Pellegrino (A.R.T.E.): Non vedo impatto positivo sulle bollette con il Pun zonale

Da gennaio il mercato elettrico italiano ha inizio il percorso per abbandonare il Pun, introdotto per uniformare il prezzo dell’energia in tutto il paese, in favore di un sistema che suddividerà l’Italia in 7 zone geografiche per le quali sarà definito il cosiddetto Pun Zonale. Le nuove tariffe in teoria terranno conto delle specificità delle diverse zone, ma è “ancora presto per fare una valutazione visto che entrerà in vigore in maniera definitiva nel corso dell’anno. Quello che si può dire è che l’obiettivo è quello di cercare di aumentare l’efficienza e premiare le Regioni che punteranno a sfruttare maggiormente le risorse rinnovabili che potranno avere ricadute anche sull’economia locale. Lato consumatori, la previsione è che il costo della bolletta non ne sarà impattato positivamente”, dice a GEA Diego Pellegrino, portavoce di A.R.T.E., Associazione Reseller e trader dell’energia.

Tecnicamente come influisce il Pun sui prezzi in bolletta?
“A stabilire il prezzo all’ingrosso dell’energia elettrica sono le operazioni di compravendita tra produttori e fornitori di energia, e le sue oscillazioni sono un fattore determinante per calcolare i costi finali dell’energia in bolletta. Nei periodi in cui il Pun aumenta i costi in bolletta tendono naturalmente a salire, e viceversa. Ovviamente, se il consumatore finale ha optato per un’offerta con la componente energetica a prezzo indicizzato questa subirà variazioni, in meno o in aumento, in base al valore del Pun, se diversamente il prezzo dell’energia in bolletta è fisso resterà invariato per il tempo stabilito dal contratto sottoscritto”.

Qual è stato l’andamento del Pun nel corso degli ultimi 20 anni?
“Un primo spartiacque nell’andamento del prezzo dell’energia, e conseguentemente anche del PUN, è il 2008. Fino a quell’anno il costo della componente energetica è cresciuto costantemente, a fronte dello sviluppo economico globale. È intervenuta la crisi dei mutui subprime del 2008 a far invertire improvvisamente questa tendenza, con un crollo vero e proprio registrato nel 2009. La decrescita è continuata sostanzialmente anche negli anni successivi per il rallentamento della produzione dovuta alla crisi economica fino, tra alti e bassi, al 2017, anno in cui il prezzo dell’energia elettrica ha ripreso a salire anche a fronte del mancato apporto del nucleare francese e l’intenso freddo invernale. Da questo si capisce quanto il Pun sia sensibile alle crisi geopolitiche e economiche, ed è per questo motivo che gli ultimi anni sono stati segnati da oscillazioni profonde, soprattutto perché le area di maggiore produzione energetica globale, come la Russia e il Medio Oriente, sono tuttora interessati da gravi crisi conflittuali”.

In attesa degli effetti del Pun zonale, quali sono le previsioni per il 2025?
R. “Le previsioni per il Pun 2025 sono ancora piuttosto complesse a fronte di molte variabili difficilmente prevedibili. I prezzi all’ingrosso dell’energia potrebbero avere un incremento nell’ordine del 10% circa rispetto agli attuali. Tra le variabili che potrebbero portare ad un ulteriore rialzo abbiamo eventuali tensioni geopolitiche, un aumento della domanda energetica, le fluttuazioni dei prezzi delle materie prime, che relativamente alla produzione a supporto per la tecnologia rinnovabile, potrebbero influenzare significativamente i costi finali dell’energia, come gli stessi investimenti sempre nelle fonti rinnovabili, che a regime porteranno ad una riduzione del costo dei prezzi all’ingrosso, ma che all’inizio potrebbero fare aumentare i costi per i consumatori. Infine, le politiche governative e le regolamentazioni, dove eventuali ulteriori incentivi per le energie rinnovabili, o le tasse sul carbonio o sussidi per determinati tipi di produzione energetica potranno influenzare il prezzo finale dell’elettricità per i consumatori”.

Zanardi (Assofond): “Situazione mai vista, crollo ordini e rincari energia”

Bollette in salita, imprese in difficoltà. Soprattutto le cosiddette energivore, come le fonderie. Fabio Zanardi, presidente di Assofond, è preoccupato: “L’impatto dei rincari energetici è immediato, come quelle che stiamo vivendo adesso. Vanno in presa diretta con la marginalità del mese corrente. I costi li vedi nel mese in corso con i termini di pagamento”, spiega a GEA.

Come reagisce l’impresa?

“Ogni fonderia sta variando le scelte commerciali o alzando i prezzi o perdendo marginalità, con un impatto sulla competitività e sulla solidità delle imprese. Aggiungo che il tutto si inserisce in un contesto di mercato ai minimi storici dal 2009. Una situazione paradossale, mai vista prima: ordini bassi, lunghe chiusure, cassa integrazione e costi in continuo aumento”.

Perché dice “situazione mai vista prima”?

“Di solito quando cala il mercato, calano i costi, ma ora non è così. Anche le materie prime restano alte per le sanzioni alla Russia, così come il costo del lavoro è più alto in seguito all’impatto inflattivo e al rinnovo dei contratti. Bisogna dunque lavorare sul prezzo, a causa della grande capacità disponibile, per restare sul mercato”.

Quando è iniziato il calo del giro d’affari?

“Abbiamo iniziato a calare, come settore, a metà 2023 con una riduzione degli ordini e il processo non si è mai fermato nel 2024. Ora il 2025 presenta una piattezza come il 2024. Così la maggior parte delle fonderie ha dovuto fare ricorso alla cassa integrazione”.

Come si può reagire e ripartire?

“Abbiamo dei punti di forza: sul fronte ambientale, ad esempio, le fonderie italiane sono le migliori del mondo. Se il Green deal è una cosa seria, l’Europa non può non affidarsi alle fonderie italiane. Continuiamo a investire nella transizione 5.0, che è stata sbloccata e migliorata. Poi c’è l’Energy Release che dovrebbe partire e potrebbe calmierare i costi energetici, anche se il provvedimento chiede impegni stringenti sulle rinnovabili… capiremo. Ma la vera speranza è la fine del conflitto ucraino con una ripresa degli investimenti su costruzioni, movimento terra ed edilizia che trascina tutta la meccanica. Abbiamo tutti i settori, diversi dal trasporto, che oggi sono in una fase di stallo senza speranza e con la fine della guerra potrebbero risollevarsi”.

Se non calano i prezzi energetici, che succede?

“Dal punto di vista industriale è auspicabile avere prezzi energetici paragonabili al resto del mondo. Se saremo costretti al Gnl d’oltreoceano costantemente, avremo sempre un gap competitivo e saremmo costretti a ridimensionarci nel lungo termine come industria pesante”.

Le rinnovabili possono risolvere il problema costi?

“Le rinnovabili non sono sufficienti, ci vorrebbe una fortissima spinta sull’eolico. Stiamo andando veloci sul solare che però non dà il fabbisogno che serve, anche perché la spinta alla mobilità elettrica richiede un maggiore fabbisogno elettrico. Ma anche l’eolico non sarebbe sufficiente. Per cui bisogna decidere se sdoganare il gas come vettore energetico della transizione, per poterlo utilizzare senza troppe restrizioni legate alla tassonomia europea, oppure torniamo a parlare di nucleare ma in maniera concreta”.

E il Green Deal?

“Ecco, come dicevo, non va mollato. Per noi fonderie è un importante vantaggio competitivi. Senza Green deal abbiamo fatto investimenti nella tutela dell’ambiente che non hanno paragoni nel resto del mondo. Usiamo dunque il Green deal con coscienza e non smontiamolo, perché allora saremmo sopraffatti dal resto del mondo, che avrebbe un vantaggio economico e monetario”.

La Bce preoccupata per i nuovi aumenti del gas: +17,7% da ottobre

L’Unione europea e la sua eurozona ripiombano nell’incubo caro-bollette e caro-energia. Lo stop al contratto che permetteva al gas russo di transitare nell’Ue attraverso l’Ucraina non è solo fonte di tensioni politiche tra Kiev e Bratislava ma pure motivo di preoccupazione per la Banca centrale europea, che inizia a guardare con rinnovato assillo ai listini del gas. “Dalla riunione del Consiglio direttivo di ottobre i prezzi del gas europeo sono aumentati del 17,7%, spinti sia da fattori di domanda che di offerta”, rileva il bollettino economico mensile della Bce. “Dal lato dell’offerta – si precisa – l’aumento può essere in gran parte attribuito all’imminente scadenza dell’accordo di transito del gas tra Ucraina e Russia alla fine del 2024”.

Il bollettino nel complesso è un insieme di avvertimenti e richiami non proprio nuovi: tensioni geopolitiche, incertezze che possono incidere sui ritmi di crescita, gli interrogativi legati al ritorno di Donald Trump alla Casa Bianca, l’invito alle riforme per i governi dell’eurozona. L’unico elemento certamente nuovo e più di stretta attualità è l’attenzione prestata ai prezzi dell’energia. Anche perché l’andamento spazza via tutti i calcoli condotti a Francoforte fin qui. I miglioramenti, per quanto prudenti, attesi per il nuovo anno erano auspicati “sulla base delle ipotesi di calo dei prezzi del petrolio e del gas” che non ci sono più.

Nel bollettino economico non si fa riferimento a fenomeni speculativi, ci si limita a notare una fluttuazione verso l’alto di listini che potrebbero avere ripercussioni serie per l’economia e la produttività dei Paesi Ue con la moneta unica. Nuovi aumenti delle bollette rischiano di incidere negativamente sui consumi delle famiglie, così come sui costi di produzione industriale. Senza contare il rischio di nuove spirali inflattive.

La presidente della Bce, Christine Lagarde, nel discorso di inizio anno, ha chiarito come il 2025 voglia essere l’anno in cui l’inflazione si stabilizzi al 2 per cento, obiettivo che può essere rimesso in discussione sulla scia dell’impennata dei prezzi del gas. Non sorprende dunque l’attenzione della Bce per l’evoluzione sul mercato del gas, su cui grava anche un inverno più rigido delle attese e rinnovabili che le attese invece le hanno tradite.

Dal lato della domanda, la riduzione della produzione di parchi eolici a novembre in Europa ha portato a una maggiore dipendenza dalla generazione di energia a gas”, continua il bollettino economico. “Ciò, unito al freddo, ha ridotto significativamente i livelli di stoccaggio del gas in tutta Europa, contribuendo ulteriormente all’aumento dei prezzi del gas”.

Per quanto riguarda il differenziale sui titoli di Stato tedeschi, il bollettino sottolinea come “è divenuto positivo, per la prima volta dal 2016, mentre l’annuncio di elezioni anticipate in Germania non ha avuto un effetto rilevante. Variazioni di maggiore rilievo sono state osservate per il rendimento dei titoli di Stato decennali francesi, aumentato di circa 5 punti base, in un contesto caratterizzato dall’incertezza sulle prospettive di bilancio del paese, e che ha ampliato di 30 punti base il differenziale rispetto al tasso OIS a dieci anni. Gli effetti di propagazione in Grecia, Spagna, Italia e Portogallo sono stati comunque limitati, grazie a un migliore clima di fiducia che ha caratterizzato le attese relative al bilancio in alcuni di questi paesi. Nel complesso, il differenziale tra il rendimento dei titoli di Stato e il tasso OIS si è ridotto di 9 punti base per l’Italia, ampliandosi invece di 4 e 6 punti base, rispettivamente, per Portogallo e Spagna“.

Dal Primo gennaio addio agli incentivi per le nuove caldaie a combustibili fossili

Sono vietati dal primo gennaio 2025 gli incentivi finanziari per l’installazione di impianti autonomi a combustibile fossile: una delle tappe della direttiva sulla prestazione energetica nell’edilizia (Epbd) verso l’eliminazione graduale delle caldaie a combustibili fossili entro il 2040. Lo scorso ottobre, la Commissione europea aveva pubblicato il primo di una serie di documenti di orientamento per supportare i Paesi dell’Unione nel recepimento e nell’attuazione della direttiva nel diritto nazionale e per chiarire il requisito di interrompere, al più tardi dal primo gennaio 2025, qualsiasi incentivo finanziario per l’installazione di nuove caldaie autonome alimentate da combustibili fossili.

In particolare, il documento specifica le nozioni di “caldaia autonome alimentata da combustibili fossili” e di “sistema di riscaldamento ibrido”, nonché di “installazione” e “incentivi finanziari”. Ad esempio, “non possono essere forniti sussidi, prestiti agevolati o incentivi fiscali, come aliquote fiscali ridotte, per l’acquisto, l’assemblaggio e la messa in funzione di nuove caldaie autonome alimentate a gas naturale, petrolio o carbone, indipendentemente dal fatto che l’installazione faccia parte o meno di un progetto di ristrutturazione. Nessun ente pubblico a livello nazionale, regionale o locale fornirà sostegno economico e/o sostegno tramite risorse pubbliche ad acquirenti, installatori e terze parti per l’installazione di tali caldaie”, si legge. Per la Direzione generale per l’Energia della Commissione europea lo stop agli incentivi agli impianti autonomi a combustibile fossile è una misura della direttiva sulla prestazione energetica nell’edilizia che “avvicina l’Ue al raggiungimento di un parco immobiliare completamente decarbonizzato entro il 2050”.

Oltre allo stop a questo tipo di sostegni, però, il documento di guida della Commissione delinea anche forme di incentivi che possono continuare. Ad esempio, “i sistemi di riscaldamento ibridi che combinano una caldaia con un generatore di calore che utilizza energia rinnovabile possono essere incentivati ​​solo se la quota di energia rinnovabile è considerevole; e l’incentivo fornito dovrebbe essere proporzionato alla quota rinnovabile. Inoltre, qualsiasi incentivo già approvato nell’ambito dei fondi Ue, il finanziamento dei costi aggiuntivi relativi alla transizione all’uso di gas rinnovabili in una caldaia, il sostegno per la manutenzione, la riparazione o la dismissione di caldaie a combustibili fossili o il sostegno al reddito per il riscaldamento con combustibili fossili possono essere mantenuti. Allo stesso modo, gli incentivi che sono già stati concessi a livello nazionale, regionale e/o locale e comunicati a un singolo beneficiario possono ancora essere erogati”, precisa la Dg Energia.

Allargando il campo, la direttiva Epbd stabilisce come l’Ue può raggiungere un parco immobiliare completamente decarbonizzato entro il 2050 tramite una serie di misure e, “quindi, ridurre le bollette energetiche per i cittadini europei potenziando strutturalmente la prestazione energetica degli edifici”. È entrata in vigore il 28 maggio 2024 con una scadenza di recepimento del 29 maggio 2026 per la maggior parte delle disposizioni anche se l’articolo (il 17(15)) sugli impianti autonomi a combustibili fossili aveva una scadenza di recepimento anticipata del primo gennaio 2025. “La Commissione sta lavorando a una serie di documenti di orientamento su altri elementi della direttiva Epbd aggiornata, con l’obiettivo di adottarli l’anno prossimo”, ha precisato l’esecutivo Ue.

La bolletta del gas tutelato sale ancora. Pichetto: “Rivedere price cap europeo”

Il mese di dicembre 2024 segna un nuovo aumento dei prezzi del gas in Italia, con il costo di riferimento per il cliente tipo che arriva a 125,22 centesimi di euro per metro cubo, in crescita del 2,5% rispetto a novembre. L’incremento è stato determinato dall’aumento dei prezzi all’ingrosso, un fattore che incide direttamente sulla spesa per la materia prima. La conferma arriva dall’Arera, l’Autorità di Regolazione per Energia Reti e Ambiente, che ha comunicato anche il valore della materia prima per il Servizio di Tutela della Vulnerabilità gas, che per dicembre 2024 si attesta a 47,59 euro/MWh. Attualmente, circa 2,36 milioni di clienti domestici usufruiscono di questo servizio di protezione, che in due mesi – tra novembre e dicembre – hanno visto la loro tariffa aumentare di ben oltre il 20%. In particolare, secondo Arera, la spesa per la materia prima gas naturale incide per il 42,98% del totale della bolletta, pari a 53,82 centesimi di euro. La spesa per il trasporto e la gestione del contatore, che copre la distribuzione, la misura e i servizi correlati, rappresenta il 22,4%, pari a 28,03 centesimi. Gli oneri di sistema e le imposte incidevano rispettivamente per il 2,35% e il 27,36%.

A complicare ulteriormente la situazione, il ministro dell’Ambiente e della sicurezza energetica, Gilberto Pichetto Fratin, ha sottolineato l’impatto dello stop al transito delle forniture di gas da parte di Gazprom attraverso l’Ucraina. Sebbene l’Italia abbia continuato a ricevere gas dalla Russia nel corso del 2024, Pichetto ha rassicurato sullo stoccaggio nazionale, che ha raggiunto l’80% della quota di dosaggio. “Abbiamo una decina di miliardi di metri cubi di disponibilità e riusciamo a far fronte al passaggio invernale“, ha dichiarato il ministro, facendo riferimento anche ai rifornimenti verso l’Austria attraverso il punto di Tarvisio.

Tuttavia, la principale preoccupazione resta l’incremento dei prezzi, legato non solo alla riduzione dei quantitativi di gas disponibili per l’Europa, ma anche ai possibili rischi di speculazione nel mercato spot. Pichetto ha suggerito che uno degli strumenti per contrastare tale fenomeno sia rappresentato dai contratti di lungo termine, che permettono una maggiore stabilità e protezione contro le fluttuazioni improvvise dei prezzi. Per quanto riguarda le soluzioni politiche, Pichetto a Radio Radicale ha sottolineato che “l’Unione europea dovrebbe, a questo punto, e lo abbiamo chiesto, rinnovare l’eventuale price cap, ma non a 180 euro come il precedente, ma a 50-60 euro – ha sottolineato il responsabile del Mase -. Questo significherebbe porre anche un freno a quelle operazioni puramente finanziari che non c’entrano niente con la materia prima, ma pesano sulle famiglie e sulle imprese“.

Intanto, l’eurodeputata Annalisa Corrado, responsabile Ambiente del Partito Democratico, in una nota sottolinea che “occorre proteggere in maniera strutturale e solida le fasce più fragili della popolazione, a partire dai consumatori cosiddetti ‘vulnerabili’, difendendoli dalle speculazioni di un mercato fuori controllo; occorre accelerare ogni azione possibile per far penetrare nelle bollette i benefici del basso costo delle rinnovabili, il modo più rapido ed efficace che abbiamo di correre ai ripari, abbassando la nostra dipendenza dal gas di qualunque provenienza, che rende elevati e instabili i costi. Torniamo a chiedere al Governo e a tutte le forze politiche di prendere in considerazione la nostra proposta di riforma dell’Acquirente Unico, che risponde in maniera strutturale a diverse delle problematiche qui illustrate, innanzitutto a immediata tutela dei consumatori vulnerabili“, conclude la nota della Corrado.

energia

Eurelectric: Emissioni elettricità ai minimi nel 2024, ma la domanda non cresce

Emissioni al minimo storico e prezzi medi diminuiti, ma la domanda di energia non è aumentata. E’ la fotografia del 2024 scattata da Eurelectric, la federazione dell’industria elettrica europea. In base ai suoi dati, “il 2024 è stato un anno da record per il settore energetico europeo” perché “le emissioni sono state ridotte del 59% rispetto ai livelli del 1990 grazie a maggiori fonti rinnovabili” e, “di conseguenza, l’Ue ha ottenuto il mix di generazione di energia più pulito di sempre”. Inoltre, “i prezzi negativi hanno battuto un altro record, verificandosi 1.480 volte” e “il prezzo medio all’ingrosso dell’elettricità del giorno prima nell’Ue è diminuito del 16% rispetto al 2023”. Invece, “su una nota meno positiva, la domanda di energia non è aumentata dalla crisi, principalmente a causa del basso consumo industriale”.

Secondo i dati di Eurelectric, la chiusura dell’anno per l’Ue è con prezzi dell’elettricità più bassi in media. “Nel 2024, i prezzi all’ingrosso del mercato giornaliero sono scesi a 82 euro per megawattora (euro/MWh) rispetto ai 97 euro/MWh del 2023. Questa media era ancora più bassa, 76 euro/MWh, fino all’ultimo trimestre dell’anno, quando un’impennata dei prezzi del gas, un’elevata domanda invernale, scarse giornate solari e senza vento hanno fatto salire i prezzi, causando diversi picchi in Germania, Ungheria, Romania e Svezia”. Parallelamente, “i prezzi negativi hanno battuto un nuovo record quest’anno, poiché sono stati registrati il ​​17% delle volte in almeno una zona di offerta”, precisa Eurelectric.

Sul fronte delle emissioni, il 2024 ha segnato il dato più basso del settore energetico dell’Ue con un calo del 13% rispetto al 2023. Le energie rinnovabili hanno contribuito al 48% del mix di produzione di energia dell’Ue, seguite dal nucleare al 24% e dai combustibili fossili al 28%, “la quota più bassa di sempre”. E se il nucleare è rimasto “leader nella produzione di energia, l’eolico ha mantenuto il suo primato sul gas naturale rispetto all’anno precedente” e “l’elettricità da idroelettrico e solare fotovoltaico è aumentata notevolmente di oltre 40 TWh anno su anno”: pari alla metà della domanda annuale di energia in Belgio e all’intera domanda annuale in Danimarca.

Il lato problematico è quello della domanda di energia che, in base ai dati, è cresciuta di meno del 2% rispetto al 2023 e rimane inferiore ai livelli pre-crisi. “Parte di questa riduzione deriva da una maggiore efficienza e dai risparmi energetici, tuttavia, oltre il 50% di questo calo è causato dal rallentamento industriale. In Germania, il consumo di energia dell’industria è diminuito del 13% nel 2023 rispetto al 2021 e si prevede che sia ulteriormente calato nel 2024, poiché la produzione industriale è scesa del 4% anno su anno”, evidenzia l’organizzazione.

Infine, secondo la federazione, “promuovere l’elettrificazione industriale deve essere una priorità per la nuova Commissione” e “il Clean Industrial Deal è l’opportunità ideale per fornire nuovi incentivi all’elettrificazione, come la creazione di una banca di elettrificazione, aree di accelerazione dell’elettrificazione e meccanismi di riduzione del rischio per accordi di acquisto di energia a lungo termine”. Per Cillian O’Donoghue, Policy Director di Eurelectric, “investire in una maggiore generazione di energia rinnovabile è la strada giusta per un’economia più competitiva e decarbonizzata, ma deve essere completata da una capacità più solida e flessibile per bilanciare la loro variabilità, limitare la dipendenza dai costosi combustibili fossili e contenere i picchi di prezzo”.

Musei Vaticani sempre più green: inaugurata la copertura vetrata fotovoltaica

È stata inaugurata oggi, ai Musei Vaticani, la nuova copertura vetrata fotovoltaica del Cortile delle Corazze. All’evento hanno partecipato il Cardinale Fernando Vérgez Alzaga e la presidente di Acea Barbara Marinali. Gli impianti sosterranno in modo significativo con una produzione di energia rinnovabile i consumi elettrici dei Musei e concorreranno ad abbattere la Carbon Foot Print dello Stato. L’intervento, realizzato in soli sei mesi da Areti, società del Gruppo Acea che si occupa della distribuzione dell’energia elettrica a Roma, ha un ulteriore valore estetico e funzionale per un sito di per sé già iconico nell’immaginario collettivo: infatti la sostituzione dei vetri esistenti con i nuovi vetri fotovoltaici ha permesso di realizzare una copertura che garantisce un isolamento termico e un effetto di ombreggiamento che aumentano in modo significativo la vivibilità degli spazi. Così come la realizzazione di un nuovo impianto di illuminazione, ha consentito di migliorare l’efficienza illuminotecnica e una conseguente valorizzazione estetica del sito.

A rendere ancora più complessa la sfida per i tecnici, durante i sei mesi di lavoro, la necessità di non intralciare mai il flusso dei visitatori giornalieri attraverso l’ingresso dei Musei. Per questo motivo i tecnici hanno operato su ponteggi interni ed esterni progettati in modo tale da poter eseguire gli interventi in sicurezza e senza alcun intralcio ai visitatori. Oltre al cortile delle Corazze, nel progetto è prevista anche la copertura con vetri fotovoltaici del magazzino della Vignaccia nei Giardini Vaticani, che verrà completata entro i primi mesi del prossimo anno. Complessivamente, i due impianti, prevedono la realizzazione di 350 KW di picco fotovoltaico per una produzione complessiva di circa 500 MWh di energia elettrica all’anno. Sempre oggi sono stati inaugurati anche 20 punti di ricarica “veloci” su 10 colonnine e 2 punti di ricarica “ultra fast”, su una ulteriore colonnina al lato dell’ingresso dell’Aula Paolo VI per incentivare la diffusione della mobilità elettrica.

 “La bellezza dell’arte e l’innovazione tecnologica – spiega la presidente di Acea, Barbara Marinali – un binomio che si concretizza perfettamente nel progetto che inauguriamo oggi ai Musei Vaticani. È un’occasione per Acea per fornire il proprio contributo, grazie alle altissime professionalità del Gruppo, ad uno dei musei più importanti al mondo, supportando così il settore artistico-culturale. Oggi possiamo dire che il Vaticano diventa sempre più green. Continua così il nostro impegno nel migliorare le infrastrutture e offrire soluzioni che vanno nella direzione delle smart city in un futuro in cui la grande sfida passa attraverso i temi della new technology, della digitalizzazione e dell’intelligenza artificiale”.

Arrigoni (Gse): “Bollette scese ma non a livelli pre-Covid. Sì nucleare, ma serve deposito unico”

Dalle bollette al nucleare, alle rinnovabili e agli Ets. Il presidente del Gse, Paolo Arrigoni, ospite del #GeaTalk, tocca diversi argomenti. “Preoccuparsi per l’aumento dei costi in bolletta? No, anche se il costo dell’energia elettrica e del gas incidono sui bilanci delle famiglie e delle imprese”, spiega. “Non siamo più ai prezzi del 2022, quando ci fu l’esplosione del caro energia anche conseguente al conflitto russo-ucraino – aggiunge -. Da allora i prezzi diminuiti ma non hanno raggiunto quelli pre-Covid. In Italia il prezzo medio giornaliero dell’energia nel 2024 segna 108 euro/MWh, quindi siamo oltre doppio rispetto agli anni pre-pandemia, ma quello che va segnalato è che il gap di prezzo rispetto ad altri Paesi Ue, che prima era intorno al 15%, è aumentato. In confronto alla Francia siamo a circa il doppio, rispetto alla Germania è circa il 50%, mentre il prezzo del gas bene o male è allineato”. L’autunno di quest’anno “è il meno mite degli ultimi due, probabilmente preannuncia un inverno importante, sta caratterizzando un aumento dei consumi gas che pone un incremento di questa commodity, che si trascina poi il prezzo dell’elettricità”.

Sullo sviluppo delle rinnovabili, Arrigoni invita a “fare attenzione a non dismettere gli investimenti nel gas, che è un fossile, anche se il meno inquinante rispetto a carbone e petrolio, perché è il vettore che servirà nella transizione energetica”. Dunque, “bene fa il governo, a maggior ragione dopo l’esperienza del conflitto in Ucraina e l’affrancamento dal gas russo, a investire in infrastrutture strategiche come i rigassificatori di Livorno e Ravenna. Perché il gas deve accompagnare lo sviluppo delle rinnovabili”. Tra l’altro, “l’obiettivo al 2030 scritto nel Pniec prevede l’installazione di 130 GW di rinnovabili, di cui 80 solare, 28 eolico, il resto idroelettrico e qualcosa sulla geotermia e biomasse. A ottobre del 2024 eravamo a 73 Gw installati, ne mancano 58 e abbiamo a disposizione ancora 6 anni”.

Bene anche le concessioni elettriche a 20 anni, come stabilito da un emendamento alla legge di Bilancio 2025. “Invitare attuali gestori di rete a presentare un piano investimenti per consentire una proroga delle concessioni delle reti di distribuzione è ragionamento che ci sta totalmente. Condivido la scelta governo”, dice il presidente del Gestore servizi energetici. Che tocca anche il tema del nucleare, con idee ben chiare: “Parlo a titolo personale, ritengo che il principale sponsor del nucleare sia la decarbonizzazione, la necessità di contrastare i cambiamenti climatici, di rallentare gli aumenti di temperatura del pianeta. Per fare questo occorre investire sulle rinnovabili per affrancarci dai fossili, ma le fonti trainanti sono fotovoltaico e eolico, che sono intermittenti e non programmabili. In abbinato serve il cosiddetto carico di base”.

Prima, però, il Paese deve liberarsi da paure e chiusure tipo la Sindrome da Nimby, di ‘Not in my backyard’ (‘Non nel mio giardino’), “in primis per realizzare il deposito unico dei rifiuti radioattivi”. Perché, aggiunge Arrigoni, “un Paese serio deve pensare a gestire responsabilmente da sé i rifiuti nucleari, che oggi sono sparsi in una trentina di depositi provvisori e che potrebbero anche presentare problemi di sicurezza. Quindi, meglio farli convergere in un unico deposito”.

Inoltre, è convinto che “il nucleare da fissione di ultima generazione, quello relativo agli Small modular reactor, può dare risposte a meno di dieci anni da oggi”, perché “la premier Meloni ha parlato a Baku di nucleare da fusione, sul quale il governo sta investendo, però la competitività delle imprese e la decarbonizzazione non possono attendere decenni”.

Infine, Arrigoni parla anche degli Ets, “un sistema che sta gravando sulle imprese, tra un po’ graverà anche sul trasporto marittimo”, poi il meccanismo “distinto ma parallelo degli Ets2 che graverà dal prossimo anno e per il 2026 e 2027, attraverso pagamenti sui trasporti su gomma, sull’edilizia residenziale, sul terziario, desta preoccupazione, perché di fatto sono altre tasse”. Ecco perché, Arrigoni avverte: “L’Europa sta correndo, si sta ponendo sempre più obiettivi sfidanti – aggiunge -, occorre fare attenzione, non incrementarli perché sono già sfidanti e traguardarli significa sforzi, impegni, costi dell’energia”.

Coldiretti lancia l’allarme: “Torna paura carestia. Per innovazione servono 6 miliardi fino al 2030”

Spesso si sente parlare delle incertezze create dalle tensioni geopolitiche. Una formula lessicale entrata ormai nel vocabolario popolare. Ma è una realtà con numeri e storie di vita e lavoro. Lo dimostrano i tanti studi sugli effetti delle guerre sulle nostre economie, lo denunciano gli allarmi delle diverse associazioni di settore.

Non fa eccezione l’agricoltura, ovviamente. Anzi, è uno dei settori maggiormente colpiti dal quadro dei mercati internazionali. In questo scenario vanno letti i risultati del rapporto Coldiretti/Censis, presentato durante la prima giornata del Forum Internazionale dell’Agricoltura e dell’Alimentazione, organizzato dai coltivatori diretti in collaborazione con The European House-Ambrosetti. “Oltre sei italiani su dieci temono che la proliferazione delle guerre e gli effetti dei cambiamenti climatici finiscano per ridurre la quantità di cibo disponibile”, è il dato principale. Al quale si associa il ritorno della “paura di una carestia globale dinanzi alla quale occorre razionalizzare l’utilizzo delle risorse, a partire dalla necessità di destinare i fondi agricoli europei della Pac solo ai veri agricoltori per continuare a garantire in futuro la produzione alimentare”.

Il comparto, poi, è costretto a correre aggravato dalla zavorra delle regole Ue, che stanno penalizzando oltremodo un settore di primaria importanza per l’economia. In special modo per l’Italia. “Crediamo fortemente nell’Europa, ma vogliamo che sia in grado di competere a livello globale e geopolitico senza essere timida o osservare quello che fanno Usa o Cina in politica economica. Se così fosse, rischieremmo di perdere quel valore che eravamo riusciti a crearci”, dice il presidente dei coltivatori diretti, Ettore Prandini. “Alcune debolezze vanno risolte, la soluzione però è ben lungi dal venire. Oggi alcune economie sono più penalizzate rispetto ad altre”, sottolinea il ministro dell’Agricoltura, Francesco Lollobrigida. Che vede comunque un futuro meno rigido per la nuova legislatura, soprattutto grazie alla nomina di Raffaele Fitto come vicepresidente esecutivo con deleghe di peso: “Ci sarà una differenza a due anni di distanza dall’inizio della discussione con Franz Timmermans”.

Il responsabile del Masaf tocca anche un altro tema delicato del dibattito pubblico, perché c’è attesa per capire se realmente il presidente eletto degli Usa, Donald Trump, attuerà i dazi nel suo Paese, come annunciato in campagna elettorale. Lollobrigida, però, non vuole fasciarsi la testa prima di rompersela, come si suol dire: “Vedremo se li metterà, comunque sono un problema e un pericolo se il mercato è regolato”.

L’agricoltura ha anche altre necessità a cui far fronte, come l’innovazione. Per dirla con le parole dell’europarlamentare Pd, Dario Nardella, “è il settore più vecchio dell’economia ma può fare le cose più nuove”. Ma per innovare ha bisogno di risorse, ecco perché Coldiretti chiede di “raddoppiare gli investimenti a 6 miliardi entro il 2030” per “sostenere l’innovazione nel contrasto ai cambiamenti climatici e assicurare la produzione alimentare”. E per farlo “dobbiamo parlare con i campioni di eccellenza tecnologica che l’Italia ha“, come Leonardo, mette in chiaro Prandini.

Altro tema caldissimo, l’energia. Il governo, da un lato vuole riprendere la partita del nucleare per allargare il mix e ottenere sicurezza degli approvvigionamenti e indipendenza dalle forniture estere, dall’altro porta avanti il Piano Mattei per rafforzare la cooperazione con l’Africa e fare del nostro Paese l’hub energetico europeo. Materie su cui interviene l’ad di Eni, Claudio Descalzi. Per quanto riguarda il nucleare, il Cane a sei zampe è impegnato nella fusione, ma “dovremmo arrivare a fare un primo test a fine 2026” ma “se va tutto bene, parliamo del 2027-28 per un prototipo e 2031-31-32 per la commercializzazione”. Sull’Africa, invece, il manager dice, alzando anche i toni, che l’elemento principale da fare è “recuperare credibilità dopo 200 anni di promesse” e “l’unico modo per farlo è quello di prendersi dei rischi con loro: non solo dargli soldi o fare un progetto e via, ma una progettualità che è la loro progettualità, a lungo termine”.

Intanto i costi dell’energia restano alti, e questo è un problema non da poco. Serve “una visione complessiva” a livello europeo e “una armonizzazione”, dice il presidente di Arera, Stefano Besseghini, che invita nel medio termine “ovvero nel 2030-2035” a “puntare sulle rinnovabili e sul riassetto di tutto il comparto”.

Domani seconda e ultima giornata di Forum Coldiretti, con il vicepremier e ministro degli Esteri, Antonio Tajani, il presidente emerito della Corte costituzionale, Giuliano Amato, e il presidente del Censis, Giuseppe De Rita, come portate principali del ‘menù’. Le conclusioni, invece, saranno affidate a Prandini, che tirerà le file di una due giorni piena e intensa.

Cina, il consumo di carbone raggiungerà il picco nel 2025

Il consumo di carbone in Cina, il più grande emettitore di gas serra al mondo, dovrebbe raggiungere un picco nel 2025 prima di diminuire grazie agli sforzi di Pechino per sviluppare fonti energetiche più pulite. Più della metà (52%) degli esperti interpellati in un rapporto pubblicato dai think tank Centre for Research on Energy and Clean Air (CREA) e International Society for Energy Transition Studies (ISETS) prevede che il consumo di carbone in Cina raggiungerà il picco il prossimo anno.

“Raggiungere la neutralità delle emissioni di carbonio in un’economia in rapida crescita come quella cinese non è un’impresa da poco, ma i notevoli sforzi del Paese stanno iniziando a dare i loro frutti”, spiega Xunpeng Shi, presidente dell’ISETS. I permessi di costruzione per le centrali elettriche a carbone sono diminuiti dell’83% nella prima metà del 2024 e nello stesso periodo non sono stati approvati nuovi progetti di acciaio a base di carbone.

Negli ultimi anni, gli esperti sono diventati sempre più ottimisti sulla capacità della Cina di ridurre le emissioni di gas serra, con Pechino che ha raggiunto gli obiettivi di energia eolica e solare con sei anni di anticipo rispetto al previsto. Nonostante questo, c’è ancora “poca chiarezza sulla traiettoria delle emissioni cinesi”, dice Lauri Myllyvirta, analista senior del CREA. Questo lascia aperta la porta a un aumento delle emissioni fino al 2030 e a una riduzione “molto lenta” in seguito, aggiunge.

Secondo l’Agenzia internazionale per l’energia, quest’anno la produzione di energia elettrica a carbone dovrebbe aumentare nuovamente in Cina, anche se al ritmo più basso da quasi un decennio, e la crescita del consumo energetico continua a superare quella del Pil. “La Cina dovrà accelerare ulteriormente la diffusione delle energie rinnovabili o orientare lo sviluppo economico verso una direzione meno energivora”, dichiara Myllyvirta.

La Cina si è impegnata a raggiungere il picco delle sue emissioni di carbonio entro il 2030 e a diventare neutrale entro il 2060. L’Accordo di Parigi del 2015, che la Cina ha firmato, prevede che tutte le parti presentino ogni cinque anni un piano d’azione sul clima per ridurre le emissioni a livello nazionale, noto come contributo nazionale determinato (NDC) e Pechino dovrà presentare il suo aggiornato entro febbraio del prossimo anno.