La lotta antincendio dei Paesi dell’Ue passa dal Meccanismo di protezione civile

Il Meccanismo europeo di protezione civile, uno strumento che negli anni si sta dimostrando la chiave di volta in Europa per contrastare gli incendi boschivi e proteggere un ambiente naturale sempre più minacciato dai cambiamenti climatici ed estati che toccano livelli record in termini di temperatura. Nel 2022 nell’Unione europea sono andati bruciati oltre 700 mila ettari di boschi – mai così tanti dal 2006 – ma allo stesso tempo sono stati schierati solo negli ultimi due mesi 29 aerei e otto elicotteri antincendio, con 369 vigili del fuoco e più di 105 veicoli a terra mobilitati grazie alla risposta collettiva dell’Unione. Una delle ultime grosse operazioni è stata quella nella Francia sud-occidentale, dove sei aerei della flotta rescEu (di cui due inviati dall’Italia) e quattro squadre di vigili del fuoco provenienti da Germania, Polonia, Austria e Romania hanno supportato i colleghi francesi per domare gli incendi nel dipartimento della Gironda.

Ma cos’è il Meccanismo europeo di protezione civile?

Istituito nel 2001 dalla Commissione europea, si tratta del mezzo attraverso cui i 27 Paesi membri Ue e gli altri sei Stati partecipanti (Islanda, Macedonia del Nord, Montenegro, Norvegia, Serbia e Turchia, con anche l’Albania che presto ne farà parte) possono rafforzare la cooperazione per la prevenzione, la preparazione e la risposta ai disastri, in particolare quelli naturali. Una o più autorità nazionali possono richiedere l’attivazione del Meccanismo quando un’emergenza supera le capacità di risposta dei singoli Paesi colpiti. La Commissione coordina la risposta di solidarietà degli altri partecipanti con un unico punto di contatto, contribuendo almeno a tre quarti dei costi operativi degli interventi di ricerca e soccorso e di lotta agli incendi. In questo modo vengono messe in comune le migliori competenze delle squadre di soccorritori e si evita la duplicazione degli sforzi, per una risposta collettiva più forte e coerente. In 21 anni di attività, il Meccanismo di protezione civile dell’Ue ha risposto a oltre 600 richieste di assistenza all’interno e all’esterno del territorio dell’Unione.

Il Meccanismo comprende un pool europeo di protezione civile, formato da risorse pre-impegnate dagli Stati aderenti, che possono essere dispiegate immediatamente all’occorrenza. Il centro di coordinamento della risposta alle emergenze è il cuore operativo ed è attivo tutti i giorni 24 ore su 24. A questo si aggiunge la riserva rescEu, una flotta di aerei ed elicotteri antincendio (oltre a ospedali da campo e stock di articoli medici per le emergenze sanitarie) per potenziare le componenti della gestione del rischio di catastrofi: a Bruxelles si sta sviluppando anche una riserva per rispondere a incidenti chimici, biologici, radiologici e nucleari. In questa estate di emergenza la Commissione ha finanziato il mantenimento di una flotta antincendio RescEu in stand-by, messa a disposizione da Italia, Croazia, Francia, Grecia, Spagna e Svezia e attivata proprio per domare gli incendi che hanno distrutto quasi ottomila ettari di bosco.

povertà energetica

Tra Pnrr ed efficienza, la battaglia dell’Ue contro la povertà energetica

Transizione verde, ma senza lasciare nessuno indietro. Zero emissioni di gas serra ma anche zero povertà energetica nell’Unione europea entro il 2030. Nel 2019 secondo Eurostat, l’ufficio statistico dell’Ue, erano quasi 35 milioni gli europei a non essere in grado di mantenere le proprie case adeguatamente calde d’inverno o fresche d’estate, mentre il 6,2% di loro non poteva permettersi di pagare le bollette o di accedere ai servizi energetici di base, dall’illuminazione all’energia per alimentare gli elettrodomestici.

Si definisce così la povertà energetica, una condizione che affligge, se pure in gradi diversi, tutti i Paesi dell’Unione Europea, che rischia di aggravarsi ulteriormente nei prossimi anni per effetto indiretto della transizione energetica che l’Unione europea porta avanti attraverso il Green Deal, il piano di trasformazione economica lanciato dalla Commissione europea nel 2019 per abbattere le emissioni di gas serra entro il 2050. Il tema dell’accesso all’energia e soprattutto all’energia pulita sarà dominante nel dibattito europeo dei prossimi anni, esacerbato anche dalla guerra di Russia in Ucraina, che ha spinto l’Ue a ripensare il suo approvvigionamento energetico mettendola di fronte a una grande sfida. Ma il costo delle spese energetiche e della transizione può rappresentare nei fatti una barriera che rischia di creare ancora più povertà e disuguaglianze sociali.

La condizione di povertà energetica è dovuta a vari fattori, dai prezzi elevati dell’energia ai bassi redditi. Ma una componente importante è data anche dalla scarsa efficienza energetica degli edifici dell’Ue, case male isolate con impianti vecchi che influiscono negativamente sul clima e sono anche la causa di costi elevati dell’energia. L’aumento negli ultimi anni dei prezzi dell’elettricità nella maggior parte dei Paesi Ue, frenato durante la pandemia ma rincarato con la crisi del gas che oggi affligge l’Europa, insieme alle scarse prestazioni energetiche del patrimonio immobiliare europeo fanno temere un aumento della povertà energetica nei prossimi mesi.

Proprio l’ammodernamento degli edifici per renderli più efficienti dal punto di vista energetico è parte centrale dei piani di Bruxelles per combattere il fenomeno. Attraverso l’iniziativa Renovation Wave (letteralmente, ‘ondata di rinnovamento’), pubblicata nel 2020, la Commissione ha fissato l’obiettivo di raddoppiare il tasso di rinnovamento energetico annuale delle abitazioni e degli edifici non residenziali dell’Ue entro il 2030, dopo aver stimato che il patrimonio edilizio del Continente è responsabile del 40% dei consumi energetici d’Europa e del 36% dei gas a effetto serra provenienti dal settore energetico.

L’Esecutivo prevede di riuscire a ristrutturare 35 milioni di edifici entro il 2030 (oggi solo l’1% viene sottoposto ogni anno a ristrutturazioni di efficientamento energetico) e con una una revisione della direttiva sul rendimento energetico nell’edilizia (EPDB – ‘Energy Performance of Building Directive’) pubblicata a dicembre ha proposto l’introduzione di standard minimi obbligatori di prestazione energetica per gli edifici dell’Ue da introdurre gradualmente dal 2027, vincolando gli Stati a individuare almeno il 15% del proprio patrimonio edilizio con le peggiori prestazioni e a ristrutturarlo passando dalla classe energetica più bassa ‘G’ al grado ‘F’. Questa letterale ‘ondata di rinnovamento’, secondo Bruxelles, andrà in parte finanziata con i piani nazionali di ripresa e resilienza (Pnrr), con cui gli Stati devono dettagliare come spenderanno le risorse mobilitate da Bruxelles dal fondo per la ripresa da 750 miliardi di euro Next Generation Eu, nel quale l’Ue ha vincolato gli Stati a investire il 37% del fondo in azioni per il clima. Lo stimolo della ripresa dalla crisi economica avvertita con lo scoppio della pandemia, secondo l’Ue, offre l’occasione unica di affrontare anche la povertà energetica.

edilizia

La povertà energetica affligge 30 milioni di persone in Ue

Non poter tenere accesi i riscaldamenti per il tempo che servirebbe, o addirittura non poterli accendere affatto. Un problema che affligge oltre 30 milioni di persone in tutta l’Unione europea. Un fenomeno, quello della povertà energetica, anche non semplice da quantificare. Sono sempre mancati sistemi efficienti di dati, e tra i Ventisette è sempre mancata una definizione univoca di ‘povertà energetica’ con criteri armonizzati di calcolo e misurazione. La Commissione europea ha provato a fare un censimento, e il risultato, aggiornato al 2018, parla di 33,8 milioni di persone in questa condizione (dato a 27, senza il Regno Unito poi uscito dall’Ue), non in grado di vivere in ambienti caldi. Ma le stime realizzate successivamente, nel 2020, vedono interessato l’8% della popolazione dell’Ue, vale a dire circa 35,8 milioni di cittadini e cittadine dei diversi Paesi. Un dato aggravato dalla pandemia e dalla cresciuta domanda per consumi spostati dall’ufficio professionale allo studio domestico, e in prospettiva, complice il caro-prezzi, la dimensione del fenomeno potrebbe crescere ancora.

La povertà energetica è una delle principali sfide dell’Unione europea”, riconoscono i tecnici dell’esecutivo comunitario nei loro documenti di lavoro, quelli che accompagnano le scelte del collegio e le proposte di misure. Ed è innegabile che la soluzione non è né semplice né immediata, perché la povertà energetica “è il risultato di più fattori”, quali bassi livelli di reddito, bollette elevate, edifici vecchi dalle grandi dispersioni. Servirà un mix di misure, che passano da una riforma del mercato del lavoro e interventi sui salari, calmierazione dei prezzi, ristrutturazioni. La transizione verde, dunque, soprattutto per quanto riguarda efficienza energetica nell’edilizia e produzione di rinnovabili “è sia una sfida, sia un’opportunità”. Di questo a Bruxelles sono convinti.

Velocizzare le riforme necessarie in termini di sostenibilità, potrà permettere di strappare i cittadini dalla povertà energetica e invertirne l’andamento del tasso. Intanto però c’è il corrispettivo di oltre metà Italia alle prese con la carenza di energia che servirebbe per vivere comodamente. I 33,8 milioni del 2018 e i 35,8 milioni del 2020 rappresentano anche più abitanti del Benelux, o, per fare ancora un altro paragone, una fascia di popolazione più ampia di quella di Paesi scandinavi (Danimarca, Finlandia e Svezia) e repubbliche baltiche (Estonia, Lettonia, Lituania) messi assieme. Spetterà anche all’Italia il compito di trovare una risposta a tutto questo, dato che il Paese è sesto nell’Ue per quota di famiglie incapaci di mantenere l’abitazione adeguatamente riscaldata o climatizzata. Il tasso tricolore risulta al 14,1%. Peggio solo Bulgaria (33,7%), Lituania (27,9), Grecia (22,7%), Cipro (21,9%) e Portogallo (19,4%). Risalta come l’Italia sia l’unica delle principali economie dell’eurozona a registrare così tanti cittadini affetti da povertà energetica. Nel piano nazionale d’azione per l’energia e il clima notificato alla Commissione alla fine del 2019, l’allora governo Conte confermava intenzione e impegno a contrastare il fenomeno, ma poi quel governo è caduto, è sopraggiunta la guerra in Ucraina con le ripercussioni sui prezzi dell’energia, e da ultimo la crisi del governo Draghi. Tutte cose che certamente non agevolano il compito.

Covestro

Allarme tedesco: collasso senza gas. Pronte esenzioni a sanzioni

Covestro è uno dei principali gruppi chimici tedeschi. Qualche giorno fa, nel comunicato che accompagnava la trimestrale, la società scriveva che “a causa degli stretti legami tra l’industria chimica e i settori a valle, è probabile che un ulteriore deterioramento della situazione provochi il crollo di intere catene di approvvigionamento e produzione“. Tradotto: se la fornitura di gas sarà razionata in autunno, “questo potrebbe comportare il funzionamento a carico parziale o la chiusura completa dei singoli impianti di produzione, a seconda del livello del taglio“, ha specificato il colosso tedesco. Le industrie chimiche e di altro tipo in Germania sono già state costrette a ridurre o considerare di ridurre la produzione a causa dei prezzi dell’energia alle stelle e delle minori forniture di gas dalla Russia. Da notare che l’industria chimica è il terzo settore industriale più grande della Germania, dopo quello automobilistico e dei macchinari, ed è il principale fruitore di gas, consuma il 15% dello stock.

Come molti altri grandi mangia-gas del settore, non solo della Germania ma anche nel resto d’Europa, Covestro ha varato diverse misure per ridurre il proprio fabbisogno di gas, tra cui il passaggio a generatori di vapore a base di petrolio e lavora continuamente per migliorare le tecnologie di produzione esistenti o lanciarne di nuove per ridurre ulteriormente il consumo di gas ed energia. Tuttavia, la crisi del gas avrà – ha sottolineato ancora Covestro – “impatti continui sulle catene di approvvigionamento globali, livelli dei prezzi dell’energia molto elevati, inflazione elevata e crescita più debole nell’economia globale“.

Che succede se si avvereranno i cattivi presagi di Covestro? La Germania, già in crescita zero, subirà una profonda recessione. E se il Pil di Berlino crollerà, di conseguenza finirà in rosso l’intera Europa e una bella fetta di mondo. La Gran Bretagna andrà in rosso già fra pochi mesi, come ha sentenziato la Banca d’Inghilterra. Ecco perché proprio in Europa la musica sta cambiando sul fronte sanzioni alla Russia.

La Ue infatti ha deciso di aggiungere esenzioni alle misure punitive, che consentirebbero ai Paesi al di fuori del blocco di trattare con entità russe sanzionate, comprese banche e società statali come Rosneft. Secondo il rapporto Bloomberg, queste esenzioni riguardano entità “ritenute essenziali per le spedizioni di prodotti alimentari, prodotti agricoli e petrolio verso paesi terzi al di fuori della Ue“, come si legge in un comunicato del Consiglio d’Europa, che sottolinea come “più in generale, la Ue si impegna a evitare tutte le misure che potrebbero portare all’insicurezza alimentare in tutto il mondo. Nessuna delle misure adottate oggi o in precedenza alla luce delle azioni della Russia che destabilizzano la situazione in Ucraina riguarda in alcun modo il commercio di prodotti agricoli e alimentari prodotti, tra cui grano e fertilizzanti, tra paesi terzi e Russia“. Inoltre secondo un rapporto Reuters il G7 starebbe prendendo “in considerazione meccanismi di mitigazione per garantire che i Paesi più vulnerabili e colpiti mantengano l’accesso ai mercati energetici, compresi dalla Russia”.

In pratica potrebbe accadere questo: l’India compra petrolio russo, lo gestisce attraverso le sue raffinerie e vende “prodotti raffinati indiani“… all’Europa.

Niente è deciso ancora, però la paura di rimanere al freddo e di varare un lockdown energetico nella zona economica più ricca del mondo sta accelerando le soluzioni per evitare il dramma.

migranti

Migranti climatici causa siccità pari a due volte l’Ue. L’Europa deve agire

Non solo guerre e persecuzioni. I migranti, quelli di cui l’Unione europea deve iniziare a preoccuparsi, sono quelli climatici. Persone costrette a lasciare il proprio territorio per effetto dei cambiamenti climatici e del deterioramento delle condizioni di vita. Inondazioni, alluvioni e, soprattutto, desertificazione. Le Nazioni Unite stimano che il solo stress idrico, e dunque siccità e penuria d’acqua, “potrebbe sfollare 700 milioni di persone entro il 2030. Una popolazione pari a quasi due volte quelle dell’intera Ue (446 milioni, dato aggiornato all’1 gennaio 2022). La Banca mondiale, invece, suggerisce che “entro il 2050 potrebbero esserci 216 milioni di migranti interni” per ragioni legate al clima, a meno che non vengano prese misure correttive. Si tratta di una popolazione superiore a quelle di Italia, Francia e Germania messe insieme.

La sfida è quella del clima e dei suoi mutamenti, ma in prospettiva è soprattutto politica ed economica. L’impostazione di una certa politica poco incline all’accoglienza e arroccata sulla logica del “aiutiamoli a casa loro” rischia di dover fare i conti con interventi sempre più onerosi. Per evitare che le persone si mettano in marcia per venire a bussare alle porte di Nazioni e continenti più ricchi e meno flagellati da siccità si renderà necessario un investimento sempre più massiccio nei Paesi d’origine. Un fardello economico di cui sempre meno l’Europa rischia di potersi fare carico, soprattutto in tempi di nuove crisi e venti non solo recessivi, quanto addirittura stagflattivi.

Il fenomeno esiste già. Solo nel 2020 crisi di vario genere hanno costretto alla fuga 11,2 milioni di persone, portando il numero degli sfollati a oltre 82 milioni. Così recitano i numeri dell’Agenzia per i rifugiati delle Nazioni Unite (Unhcr). Di questi, circa 48 milioni erano sfollati interni. Gli altri 34 milioni di uomini, donne e bambini hanno chiesto rifugio e asilo all’estero, in altri Paesi. Numeri che rischiano di acquistare ordini di grandezza di ben altra dimensione a causa dell’impatto del cambiamento climatico.

A livello di Unione europea si è consapevoli della posta in gioco. Regioni come quella del Sahel sono “particolarmente a rischio”, come riconosciuto anche dal Parlamento europeo. La Commissione ha avviato programmi di collaborazione per il rimpatrio e il ritorno di immigrati. Ma gli sforzi in ambito migratorio rischiano di divenire vani di fronte all’impoverimento della terra. Nel Sahel come altrove, la tendenza all’aumento della siccità, del maltempo e degli incendi associati al riscaldamento globale è già evidente. “In assenza di un’azione decisa sulle emissioni globali, la temperatura globale potrebbe aumentare di 1,5°C o più entro il 2050”, avverte il Parlamento europeo in un documento di lavoro . “In un mondo più caldo, è più probabile che i disastri accadano simultaneamente. L’accesso al cibo e all’acqua sarà più difficile per molti”. Non solo, l‘innalzamento del livello del mare, l’accelerazione della desertificazione e il degrado del suolo determineranno “un aumento della migrazione climatica”.

Bisogna iniziare già adesso a prepararsi a questo scenario ma, soprattutto, ad adoperarsi perché non si traduca in realtà. L’Unione Europea è in prima linea in questo sforzo, avendo adottato il Green Deal europeo, la strategia dell’Ue sull’adattamento ai cambiamenti climatici e la legge europea sul clima. “Strategie e piani a lungo termine sono necessari, ma non sufficienti; devono anche essere attuati in modo sistematico ed efficace”. Questo il monito dell’Eurocamera. Questa la sfida dell’Unione europea.

investimenti

Investimenti green: obbligatorio in Ue questionario per i risparmiatori

Volete fare investimenti verdi o sociali?“. Chiedere ai risparmiatori informazioni sugli investimenti sostenibili diventerà obbligatorio nell’Ue a partire da martedì (2 agosto), ma tenere conto delle risposte sarà un bel grattacapo per le banche. “La sostenibilità è un obiettivo d’investimento importante per voi?”. D’ora in poi, i clienti che desiderano investire parte dei loro risparmi nei prodotti finanziari de La Banque Postale dovranno rispondere a questa domanda, come già accadeva per il grado di assunzione del rischio. Se la risposta sarà negativa, le domande non andranno oltre. Se la risposta sarà invece positiva, la seconda domanda sarà se il cliente desidera definire da solo le proprie preferenze o lasciare che sia il suo consulente a farlo. Se il cliente avrà il controllo, dovrà dare una proporzione, con una cifra o un grado di intensità che il consulente dovrà rispettare per stabilire vari criteri sostenibili. Il compito sembra semplice, ma il settore finanziario non si sente attrezzato per affrontare questi nuovi requisiti, imposti dalle normative europee. Tanto che l’Autorità francese per i mercati finanziari ha chiesto un rinvio dell’applicazione per i consulenti in investimenti finanziari (FIA) al 1° gennaio 2023, anche se la normativa si applicherà da martedì per i consulenti bancari.

RITARDI

Abbiamo messo il carro davanti ai buoi“, ha sintetizzato Laurence Caron-Habib, responsabile degli affari pubblici di BNP Paribas AM, durante una presentazione all’inizio di luglio. In effetti, il nuovo questionario viene messo in atto anche se non si conoscono ancora del tutto i criteri per definire cosa esattamente costituisca un investimento sostenibile. Mentre i criteri per due dei sei obiettivi ambientali (mitigazione e adattamento ai cambiamenti climatici) sono stati definiti da Bruxelles come parte della sua tassonomia verde, ne restano quattro da specificare su acqua, inquinamento, economia circolare e biodiversità. E non sono previsti prima dell’autunno. Inoltre, l’obbligo per le aziende di pubblicare i dati ambientali non scatterà prima del gennaio 2023. Un altro simbolo di questa falsa partenza: l’Autorità europea degli strumenti finanziari e dei mercati (ESMA) ha condotto una consultazione con gli operatori finanziari per stabilire regole di buona pratica sulla presa in considerazione delle preferenze. Ma le conclusioni non sono attese prima della fine dell’anno. Deplorando questo calendario, l’associazione europea dei gestori patrimoniali (Efama) ha chiesto all’Esma una maggiore “flessibilità” nell’attuazione. “Sarà frequente che nessun prodotto di finanza sostenibile corrisponda pienamente alle preferenze iniziali del cliente“, teme l’associazione. Secondo BNP Paribas AM, meno del 2% degli investimenti in società del CAC 40 è allineato alla tassonomia. Per evitare di aspettare il “prodotto perfetto” per iniziare a investire nella finanza sostenibile, Efama ha proposto di lasciare spazio per riorientare le aspettative verso “le migliori alternative possibili.

CONCORRENZA E GREENWASHING

Oltre alla tassonomia verde europea, i distributori di fondi, che vengono offerti agli investitori, possono fare riferimento alla nozione di “investimento sostenibile, secondo il regolamento europeo sulla pubblicazione di informazioni sulla sostenibilità per i prodotti finanziari. Ma questa nozione è meno ben definita dall’Unione Europea. Si tratta solo di “un investimento in un’attività economica che contribuisce a un obiettivo ambientale” o “sociale“, senza causare “danni significativi” ad altri obiettivi. Spetta ai gestori dei fondi stabilire, in base alla loro metodologia, se ciascuno dei loro investimenti rientra in questa definizione per calcolare la loro percentuale di investimenti sostenibili. La percentuale sostenibile di un determinato fondo può quindi variare” a seconda della “flessibilità del gestore, ha dichiarato all’AFP Léonard Pirollet, membro del team SRI Solutions di Banque Postale AM. Ciò evidenzia il timore di una concorrenza distorta tra i gestori, o addirittura di “greenwashing“. Tuttavia, questa nuova normativa ha permesso di ripensare l’offerta di fondi sostenibili e ha stimolato uno sforzo di formazione. I team delle diverse linee di business “hanno parlato molto di questo argomento. E non sarà l’ultima volta“, anticipa Pierre-Alexis Binet, direttore degli affari istituzionali della Banque Postale.

gas

I ritardi dell’Ue sugli acquisti congiunti di gas

Non c’è data ancora per il primo acquisto congiunto di energia da parte dell’Unione europea. Anche se una piattaforma energetica comune, oggi, è più importante che mai di fronte alle minacce della Russia, che è pronta a tagliare completamente le forniture all’Europa.

Sulla scia dell’acquisto comune dei vaccini durante la pandemia Covid-19, di fronte alla crisi energetica connessa alla guerra in Ucraina, Bruxelles ha lanciato lo scorso 7 aprile una piattaforma energetica a cui gli Stati membri possono aderire su base volontaria per negoziare e cercare approvvigionamenti di gas (e poi anche idrogeno e gas naturale liquefatto) prima del prossimo inverno per mantenere anche i prezzi più contenuti potendo gestire la domanda a livello comunitario e non nazionale.

La realtà è anche che, proprio come è stato per l’acquisto congiunto di vaccini, la Commissione europea cerca attraverso la piattaforma comune anche di evitare che ci sia concorrenza tra i Paesi membri dell’Ue nell’acquisto di forniture, data la necessità di accelerare con la diversificazione dei fornitori e riempire le riserve. La Russia è il più grande fornitore di gas all’Europa. Fino allo scorso anno, Bruxelles ha importato da Mosca il 40% delle sue forniture di gas. Con l’inizio della guerra di Russia in Ucraina e l’impegno dei leader Ue a porre fine alla dipendenza dai combustibili fossili russi entro il 2027 (nel piano RePowerEu), la percentuale si è già ridotta a meno del 30%, che però richiede uno sforzo ulteriore di compensazione.

La piattaforma è stata lanciata e il lavoro organizzato attraverso una serie di task force che saranno istituite su base regionale: la prima è nata a Sofia, in Bulgaria, per monitorare il fabbisogno di gas ed elettricità, i prezzi e i flussi del gas in Bulgaria e con i vicini dell’Europa sudorientale; la seconda è stata creata all’inizio del mese per occuparsi dei Paesi dell’Europa centro-orientale (Italia, Austria, Germania, Repubblica ceca, Ungheria, Polonia, Slovenia, Croazia e Slovacchia) insieme a Ucraina e Moldavia. Ora però mancano gli acquisti comuni e la Commissione Ue, interpellata, sceglie di non commentare.

Fonti europee spiegano che in questo momento si stanno studiando ancora varie formule per rendere operativa la piattaforma, che sta richiedendo più lavoro giuridico e tecnico di quanto la Commissione si sarebbe aspettata. Questo perché gli acquisti comuni non sono in capo ai governi ma agli operatori privati, quindi “occorre trovare un veicolo giuridico che consenta loro di agire”.

Martedì scorso, gli Stati membri dell’Ue hanno dato via libera al piano per una riduzione volontaria del 15% della domanda di gas (sulla media dei consumi degli ultimi cinque anni) tra agosto e marzo, per prepararsi a possibili interruzioni dell’approvvigionamento questo inverno da parte di Mosca. Nel testo dell’accordo raggiunto al Consiglio energia, i governi hanno aggiunto l’esortazione ad accelerare sugli acquisti comuni di gas, anche perché serviranno ad aiutarli a riempire le riserve come richiesto da Bruxelles all’80% della capacità entro il primo novembre (la media europea è poco sopra il 66%, mentre l’Italia è sopra il 71%), mentre Mosca continua a centellinare il gas all’Europa continuando a ridurre i flussi dal gasdotto Nord Stream 1, che collega la Russia direttamente alla Germania settentrionale attraverso il Mar Baltico.

Draghi

La crisi italiana spaventa Bruxelles. Quale futuro per Pnrr e sostenibilità?

Se Roma è nella bufera, Bruxelles trema. È sempre stato così, per le crisi politiche in Italia e nei Paesi chiave dell’Unione, ma questa volta c’è qualche preoccupazione in più. Se, come ci spiegava un membro di un gabinetto di vertice della Commissione europea “che ci sia una crisi di governo in Italia, in sé, non ci sorprende più di tanto, ci siano abituati da decenni”, ora, di fronte al più grande intervento finanziario mai organizzato dall’Unione europea e disegnato proprio attorno alle esigenze dell’Italia “siamo davvero preoccupati, e tanto”. Perché il piano Next Generation Eu, all’interno del quale è il Pnrr italiano, riguarda tutta l’Unione ma non può funzionare senza l’Italia, alla quale sono andate ben la metà delle risorse messe a disposizione dei 27.

Il pacchetto di interventi è stato pensato per dare a Roma la possibilità di agganciarsi al carro delle economie più forti dell’Unione, ammodernando il suo sistema produttivo in chiave sostenibile. Non è un progetto come tanti altri, e parole come “rivoluzionario”, “storico”, “epocale” si sono sprecate per descriverne l’importanza. All’inizio il piano era stato affidato nelle mani del governo Pd/5 Stelle ma poi, con grande sollievo, chiaramente percepito qui a Bruxelles, era passato alle cure di Mario Draghi, considerato in Europa e nel Mondo una delle persone più esperte e affidabili. Insomma, a Bruxelles ci si sentiva relativamente tranquilli che questa volta l’Italia avrebbe in primo luogo speso i soldi (cosa che non avviene regolarmente con i fondi Ue) e che li avrebbe spesi bene, sostenendo con la sua crescita quella del resto dell’Unione.

Nel frattempo era arrivata la pandemia, e poi la guerra, e il comportamento lineare, chiaramente europeista, del governo Draghi ha permesso all’Italia di giocare un ruolo da protagonista negli ultimi mesi, che sempre più avrebbe potuto crescere viste le incertezze del governo tedesco e le obiettive difficoltà parlamentari di quello francese.

Eppure, come ha sintetizzato senza celare la rabbia il commissario all’Economia Paolo Gentiloni, il balletto degli irresponsabili contro Draghi può provocare una tempesta perfetta“. L’ex presidente del Consiglio ha poi invitato a “voler bene all’Italia” nei “mesi difficili” che arriveranno, con i timori all’orizzonte per l’attuazione del Piano nazionale per la ripresa e la resilienza (Pnrr) e gli investimenti necessari per la transizione verde. Essendo italiano Gentiloni ha potuto dirlo, il bon ton brussellese impedisce ai commissari di esprimere giudizi su Paesi che non siano il loro, ma il sentimento espresso è con ogni probabilità condiviso da molti.

Anche per l’incertezza di quel che seguirà. L’Unione europea un po’ per interesse, un po’ perché ama evitare i rischi, ama la stabilità, la continuità. Così come ha apprezzato che Giuseppe Conte, anche se non particolarmente stimato, rimanesse alla guida anche nel secondo governo della legislatura che sta per chiudersi, così ha imparato che storicamente, seppur con alcuni forti strattoni, di solito i governi italiani che si sono succeduti hanno conservato un atteggiamento per lo meno tendenzialmente collaborativo ed europeista.

Ora invece l’Italia pare muoversi verso qualcosa di radicalmente nuovo, con la possibilità di avere una presidente del Consiglio strettissimamente legata al premier ungherese Victor Orban, la bestia nera per l’Unione, quello che mette regolarmente i bastoni tra le ruote dei meccanismi dell’Ue, quello che ammicca a Vladimir Putin. Giorgia Meloni da mesi gira l’Europa (è la leader dei Conservatori europei) spiegando la sua idea sul futuro del 27, che è pieno di paletti e di punti ancora non espressi.

Per Bruxelles sarebbe un vero salto nel buio, e non può non tremare.

ue

Via alla legge sui mercati digitali. Sarà in vigore dal 2023 in tutta Ue

Ora è ufficiale. Dal gennaio del 2023 entrerà in vigore su tutto il territorio comunitario il Digital Markets Act, la legge dell’Ue sui mercati digitali. Con l’approvazione in via definitiva da parte del Consiglio dell’Unione europea – che segue al voto favorevole della sessione plenaria del Parlamento Ue del 5 luglio – l’intesa raggiunta tra i co-legislatori lo scorso 24 marzo per porre i primi paletti ai comportamenti abusivi delle Big Tech nella sfera online è pronta per essere pubblicata nella Gazzetta ufficiale dell’Unione europea, per essere applicata in sei mesi. Il regolamento (legge Ue che deve essere applicata integralmente da tutti i Paesi membri) sui mercati digitali si pone di rafforzare lo Stato di diritto e tutelare lo spazio dell’informazione, insieme con la legge gemella del Digital Services Act.

Partendo dalla proposta dell’esecutivo Ue del dicembre 2020, la legge sui mercati digitali specifica con precisione le caratteristiche per identificare i ‘controllori’ dell’accesso al mercato digitale: fatturato annuo di almeno 7,5 miliardi di euro all’interno dell’Ue negli ultimi tre anni, valutazione di mercato di almeno 75 miliardi di euro, almeno 45 milioni di utenti finali mensili, almeno 10 mila utenti aziendali stabiliti nell’Ue, controllo di uno o più servizi di piattaforma di base (marketplace, app store, motori di ricerca, social network, servizi cloud, servizi pubblicitari, e anche assistenti vocali e browser web, come da richiesta dell’Eurocamera) in almeno tre Paesi membri. Appare abbastanza evidente che a essere prese di mira sono soprattutto le Big Tech statunitensi, come Google, Amazon, Facebook, Apple e Microsoft, mentre la soglia quantitativa fissata dovrebbe lasciare tranquille le grandi aziende europee come Booking e Zalando. Toccate solo parzialmente le piccole e medie imprese, esentate da obblighi a meno che non diventino ‘gatekeeper emergenti’ (con una posizione competitiva “comprovata ma non ancora sostenibile”).

Per quanto riguarda gli obblighi dei gatekeeper, dovrà essere essere garantito il diritto degli utenti di disdire l’abbonamento ai servizi della piattaforma principale e l’interoperabilità delle funzionalità di base dei servizi di messaggistica istantanea. In altre parole, i più grandi servizi di messaggistica (Whatsapp, Facebook Messenger o iMessage) dovranno aprirsi all’interoperabilità con le piattaforme più piccole, dando agli utenti più scelta nello scambiarsi messaggi, inviare file o fare videochiamate attraverso le app di messaggistica. Dovrà poi essere garantito un accesso equo alle funzionalità degli smartphone agli sviluppatori di app e i venditori dovranno poter aver accesso ai propri dati sul marketing nelle piattaforme online. Ma soprattutto, la Commissione Ue dovrà essere sempre informata sulle fusioni, per evitare le cosiddette ‘killer acquisition’, ovvero le acquisizioni di società emergenti da parte delle aziende che dominano il mercato digitale.

Quello che la legge sui mercati digitali vieta è pre-installare sul dispositivo determinate applicazioni software o richiedere agli sviluppatori di app di utilizzare determinati servizi per comparire negli app store, classificare più in alto i propri prodotti e servizi e riutilizzare i dati privati raccolti ai fini di un altro servizio. Dure le sanzioni in caso di violazione delle regole stabilite dal Dma: multa fino al 10 per cento del fatturato globale e 20 per cento in caso di recidiva. Con una violazione della legge per almeno tre volte in otto anni, l’esecutivo Ue potrà aprire un’indagine di mercato. L’unica responsabile per l’applicazione del regolamento sarà proprio la Commissione Europea, con la possibilità affidata agli Stati membri di autorizzare le autorità nazionali della concorrenza ad avviare indagini su possibili infrazioni e a trasmettere le loro conclusioni all’esecutivo Ue.

Digital Markets Act

inquinamento

Chi inquina di più? Un quinto delle emissioni CO2 causate dai trasporti

Viaggiare inquina. Secondo i dati pubblicati dall’Emissions Database for Global Atmospheric Research (EDGAR), nel 2020 il mondo dei trasporti è stato responsabile di circa un quinto del totale delle emissioni di CO2 a livello globale, arrivate a sfiorare i 36 miliardi di tonnellate. Dai numeri emerge anche il peso preponderante dei trasporti su strada in termini di inquinamento: auto, mezzi pesanti, autobus, veicoli commerciali e moto/scooter arrivano assieme al 78% delle emissioni generate dal settore. A seguire ci sono i mezzi marittimi (11%), gli aerei (8%) e i mezzi su rotaia (appena il 3%).

Il quadro si conferma simile, se non peggiore, restringendo l’analisi alla sola Unione europea. Secondo l’Agenzia europea per l’ambiente (Eea), attualmente i trasporti sono la fonte di circa un quarto delle emissioni di CO2 e la quota legata a veicoli su strada arriva a toccare il 71,7%, precedendo la navigazione (14,1%) e l’aviazione (13,4%). Non solo: a preoccupare è il trend legato al comparto mobilità, opposto a quello di tutti gli altri principali macrosettori. L’Eea, nel suo Transport and environment report 2021 evidenzia come le politiche in materia di clima ed energia nell’Ue hanno portato, tra il 2000 e il 2019, a riduzioni significative delle emissioni di gas serra in campi come la produzione di energia, l’industria manifatturiera, l’edilizia e l’agricoltura. Nei trasporti invece le emissioni totali di gas serra sono aumentate di oltre un terzo nello stesso lasso di tempo, mentre considerando soltanto i veicoli su strada il balzo è del 28%.

La situazione è senza dubbio destinata a migliorare nei prossimi anni, anche se con un ritmo quasi certamente non sufficiente per raggiungere i target di decarbonizzazione fissati da Bruxelles. In particolare, secondo la Commissione Ue le emissioni di CO2 dei trasporti saranno ancora superiori del 3,5% nel 2030 rispetto al 1990 e diminuiranno solo del 22% entro il 2050 rispetto ai livelli del 1990. Cifre ben lontane da quanto previsto nel Green Deal europeo dove, pur non essendo fissati obiettivi specifici per settore, si parlava della necessità di una riduzione del 90% delle emissioni di gas a effetto serra dai trasporti entro il 2050 (rispetto al 1990) per arrivare al traguardo complessivo della neutralità climatica nell’Ue. Non stupisce quindi che si stia accelerando su misure quali lo stop alla vendita di autoveicoli con motori diesel e a benzina nel 2035. Anche perché, sempre secondo i dati dell’Eea riferiti al 2019, le automobili sono il mezzo di mobilità meno pulito, arrivando a produrre il 60,6% di tutte le emissioni del comparto trasporti.

La situazione italiana collima solo in parte con quella comunitaria, mostrando alcune peculiarità significativa del nostro paese. La quota dei trasporti sul totale di emissioni di gas serra si è attestata nel 2019 (dati dell’Ispra) al 25,2%, in linea quindi con il contesto complessivo dell’Ue. In Italia però si nota l’ancora più netta preponderanza del trasporto su strada dal quale deriva addirittura il 92,6% dell’inquinamento. Decisamente ridotto l’impatto della navigazione (4,3%) e dell’aviazione (2,3%), praticamente inesistente quello dei mezzi su rotaia (0,1%). Numeri che fotografano perfettamente l’eccessiva dipendenza dell’Italia nei confronti del trasporto su gomma e l’attuale arretratezza in tema di intermodalità gomma-ferro. Con un problema in più: il peso preponderante, rispetto a altri Paesi, dei carburanti fossili, con i consumi di gasolio e benzina che rappresentano circa l’88% del consumo totale su strada.

Per quanto riguarda il trend, le emissioni di gas serra dei trasporti in Italia sono aumentate del 3,2% tra il 1990 e il 2019, mentre quelle del trasporto su strada sono salite leggermente di più (+3,9%). Anche nel nostro Paese però sono attesi miglioramenti significativi, favoriti sia dalle politiche più green in tema di trasporti sia dall’evoluzione tecnologica. Secondo Ispra, nel 2030 le emissioni di CO2 da trasporto su strada diminuiranno del 39% rispetto al 1990, passando da circa 97 a 59 milioni di tonnellate: una tendenza, questa, nettamente migliore rispetto a quella complessiva dell’Ue. Entro il 2050 il calo proseguirà fino a raggiungere i 22 milioni di tonnellate.