia stato fatto per imprimere una svolta radicale. Al massimo ci sono state delle correzioni in corsa con evidenti malumori interni. Ma tra Trump che incombe e la Cina che minaccia, tra guerre sparse e terre (rare) da conquistare il conto alla rovescia si è esaurito da un pezzo. Il pachiderma di Bruxelles non ha più ragione di esistere, bisogna essere grilli, saltare di qua e di là.

Dopo aver detto che l’Italia è più credibile e quindi spendibile verso l’esterno, la chiosa della presidente del Consiglio agli industriali è stato un inno alla gioia: “pensate in grande perché io lo farò”. Un ‘claim‘ a presa rapida accolto con molti assensi del capo da una platea gremita di eccellenze, anche se prima si è andati a sbattere contro il muro dei costi energetici. Disaccoppiamento di gas ed elettricità, oltre al nucleare di ultima generazione sono le strade da battere per uscire da una situazione delicatissima, che sta piegando la nostra industria riducendone la competitività. Per Meloni le speculazioni energetiche sono inaccettabili, per Orsini a Roma non devono frenare sulle rinnovabili, che da sole non risolvono il problema ma nell’ambito di un indispensabile mix energetico sicuramente aiutano.

Dopo le richieste e le risposte si attendono a strettissimo giro atti concreti. Dimenticandosi di fagioli e tappi di bottiglia.

Energia, Ue verso indipendenza da Mosca: stop totale all’import gas russo dal 2027

L’Unione europea fissa le tappe del percorso per la sua indipendenza energetica dalla Russia. E lo fa con la tabella di marcia RepowerEu che, presentata oggi dalla Commissione, punta – con azioni che vanno dal monitoraggio del gas usato nell’Ue all’interruzione dei contratti passando per piani nazionali di eliminazione dell’import fino a misure sull’uranio – a completare il lavoro iniziato tre anni fa dall’Ue alla luce dell’invasione russa dell’Ucraina. “Oggi l’Unione europea invia un messaggio molto chiaro alla Russia: Mai più. Mai più permetteremo alla Russia di usare l’energia come arma contro di noi. Mai più permetteremo che i nostri Stati membri siano ricattati. Mai più contribuiremo indirettamente a riempire le casse del Cremlino”, ha affermato in conferenza stampa il commissario europeo all’Energia, Dan Jorgensen. Contraria alla roadmap l’Ungheria: “Dopo il totale fallimento delle sanzioni contro la Russia, la Commissione europea sta commettendo oggi un altro grave errore escludendo in modo forzato, artificiale e ideologico le fonti energetiche russe”, ha dichiarato il ministro ungherese degli Esteri Peter Szijjarto in un video pubblicato su Facebook.

Prima dell’invasione russa dell’Ucraina, metà del carbone utilizzato nell’Ue proveniva da Mosca. “Abbiamo smesso completamente di farlo”, ha ricordato Jorgensen. “Per quanto riguarda il petrolio russo, siamo passati dal 26% al 3%” mentre “sul gas dal 45% nel 2022 al 13% di oggi” anche se, nel 2024, l’Ue ha registrato una ripresa degli acquisti. “L’anno scorso, nell’Ue, abbiamo pagato alla Russia 23 miliardi di euro per le nostre importazioni di energia. Si tratta di 1,8 miliardi di euro al mese. Ciò deve cessare. Per questo motivo, oggi, la Commissione ha adottato una tabella di marcia che porterà a termine l’opera”, ha spiegato il commissario.

Il documento presentato oggi è una comunicazione e sarà seguito, il mese prossimo, da un pacchetto di proposte legislative. Tra queste, una sarà sulle norme per una maggiore trasparenza, monitoraggio e tracciabilità del gas russo utilizzato nell’Ue, mentre un’altra imporrà agli Stati membri di stilare, entro fine anno, dei piani nazionali per l’eliminazione graduale del gas russo. In particolare, i piani dovranno indicare il volume delle importazioni di gas russo nell’ambito dei contratti in essere, compresi i contratti con clausole ‘take or pay’; un calendario con le tappe fondamentali per il raggiungimento dell’obiettivo di eliminare gradualmente il gas russo; le opzioni di diversificazione e sostituzione. Altre misure della roadmap sono il divieto di importazioni nell’ambito dei nuovi contratti e dei contratti spot esistenti sul gas russo entro il 2025 e il divieto di importazione di gas russo nell’ambito di contratti esistenti a lungo termine al 2027. In altre parole, saranno impediti nuovi contratti con i fornitori di gas russo (gasdotti e Gnl) e i contratti spot esistenti saranno sospesi entro la fine del 2025. “I contratti a breve termine dovranno essere interrotti quest’anno, si tratta di circa un terzo dell’importazione”, ha illustrato Jorgensen. “I due terzi, i contratti a lungo termine, dovranno terminare entro la fine del 2027. Ciò avverrà sotto forma di divieto, una proibizione. Dal punto di vista legale, per le aziende che potrebbero avere questi contratti, significa il principio di ‘forza maggiore’ e pertanto non possono essere ritenute responsabili”, ha chiarito.

Tutte le misure della tabella saranno accompagnate “da continui sforzi per accelerare la transizione energetica e diversificare gli approvvigionamenti energetici, anche attraverso l’aggregazione della domanda di gas e un migliore utilizzo delle infrastrutture”. E la comunicazione di oggi tocca anche il nucleare, visto che, nel 2024, circa il 23% dell’intera domanda dell’Ue di servizi di conversione dell’uranio è stata soddisfatta dalla Russia e nei servizi di arricchimento dell’uranio la Russia ha coperto quasi il 24% del fabbisogno dell’Ue. Qui, saranno introdotte restrizioni per eliminare gradualmente le importazioni russe di uranio, uranio arricchito e altri materiali nucleari, rendendole “economicamente meno redditizie” e, il mese prossimo, la Commissione intende limitare i nuovi contratti di fornitura cofirmati dall’Agenzia di approvvigionamento dell’Euratom per l’uranio, l’uranio arricchito e altri materiali nucleari con i fornitori russi a partire da una certa data. Infine, nell’ambito della tabella di marcia, la Commissione presenterà anche nuove azioni per affrontare il problema della flotta ombra russa che trasporta petrolio ed è inoltre prevista un’iniziativa europea per la ‘Valle dei radioisotopi’ per garantire l’approvvigionamento di radioisotopi medicali da parte dell’Ue attraverso un aumento della produzione propria.

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Petrolio ai minimi da quasi 4 anni. Tabarelli: “Una buona notizia in questa crisi”

Il prezzo dell’oro nero sta diventando sempre più rosso. Meno 15% in una settimana, quasi -30% nei confronti dello stesso periodo di un anno fa. I future sul greggio WTI hanno invertito i guadagni precedenti e sono scesi a 61 dollari al barile così come quelli del Brent riscendendo a 64,5 dollari e attestandosi al minimo da aprile 2021, dopo che le speculazioni su una pausa di 90 giorni della nuova politica tariffaria statunitense si sono rivelate false. Il precedente rimbalzo, che ha visto i prezzi del Wti texano salire brevemente sopra i 63 dollari, è stato guidato dalle speranze di un ritardo nell’implementazione completa delle tariffe prevista per mercoledì. Una volta chiarito come falso, i mercati hanno rapidamente ritracciato.

Gli investitori rimangono tesi in mezzo all’elevata volatilità, con timori che l’escalation della guerra commerciale possa frenare la crescita globale e indebolire la domanda di energia. Ad aumentare l’incertezza, Trump ha minacciato di imporre una nuova tariffa del 50% sulle importazioni cinesi se Pechino non riuscirà a revocare i suoi dazi di ritorsione, aumentando il rischio di un rallentamento globale. Nel frattempo, i recenti tagli dei prezzi di Saudi Aramco e l’inaspettato aumento della produzione dell’Opec+ continuano a pesare sulle prospettive.

“I prezzi del petrolio hanno avuto la loro settimana peggiore da ottobre 2023, con gli asset rischiosi colpiti dai dazi reciproci del presidente Usa e dalle ritorsioni che abbiamo iniziato a vedere nei loro confronti”, hanno affermato Warren Patterson, responsabile della strategia sulle materie prime di ING, e Ewa Manthey, stratega delle materie prime. La Cina ha reagito ai maxi dazi Usa imponendo dazi del 34% su tutte le importazioni dagli Stati Uniti a partire dal 10 aprile, inasprendo ulteriormente le tensioni commerciali mentre l’economia globale crolla. “Nonostante molti paesi esercitino moderazione sui dazi reciproci, nella speranza di negoziare con gli Stati Uniti, Pechino non sta prendendo la cosa sottogamba. I dazi ‘occhio per occhio’ del 34% sugli Stati Uniti […] sono un netto cambiamento nella posizione di Pechino, che rende chiaro che la Cina non cederà”, ha affermato Vishnu Varathan, amministratore delegato di Mizuho.

I prezzi del greggio statunitense sono anche scesi sotto il livello psicologico di 60 dollari al barile, poiché Saudi Aramco ha ridotto di 2,3 dollari al barile i differenziali di prezzo di vendita ufficiali per l’Asia di maggio per i suoi tipi di greggio, raggiungendo il minimo degli ultimi quattro mesi a causa delle crescenti probabilità di recessione, hanno affermato gli analisti. “Le prospettive rimangono piacevolmente negative con la possibilità di un ulteriore calo verso il livello di 50 dollari/barile. I recuperi dei prezzi potrebbero essere interessanti opportunità di vendita di titoli di punta”, ha affermato un analista senior di Swissquote Bank, come riportato da S&P Global Commodity Insights.

Il tonfo degli ultimi giorni del petrolio ha tirato giù anche le quotazioni del gas, col Ttf europeo oggi sotto di quasi l’1,5% a 35,8 euro per megawattora. Un crollo, quello appunto di petrolio e gas, che rappresenta “una notizia positiva per la bolletta energetica italiana. Si tratta del primo meccanismo di aggiustamento efficiente in quello che ho definito il ‘delirio dell’energia’ dopo tre anni di guerra. Il mercato comincia a mettere a posto l’economia, dopo questa follia dei dazi”, ha commentato a GEA Davide Tabarelli, presidente di Nomisma Energia. Secondo alcune analisi tuttavia i produttori americani farebbero fatica da competere con un petrolio Wti sceso a 60 dollari al barile dopo l’annuncio di dazi americani e di controdazi da parte della Cina. Certo, ha aggiunto Tabarelli, “qualcuno dice che con questi prezzi bassi i petrolieri americano non ce la fanno, però vedo che c’è anche un eccesso di pessimismo… sicuramente è difficile competere, ma nel 2015-2016 il prezzo del greggio Wti è sceso anche a 30-40 dollari. Si diceva che doveva sparire l’industria del fracking, poi però è diventata sempre più efficiente e più brava… ora potrebbe diventare ancora più forte”.

Il Codacons comunque mette in evidenza che “il prezzo del petrolio crolla sui mercati internazionali, ma in Italia i listini alla pompa di benzina e gasolio rimangono elevati e non seguono l’andamento delle quotazioni petrolifere” e annuncia azioni legali a tutela degli automobilisti. Rispetto ai picchi registrati nel 2025, il greggio risulta oggi deprezzato del 23%, col Wti che passa dai 78 dollari al barile di metà gennaio agli attuali 60 dollari, mentre il Brent è sceso da 82 dollari di gennaio agli attuali 63 dollari – spiega il Codacons – Nello stesso periodo, tuttavia, il prezzo della benzina alla pompa è passato da una media al self di 1,823 euro al litro agli attuali 1,764 euro, con una riduzione di appena -3,2%.

L’Algeria e la la Libia sono i primi fornitori italiani di gas e petrolio

La Libia è tornata a essere il principale fornitore di petrolio dell’Italia a 14 anni dallo scoppio della prima guerra civile: copre il 21,5% delle importazioni nazionali di greggio. Un ritorno che segna una netta inversione rispetto al crollo registrato nel 2011 e che racconta molto della nuova geografia energetica del nostro Paese, ridefinita dopo l’invasione russa dell’Ucraina.

È infatti a partire dal 2022 che l’Unione Europea ha accelerato la corsa per ridurre la dipendenza da Mosca e diversificare le fonti di approvvigionamento. Per un Paese come l’Italia, privo di risorse naturali significative e fortemente legato alle importazioni, trovare nuovi equilibri è diventato cruciale. Così, accanto alla Libia per il petrolio, è l’intero Nord Africa a guadagnare un ruolo strategico anche nell’ottica del Piano Mattei, che ha come obiettivo proprio il consolidamento dei rapporti con i Paesi di quest’area. Nella mappa realizzata da GEA elaborando i dati del Global energy monitor si possono vedere proprio i giacimenti di gas e petrolio dell’area e, più in generale, di tutta l’Europa.

Come emerge dai dati pubblicati dal Ministero dell’ambiente della sicurezza energetica, l’Algeria è il nostro primo fornitore di gas tramite gasdotto: ha fornito 21 miliardi di metri cubi di gas al nostro Paese attraverso il punto di ingresso di Mazara del Vallo con una crescita del 12% rispetto al 2023 (il 35% delle importazioni italiane). Un incremento che si contrappone al crollo verticale delle forniture russe transitate da Tarvisio: dai picchi di 3 miliardi di metri cubi al mese del 2021 si è passati a soli 165 milioni a novembre 2024. La Libia, invece, ha un ruolo molto più marginale sul gas: attraverso il punto di ingresso di Gela ha fornito 1,4 miliardi di metri cubi (2,3% sul totale).

Ma il riassetto energetico italiano non si limita al Mediterraneo. A guadagnare terreno è anche il gas naturale liquefatto (GNL) proveniente dagli Stati Uniti. Solo nel primo semestre del 2024, Washington ha esportato in Europa 35 miliardi di metri cubi di GNL, consolidando la propria posizione di fornitore chiave. E non mancano pressioni politiche: a dicembre, il presidente Donald Trump è tornato alla carica con un post su Truth Social, invitando l’Unione Europea a colmare «il suo enorme deficit» attraverso acquisti massicci di petrolio e gas americani.

In questo scenario instabile e in continua evoluzione, l’Italia cerca di mettere al sicuro il proprio sistema energetico puntando sulle infrastrutture: rigassificatori come quelli di Piombino e Cavarzere assumono un ruolo sempre più centrale, insieme al potenziamento delle dorsali che collegano il Sud del Paese ai principali snodi del Nord. Tuttavia, la corsa alle alternative non elimina le vulnerabilità. Guerre, tensioni e una crescente competizione globale per le risorse rendono ogni equilibrio provvisorio.

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Il buco dell’ozono si sta chiudendo grazie alla riduzione dei gas Cfc

Procede “a ritmo sostenuto” la chiusura del buco dell’ozono grazie alla drastica riduzione dei gas Cfc, cioè i clorofluorocarburi. Lo rivela un nuovo studio condotto dal Mit (Massachusetts Institute of Technology) e pubblicato su Nature, secondo il quale “possiamo davvero risolvere questo problema ambientale”.

L’autrice della ricerca è Susan Solomon. All’interno della stratosfera terrestre, l’ozono è un gas presente in natura che agisce come una sorta di crema solare, proteggendo il pianeta dalle dannose radiazioni ultraviolette del sole. Nel 1985, gli scienziati scoprirono un “buco” nello strato di ozono sopra l’Antartide che si apriva durante la primavera australe, tra settembre e dicembre. Questo impoverimento stagionale permetteva improvvisamente ai raggi UV di filtrare fino alla superficie, provocando cancro della pelle e altri effetti negativi sulla salute.

Nel 1986, Solomon, che allora lavorava presso la National Oceanic and Atmospheric Administration (NOAA), guidò delle spedizioni in Antartide, dove lei e i suoi colleghi raccolsero prove che confermarono rapidamente la causa del buco dell’ozono: i clorofluorocarburi, o CFC, sostanze chimiche che allora venivano utilizzate nella refrigerazione, nell’aria condizionata, nell’isolamento e nei propellenti aerosol. Quando i CFC si spostano verso la stratosfera, possono distruggere l’ozono in determinate condizioni stagionali.

L’anno successivo, queste rivelazioni portarono alla stesura del Protocollo di Montreal, un trattato internazionale che mirava a eliminare gradualmente la produzione di CFC e di altre sostanze che riducono lo strato di ozono, nella speranza di riparare il buco dell’ozono. Nel 2016, Solomon ha condotto uno studio che ha riportato i principali segni di recupero: il buco dell’ozono sembrava ridursi ogni anno, soprattutto a settembre, il periodo in cui di solito si apre. Tuttavia, queste osservazioni erano di tipo qualitativo e mostravano grandi incertezze su quanto di questo recupero fosse dovuto a sforzi per ridurre le sostanze che impoveriscono l’ozono o se il restringimento del buco fosse il risultato di altre “forze”, come la variabilità meteorologica di anno in anno dovuta a El Niño, La Niña e al vortice polare.

Nel nuovo studio, il team del Mit ha adottato un approccio differente e, dopo 15 anni di osservazioni, ha scoperto che il recupero è stato dovuto proprio alla drastica riduzione dei clorofluorocarburi. Per farlo hanno utilizzato un metodo chiamato noto come “fingerprinting”, sperimentato per la prima volta da Klaus Hasselmann, Premio Nobel per la Fisica nel 2021. Il sistema isola l’influenza di specifici fattori climatici, a parte il ‘rumore’ meteorologico e gli autori dello studio lo hanno utilizzato per identificare un altro segnale antropogenico: l’effetto della riduzione da parte dell’uomo delle sostanze che impoveriscono l’ozono sul recupero del buco dell’ozono.

Pichetto: “Con questi prezzi servirà intervento su gas. Nucleare per far fronte a domanda”

Con i prezzi del gas alle stelle e l’aumento della domanda di elettricità che richiede lo sviluppo dell’intelligenza artificiale, il tema energia continua a tenere banco nel governo. La strategia è orientarsi su un mix che punti all’autoproduzione, investendo intanto sul nucleare, l’unica tecnologia che, secondo il ministro Gilberto Pichetto, potrà garantirci di far fronte alle esigenze del Paese.

Intanto, però, Mase e Mef ragionano in sinergia sui costi del gas, fa sapere Pichetto, ricordando l’energy release adottato per i grandi energivori. “E’ chiaro che se tenesse questi livelli dovremo intervenire anche sul prezzo complessivo che riguarda tutti, imprese e utenze domestiche“, avverte.

Federconsumatori ha stimato aumenti nel 2025 per 1.000 euro in più a famiglia, e secondo la Cgia di Mestre le imprese italiane dovranno sostenere spese energetiche supplementari per 13,7 miliardi.

Secondo le previsioni, la domanda “esploderà nei prossimi anni”, osserva il ministro, che citando gli analisti prospetta un raddoppio nei prossimi 20 anni. “Dobbiamo andare verso la neutralità, con emissioni zero al 2050, ma per fare questo non possiamo basarci solo sulla produzione di energie neutre odierne”, sottolinea Pichetto. Con l’idroelettrico, il geotermico, il fotovoltaico, l’eolico e l’idrogeno, infatti, non si riuscirebbe secondo il ministro ad avere la continuità necessaria. “Servirà una quota di nuovo nucleare”, insiste.

Sullo strumento da utilizzare, il titolare del dicastero di via Cristoforo Colombo non si sbilancia. Ma, gli fa eco il ministro per gli Affari europei Tommaso Foti, “se non ci muoviamo per rompere il muro del sospetto rispetto ad alcune tecnologie continueremo a essere dipendenti da Paesi terzi”.

Il copresidente del Gruppo Ecr al Parlamento europeo, Nicola Procaccini, guarda alla fusione, una fonte che “sprigiona un fascino che travolge”, scandisce, intervenendo a un convegno di Fratelli d’Italia su ambiente ed energia, organizzato in Senato. Una “grande prospettiva” anche per il vicepresidente della Camera Fabio Rampelli, che precisa: “Se riusciamo a essere competitivi sulla fissione bene, ma dobbiamo puntare a essere l’avanguardia planetaria della fusione, piuttosto che la retroguardia della fissione”.

Fissione o fusione, resta il nodo costi. “Non c’è energia che non sia integrata a tariffa in Italia”, spiega Pichetto. In questo momento, infatti, lo Stato interviene su tutte le fonti, dal termoelettrico all’eolico, al fotovoltaico, all’idroelettrico e al geotermico. Quando si arriverà a poter utilizzare l’atomo, “si valuterà di quanto integrare”, sostiene, parlando di parificazione nelle stesse modalità delle altre fonti, “per creare il maggior vantaggio possibile al Paese”.

Una prospettiva che non piace alle opposizioni. Pichetto “conferma che il nucleare lo pagheranno gli italiani con l’aumento del costo delle bollette”, mette in guardia il co-portavoce di Europa Verde, Angelo Bonelli. “Hanno ammazzato le rinnovabili, condannando l’Italia alla dipendenza dal gas e al caro bollette – denuncia -. Il risultato? Oltre 60 miliardi di extraprofitti per le grandi società energetiche in due anni e mezzo, una rapina sociale ai danni di famiglie e imprese”.

“Forse il ministro Fratin fino a oggi ha vissuto sulla Luna”, concordano le deputate M5S Emma Pavanelli e Ilaria Fontana, per le quali “sentire da un esponente di governo che, se il prezzo del gas non scende, si dovrà intervenire significa ammettere che fino a ora non hanno fatto nulla”. Per le pentastellate, “servono proposte concrete, come quelle che il Movimento 5 Stelle ha presentato con una mozione alla Camera, invece di parlare di un nucleare che ancora non esiste e di una tecnologia che va avanti a colpi di ricerca e sperimentazione”.

Petrolio, gas, difesa e commercio: ecco perché l’Artico fa gola al mondo

Il ghiaccio marino si scioglie e la voglia di Artico esplode. L’America di Donald Trump, i Paesi nordici, la Russia di Vladimir Putin e anche la Cina sono impegnati in una competizione per l’influenza su questo territorio, mentre si rivela il potenziale economico e il valore strategico della regione polare. “Si dice che l’Artico nel suo complesso contenga il 25% delle riserve mondiali non scoperte di idrocarburi convenzionali”, spiega Mikaa Blugeon-Mered, docente di geopolitica a Sciences Po, riferendosi a un rapporto del Servizio geologico statunitense (USGS). Ed è, quindi, facile intuire il perché delle ambizioni geopolitiche ed economiche sul territorio da parte del resto del mondo.

Il riscaldamento globale sta causando un rapido scioglimento dei ghiacci polari nell’Artico, che sta stimolando l’attività economica, compreso il turismo, nonostante l’ambiente inospitale. Secondo l’osservatorio Copernicus, l’Artico europeo è la regione che si riscalda più rapidamente al mondo.

I Paesi confinanti cercano di accedere al petrolio, al gas e ai minerali che abbondano sotto la superficie, oltre che alle vaste riserve ittiche della zona. Per quanto riguarda il Passaggio a Nord-Est, una rotta marittima al largo delle coste della Siberia che è diventata gradualmente praticabile a causa del riscaldamento globale, promette di far risparmiare tempo – da una a due settimane – e carburante per collegare l’Europa e l’Asia rispetto alla rotta tradizionale attraverso il Canale di Suez.

Ma l’Artico ha anche implicazioni militari. “Da un punto di vista geopolitico, la regione è centrale. Per gli aerei e i missili, la via più breve tra (…) la Russia e gli Stati Uniti passa attraverso l’Oceano Artico. È anche un’area dove ci sono molti sottomarini che pattugliano e dove i russi hanno le loro più grandi basi militari”, spiega Njord Wegge, professore dell’Accademia militare norvegese.

Una “linea di faglia” che sta stuzzicando l’appetito del presidente degli Stati Uniti Donald Trump, il quale ha espresso a gran voce il suo progetto di annettere l’enorme isola artica della Groenlandia. Sabato ha promesso che gli Stati Uniti “prenderanno” il territorio autonomo danese. Come, però, non è ancora chiaro.

La fine della Guerra Fredda ha inaugurato un’era di cooperazione tra gli otto Stati costieri: Norvegia, Danimarca (attraverso il territorio autonomo della Groenlandia), Svezia, Finlandia, Russia, Stati Uniti, Canada e Islanda. Ma il Consiglio Artico, che riunisce questi Paesi dal 1996, ha perso la sua capacità di azione, soprattutto dopo l’invasione russa dell’Ucraina nel 2022.

“La linea di demarcazione è di tipo militare, poiché sette degli otto Paesi della regione artica sono membri della NATO”, sottolinea Blugeon-Mered. Oltre il 50% delle coste artiche è russo e Mosca sfrutta l’area da decenni. Secondo una raccolta di dati compilata da questo ricercatore, oltre l’80% del gas russo e il 60% del petrolio sono prodotti nell’Artico. Per Max Bergmann, del think tank americano CSIS, è la Russia a rappresentare la più grande minaccia per gli Stati Uniti. “La minaccia è rappresentata dalla continua militarizzazione dell’Artico da parte della Russia e dalla nostra scarsa presenza”, dice l’esperto. Tuttavia, il ricercatore non approva l’espansionismo di Donald Trump, che considera “inutile”. A suo avviso, “prendere la Groenlandia (…) sovrastima la minaccia alla sicurezza nazionale”. “L’unico motivo per possedere la Groenlandia sarebbe quello di avere accesso a minerali” come le terre rare utilizzate nella transizione energetica e presenti in grandi quantità sull’isola danese, ritiene, ma il presidente “ha firmato decreti per fermare la transizione”.

L’Unione europea non è indifferente ai piani di Trump per la Groenlandia. Diversi leader hanno espresso le loro preoccupazioni negli ultimi giorni. Ad aggravare le tensioni regionali, la Cina, un altro attore importante ma non rivierasco nell’Artico, sta avanzando la sua posizione nella regione. “I russi non hanno altra scelta che collaborare con la Cina (…) il principale acquirente a lungo termine delle risorse dell’Artico russo”, analizza Blugeon-Mered, riferendosi alle perdite commerciali di Mosca in Europa dall’inizio della guerra in Ucraina.

Washington non vede di buon occhio il crescente potere di Pechino nell’Artico. A luglio, il Pentagono ha messo in guardia contro una maggiore cooperazione sino-russa nella regione. Mentre la Russia ha rafforzato la sua presenza militare nell’Artico riaprendo e modernizzando diverse basi e campi d’aviazione abbandonati dalla fine dell’era sovietica, la Cina ha iniettato fondi nell’esplorazione e nella ricerca polare. “Mentre i russi cedono spazio alla Cina, la Cina penetra di fatto. E per gli americani, siano essi repubblicani o gran parte dei democratici, questo è percepito come un rischio”, spiega Blugeon-Mered.

Effetto Trump su petrolio e Gnl: il greggio cala, il gas ritorna a 50 euro

Il giorno il giuramento di Trump e il giorno dopo le promesse del neo presidente degli Stati Uniti su petrolio e gas – “trivelleremo, baby, trivelleremo” e “esporteremo il nostro gas in tutto il mondo” – i mercati navigano a vista. Greggio e gas prendono direzioni opposte, ma il sottofondo non è dei più accomodanti. C’è come la sensazione che tutto possa succedere.

I contratti futures sul petrolio Brent hanno registrato oscillazioni intorno ai 79 dollari al barile, in calo dell’1% dopo la discesa di ieri, a seguito dell’annuncio di Trump riguardo l’intenzione di aumentare la produzione di petrolio e gas negli Stati Uniti, dichiarando un’emergenza nazionale. Un’importante misura proposta da Trump prevede l’introduzione di tariffe del 25% sulle importazioni provenienti da Canada e Messico, che entreranno in vigore il 1° febbraio. Questa proposta ha contribuito a smorzare le aspettative di un rallentamento nelle politiche commerciali, ma la decisione di rimandare l’introduzione di imposte sulle importazioni cinesi ha mantenuto i mercati in un’incertezza relativa. Oltre alle tariffe commerciali, gli investitori seguono con attenzione anche la possibilità che l’amministrazione Trump imponga nuove sanzioni contro importanti esportatori di petrolio come Russia, Iran e Venezuela. Parallelamente, comunque, un calo del rischio geopolitico ha contribuito a contenere le oscillazioni dei prezzi, soprattutto dopo il cessate il fuoco tra Israele e Hamas, che ha portato a un accordo sul rilascio degli ostaggi.

Sul fronte del gas naturale, i prezzi in Europa sono tornati con un balzo di quasi il 3% fino a 50 euro per megawattora. I flussi di gas naturale russo attraverso l’Ucraina sono stati interrotti all’inizio dell’anno, dopo che i due governi non sono riusciti a raggiungere un accordo, ma sebbene l’International Energy Agency abbia osservato che questa interruzione non rappresenti un rischio immediato per la sicurezza dell’approvvigionamento dell’Ue, si prevede un aumento delle importazioni di Gnl in Europa, con stime che indicano un incremento di oltre il 15% nel 2025. Attualmente, i livelli di stoccaggio del gas dell’Ue si aggirano intorno al 60% della capacità totale, con gli esperti che suggeriscono che la situazione potrebbe comportare una maggiore dipendenza dalle importazioni di Gnl nei prossimi anni. Anche perché, come ha riportato Bloomberg, Trump ha invitato l’Europa ad acquistare il suo gas, o saranno dazi.
Sul fronte americano, va infine specificato, che per i trader la revoca della moratoria sulle nuove licenze per le esportazioni di gas naturale liquefatto potrebbe aprire la strada a nuovi permessi, con un impatto potenzialmente positivo sulla domanda di Gnl da parte dell’Europa e dell’Asia. Magari a prezzi più bassi.