Difesa, i 5 pilastri del piano ReArm Europe presentato da von der Leyen: vale 800 miliardi

Un piano composto da 5 punti e, sul piatto, 800 miliardi di euro.  ReArm Europe – annunciato oggi dalla presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, in una lettera inviata ai capi di Stato e di governo che giovedì si riuniranno a Bruxelles in una riunione informale del Consiglio europeo – punta ad aumentare la spesa per la difesa europea e lo fa con cinque grandi interventi.

Il primo è un nuovo strumento finanziario dell’Ue per sostenere gli Stati membri nel potenziamento delle loro capacità di difesa. Ai sensi dell’articolo 122 del Trattato sul Funzionamento dell’Ue (TfUe) verrà istituito un nuovo strumento Ue “con un massimo di 150 miliardi di euro” per fornire agli Stati membri prestiti garantiti dal bilancio Ue. I finanziamenti verrebbero destinati a settori di capacità “prioritari” sui quali “è necessaria” un’azione a livello europeo in linea con la Nato: difesa aerea e missilistica; sistemi di artiglieria; missili e munizioni; droni e sistemi anti-droni; facilitatori strategici e protezione delle infrastrutture critiche, anche in relazione allo spazio; mobilità militare; cyber, intelligenza artificiale e guerra elettronica. Questo nuovo strumento potrebbe essere potenziato da “acquisti congiunti” che, secondo Bruxelles, darebbero interoperabilità e prevedibilità, ridurrebbero i costi e creerebbero la scala necessaria per rafforzare la base industriale di difesa europea.

Il secondo pilastro è lo sblocco dell’uso dei finanziamenti pubblici nella difesa. “La Commissione proporrà di attivare in modo coordinato la clausola di salvaguardia nazionale del Patto di stabilità e crescita. Ciò sosterrà gli sforzi dell’Ue per ottenere un rapido e significativo aumento della spesa per la difesa al fine di rispondere alla situazione di sicurezza e difesa senza precedenti. I prestiti erogati nell’ambito del nuovo strumento dell’Ue beneficerebbero della clausola di salvaguardia nazionale prevista dal Patto di stabilità e crescita“, ha precisato la presidente.

Terzo elemento: incentivare gli investimenti legati alla difesa nel bilancio dell’Ue. “La revisione intermedia dei programmi della politica di coesione è un’opportunità per aiutarvi a destinare maggiori fondi agli investimenti legati alla difesa“, ha evidenziato von der Leyen. Tra le opzioni per aumentare i finanziamenti al settore della difesa nei programmi c’è “l’eliminazione delle restrizioni esistenti al sostegno alle grandi imprese nel settore della difesa”; “l’aumento degli incentivi finanziari quali il prefinanziamento e il cofinanziamento”; “l’allentamento delle regole di concentrazione per i fondi investiti nella difesa”; “l’agevolazione del processo di trasferimenti volontari verso altri fondi dell’Ue con obiettivi di difesa”.

Il quarto pilastro è il contributo della Banca europea per gli Investimenti (Bei) che “ha un ruolo chiaro e decisivo” da svolgere. Qui, il piano d’azione per la sicurezza e la difesa del Gruppo Bei “è un primo passo importante e dobbiamo assicurarne la rapida attuazione“.

Infine, il quinto pilastro è la mobilitazione del capitale privato. “Incrementare i nostri investimenti pubblici è indispensabile. Ma non sarà sufficiente di per sé”, ha ribadito von der Leyen. “Dobbiamo garantire che i miliardi di risparmi degli europei siano investiti nei mercati all’interno dell’Ue” e, “per questo, completare l’Unione dei mercati dei capitali è assolutamente fondamentale” perché “potrebbe, da sola, attrarre centinaia di miliardi di investimenti aggiuntivi all’anno nell’economia europea, rafforzandone la competitività”. Perciò “presenteremo una comunicazione su un’Unione di Risparmio e Investimenti”, ha spiegato von der Leyen.

A Parigi vertice sull’acciaio. Urso: “E’ nata un’alleanza per l’industria europea”

Senza acciaio non c’è industria, e senza un’industria forte l’Europa non può competere a livello globale“. Adolfo Urso vola a Parigi per la conferenza sul futuro della siderurgia con altri sei ministri europei per chiedere di non deindustrializzare il Vecchio Continente e garantirne “l’autonomia strategica” nell’energia, nell’industria e nella difesa.

Il ministro delle Imprese e del Made in Italy sottoscrive il non-paper sulla siderurgia insieme ai ministri di Francia, Belgio, Lussemburgo, Romania, Slovacchia e Spagna. Nel documento c’è un piano d’azione per rafforzare la competitività del settore e salvaguardare la produzione in Europa, in un contesto di forte crisi caratterizzato dalla crescente concorrenza internazionale. “Oggi a Parigi, di fatto, è nata un’alleanza per l’industria europea“, spiega poi da Bolzano, dove inaugura una Casa del Made in Italy. “Perché oggi – insiste – è il momento di mettere al centro dell’azione della Commissione Ue l’industria, l’impresa“.

Il non paper siglato si collega al documento promosso dall’Italia e sottoscritto da Austria, Bulgaria, Polonia, Grecia e Cipro sulla revisione del Meccanismo di Adeguamento del Carbonio alle Frontiere (CBAM) per le industrie energivore, a partire dalla siderurgia e dalla chimica. La revisione del CBAM sarà discussa nel prossimo Consiglio Competitività dell’Ue il 12 marzo.

La necessità di un intervento europeo strutturale si dimostra urgente soprattutto alla luce della crisi dell’automotive, che ha generato un forte calo della domanda di acciaio. In questo scenario, l’Italia, rivendica il ministro, si distingue per la “leadership” nella produzione di acciaio green, avendo già avviato una transizione verso la decarbonizzazione. “Oggi il nostro Paese vanta 34 impianti su 35 alimentati da forni elettrici, con una produzione che per l’80% è decarbonizzata“, sottolinea Urso. Un primato che testimonia l’impegno dell’industria italiana verso la sostenibilità e rafforza la posizione del Paese nell’indicare all’Europa la strada giusta da percorrere insieme.

In questa direzione va il processo in corso negli stabilimenti ex Ilva di Taranto che, con il nuovo piano industriale previsto nella procedura di assegnazione, diventerà il “principale stabilimento siderurgico green d’Europa“. Il tema del costo dell’energia è uno degli aspetti centrali del documento sottoscritto oggi. Il non-paper evidenzia la necessità di adottare politiche europee efficaci per ridurre il costo dell’energia, attualmente molto più elevato rispetto a quello di altri attori globali. In vista del dialogo strategico sulla siderurgia che la Commissione Europea avvierà a marzo, il documento pone anche l’accento sulla necessità di una politica commerciale più assertiva.

Per contrastare la concorrenza sleale sul piano internazionale, i firmatari indicano come fondamentale rafforzare le misure di salvaguardia e gli strumenti di difesa commerciale, arginando la sovraccapacità globale e le pratiche sleali dei competitor extra-Ue. Anche per questo, insiste Urso, “è assolutamente necessario che si trattengano in Europa i rottami ferrosi destinati alla produzione di acciaio green“. Allo stesso tempo, è necessario stimolare la domanda interna di acciaio attraverso strumenti di incentivazione mirati, capaci di sostenere il mercato europeo e valorizzare la produzione industriale del continente. Il non-paper richiama poi l’attenzione sull’urgenza di investimenti mirati per sostenere la transizione del settore. I Paesi firmatari chiedono alla Commissione europea di analizzare i gap di finanziamento e di predisporre risorse adeguate per accompagnare le imprese siderurgiche nella decarbonizzazione. Centrale, per i firmatari, è la creazione di un vero mercato europeo dell’acciaio verde, promuovendo il ‘Made in Europe’ e un modello industriale sostenibile e competitivo, in linea con gli obiettivi del Clean Industrial Deal e del futuro Industrial Decarbonisation Accelerator Act.

L’esito del voto in Germania (forse) può dare la sveglia all’Europa

La narrazione comune è che l’esito delle elezioni in Germania, per certi versi abbastanza scontato (la crisi dei socialdemocratici e dell’ormai ex cancelliere Scholz, la vittoria di Friedrich Merz, l’ascesa di AfD), possa giovare all’Europa, alla sua coesione, alla sua capacità di reazione di fronte a eventi mondiali che la stanno rapidamente stritolando. Sempre la narrazione post-voto è che la potenziale stabilità della Germania porti a un riconsolidamento del legame con la Francia e determini un cambio di passo anche a livello economico. In fondo, Berlino che inciampa e rallenta, che è vittima della recessione, non fa bene a nessuno. Nemmeno all’Italia. Con il massimo rispetto, non di solo Macron si può vivere e nemmeno solo di Meloni come principale interlocutrice di Donal Trump, e nemmeno di Orban come ‘amico’ russo. Ci vuole Unione, perché l’unione fa la forza. La svolta tedesca aiutera?

Il punto adesso è il passaggio dalla narrazione alla concretezza fattuale, quella che – chi parla bene – chiama la messa a terra di (buone) intenzioni e di (altrettanto buone) progettualità. Il tema della Difesa, quello dello scudo economico e la rivisitazione del Green Deal (in Clean Industrial Deal) sono le sfide che attendono gli inquilini di Strasburgo e Bruxelles in un contesto geopolitico in cui non ci si possono più permettere litigi di condominio ed eccessi regolamentari. Il vecchio adagio per cui gli Stati Uniti innovano, la Cina copia e l’Europa regolamenta è quanto mai aderente alla realtà e determina una condizione inadeguata. In quest’ottica, una Germania di nuovo forte non può che essere un bene per la Ue, ammesso e non concesso che a Berlino riescano a trovare la chimica giusta per formare un esecutivo. E qui, sempre ad ascoltare la narrazione di cui sopra, da subito ci si arrovella per trovare la formula adeguata, magari una ‘Grosse Koalition’ che metta insieme Cdu, Csu e Spd sulla falsariga di quanto è accaduto per due volte con Angela Merkel. Il nodo, però, sta in quel ‘magari’.

In questa Europa “la Germania deve avere un ruolo guida. Dobbiamo assumerci la responsabilità e io sono pronto a farlo”, ha detto Merz gonfiando il petto. Che si tratti di una dichiarazione meditata o propagandista, si tratta di un compito non facile. Gli scogli sono quelli della contrapposizione a Trump e dell’argine all’esuberanza della Cina. La Difesa comune europea e i dazi sono temi caldissimi, quasi roventi, là dove non è possibile definire una scala gerarchica di priorità. Vanno affrontati subito e bene, senza esitazioni e con unione di intenti. A seguire, il nuovo equilibrio delle politiche verdi, che non possono più essere quelle in cui imperversava Frans Timmermans ma che nemmeno possono e devono scomparire all’improvviso. Gli Accordi di Parigi meritano rispetto nella lotta al cambiamento climatico e alla limitazione delle emissioni di Co2, così come nella salvaguardia del Pianeta che scotta sempre di più. Serve solo più buonsenso per evitare che delle best practice diventino una minaccia alla salute dell’economia.

agricoltura

L’Ue lancia la sua Visione per l’Agricoltura. Fitto: “Sicurezza alimentare non negoziabile”

Semplificazione, digitalizzazione e innovazione: sono le parole centrali della Visione per l’Agricoltura e l’Alimentazione che, presentata oggi dalla Commissione europea, punta a rendere il settore agroalimentare dell’Unione europea “attraente, competitivo, resiliente, orientato al futuro ed equo” per i produttori di oggi e di domani. Dalle parole chiave, però, manca qualsiasi riferimento alla strategia Farm to Fork che, lanciata nel 2020 e considerata centrale nel Green deal, mirava a sistemi alimentari equi, sani e rispettosi dell’ambiente.

La Visione è la nostra risposta decisa all’appello del settore agroalimentare“, ha commentato in conferenza stampa il vice presidente esecutivo, Raffaele Fitto, ricordando le manifestazioni dei trattori dei mesi scorsi. “L’agricoltura e l’alimentazione sono strategici per l’Ue” e “la sicurezza e la sovranità alimentare non sono negoziabili“, ha aggiunto. Elementi che non sono passati inosservati a Roma, con il ministro dell’Agricoltura, Francesco Lollobrigida, che ha definito la Visione “un vero e proprio cambio di rotta, netto e radicale, rispetto alle strategie degli ultimi cinque anni che rincorrevano visioni ideologiche che appiattivano il Green Deal su una presunta tutela dell’ambiente tutta a carico del sistema produttivo“. Per la responsabile Pd alle politiche agricole, l’eurodeputata Camilla Laureti, il documento contiene “aspetti positivi“, come sul reddito dei produttori, ma fa “un passo indietro” su clima e biologico.

La visione delinea quattro aree prioritarie per il settore: attraente, competitivo e resiliente, adeguato alle esigenze future, che garantisca condizioni di vita e di lavoro eque nelle zone rurali. Al primo punto si ascrive l’impegno Ue a garantire con misure concrete che gli agricoltori non siano costretti a vendere i loro beni sotto i costi di produzione e a presentare una strategia per il ricambio generazionale. Rispetto a competitività e resilienza, la Commissione procederà ad un allineamento “più forte degli standard di produzione applicati ai prodotti importati“, stabilendo il principio per cui “i pesticidi più pericolosi vietati nell’Ue per motivi di salute e ambientali non possono essere reintrodotti nell’Ue tramite prodotti importati“. Nel capitolo sulle esigenze future, Bruxelles “considererà attentamente qualsiasi ulteriore divieto di pesticidi se non sono ancora disponibili alternative” – a meno che non siano una minaccia per la salute umana o per l’ambiente – e, nel quarto trimestre 2025, nel pacchetto di semplificazione, “presenterà una proposta che accelera l’accesso dei biopesticidi al mercato dell’Ue“. Infine, sulle condizioni di vita, Bruxelles creerà un piano d’azione rurale per garantire che le zone rurali rimangano dinamiche e avvierà un dialogo alimentare annuale con consumatori, agricoltori, industria e autorità pubbliche.

La Politica agricola comune “resta essenziale per sostenere il reddito degli agricoltori“, si legge nella Visione. Guardando al futuro, la Commissione proporrà, nel secondo trimestre del 2025, un pacchetto completo di semplificazione della Pac per ridurre la burocrazia, semplificare i requisiti e il supporto alle aziende di piccole e medie dimensioni e rafforzare la competitività. E nella Pac post-2027 – i cui dettagli saranno presentati nel corso dell’anno – “il sostegno dovrebbe essere ulteriormente indirizzato verso quegli agricoltori che ne hanno più bisogno, con particolare attenzione agli agricoltori nelle aree con vincoli naturali, ai giovani e ai nuovi agricoltori e alle aziende agricole miste“, precisa la Visione.

Draghi all’Ue: “Abbiamo forza di risposta, ma dobbiamo agire come un unico Stato”

Sprona l’Unione europea ad agire, e velocemente, e i Ventisette a muoversi come un solo Stato, perché “non c’è alternativa“. Ruota attorno a un perno preciso il discorso al Parlamento europeo, a Bruxelles, dell’ex presidente del Consiglio italiano, Mario Draghi: l’unità. “Se uniti, saremo all’altezza della sfida e avremo successo“, conclude il suo discorso.

Il ritmo dei progressi nell’intelligenza artificiale“, che sono rapidi e avvengono per la maggior parte “fuori dall’Europa“; “i prezzi del gas naturale” che “rimangono altamente volatili”; “l’ascesa della Cina” cui si aggiungono le “tariffe da parte della nuova amministrazione Usa”; la vulnerabilità del “nostro sistema di difesa, dove la frammentazione della capacità industriale lungo linee nazionali impedisce la scala necessaria“. I punti fragili emersi da quando il rapporto Draghi sulla competitività è stato pubblicato sono molteplici. “Ma il senso di urgenza di intraprendere il cambiamento radicale che il rapporto sosteneva è diventato ancora più forte“, precisa agli eurodeputati e ai rappresentanti dei Parlamenti nazionali riuniti per la settimana parlamentare europea. In tale contesto, dunque, per l’ex presidente della Banca centrale europea “è sempre più chiaro che dobbiamo agire sempre di più come se fossimo un unico stato” e la risposta deve essere “commisurata alla portata delle sfide” e “focalizzata sui settori che guideranno un’ulteriore crescita“.

Dunque, l’Ue deve creare le condizioni “affinché le aziende innovative crescano in Europa” e “ciò significa abbattere le barriere interne, standardizzare, armonizzare e semplificare le normative nazionali e spingere per un mercato dei capitali più basato sul capitale azionario“. E l’Ue deve “abbassare i prezzi dell’energia“, un “imperativo non solo per le industrie tradizionali, ma anche per le tecnologie avanzate“. Ciò significa riforma del mercato energetico; trasparenza molto maggiore nel commercio di energia; uso più esteso di contratti energetici a lungo termine e acquisti a lungo termine di gas naturale, massicci investimenti in reti e interconnessioni; un’installazione più rapida delle energie rinnovabili; investimenti nella generazione di base pulita e soluzioni flessibili. “Allo stesso tempo, dobbiamo garantire parità di condizioni per il nostro innovativo settore delle tecnologie pulite in modo che possa beneficiare delle opportunità della transizione“, osserva. Mentre sull’automotive specifica che “non si può forzare lo stop ai motori a combustione e, allo stesso tempo, non imporre, con la stessa forza, l’installazione di sistemi di ricarica e non creare le interconnessioni per farlo“.

Draghi promuove la Bussola della Competitività della Commissione – i suoi obiettivi sono “pienamente in linea con le raccomandazioni del rapporto” – ma sottolinea che “ora è importante che alla Commissione venga fornito tutto il supporto necessario” perché “le esigenze di finanziamento sono enormi” e “quella di 750-800 miliardi di euro all’anno è una stima prudente“. Perciò “dobbiamo emettere debito comune e deve essere per definizione sovranazionale“. Un punto su cui l’ex premier non ha dubbi. Così come non ne ha sul welfare: “Per avere una maggiore crescita della produttività, non è necessario distruggere il modello di welfare sociale“.

Su tutto, però, serve volontà politica. “A una riunione dell’Ecofin, tempo fa, ho detto: Dite no al debito comune, dite no al mercato unico, dite no alla creazione dell’unità del mercato dei capitali. Non potete dire di no a tutto”. Di cosa sia meglio fare “non ho idea. Ma fate qualcosa“, incalza.

Commercio, l’andamento di import ed export Ue nel 2024

Le prime stime del saldo commerciale dell’area dell’euro hanno mostrato un surplus di 15,5 miliardi di euro negli scambi di beni con il resto del mondo a dicembre 2024, rispetto ai +16,4 miliardi di euro di dicembre 2023. Le esportazioni di beni dell’area dell’euro verso il resto del mondo a dicembre 2024 sono state di 226,5 miliardi di euro, con un aumento del 3,1% rispetto a dicembre 2023 (219,7 miliardi di euro). Le importazioni dal resto del mondo sono state di 211 miliardi di euro, con un aumento del 3,8% rispetto a dicembre 2023 (203,3 miliardi di euro). Sono i dati di Eurostat, l’Ufficio statistico europeo. Nell’infografica INTERATTIVA di GEA sono prese in considerazione le variazioni percentuali mese per mese di import ed export, del 2024 sul 2023.
Tajani

Dazi, Ue risponderà ma è aperta a dialogo con Usa. Tajani: “Noi buoni ambasciatori”

L’Unione europea risponderà ai dazi del presidente Usa, Donald Trump. Da giorni e a più livelli, Bruxelles sta sostenendo la stessa posizione e l’ultima a puntellarla è stata la presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, che da Monaco, dal palco della Conferenza sulla Sicurezza, ha scandito: “Le guerre commerciali e tariffe punitive non hanno senso”. Un concetto ribadito anche dal vice premier, Antonio Tajani. In partenza per Monaco, il ministro degli Affari esteri ha evidenziato che “le guerre commerciali non portano vantaggio a nessuno” e che l’Italia, “in cui il 40% del Pil viene dall’export”, non ha “alcun interesse che ci siano”. Anzi, “dobbiamo scongiurarle”, ha aggiunto. “Vedremo il da farsi” e “tutte le decisioni le prenderemo come Unione europea”. Ma rimanendo aperti al dialogo con Washington e, qui, l’Italia può fare da ponte tra le due sponde dell’Atlantico: “È ovvio che bisogna trattare come Europa. Noi possiamo essere dei buoni ambasciatori dell’Ue”, ha affermato.

La volontà di dialogo c’è. A Monaco, von der Leyen ha osservato che “le tariffe agiscono come una tassa, stimolano l’inflazione” e “i più colpiti sono inevitabilmente i lavoratori, le aziende, i redditi bassi e le classi medie su entrambe le sponde dell’Atlantico”. Inoltre, “le tariffe possono rapidamente influenzare le catene di fornitura transatlantiche essenziali”. A tutto ciò, che per l’Ue “non è un buon affare”, Bruxelles risponderà. Siamo uno dei mercati più grandi del mondo. Useremo i nostri strumenti per salvaguardare la nostra sicurezza economica e i nostri interessi e proteggeremo i nostri lavoratori, le nostre aziende e i consumatori a ogni svolta”, ha dichiarato la presidente della Commissione. Ma, “naturalmente, siamo pronti a trovare accordi che funzionino per tutti per lavorare insieme per renderci reciprocamente più prosperi e sicuri”, ha evidenziato.

E sul piano del dialogo si registra qualche movimento. Nella conferenza stampa quotidiana dell’esecutivo Ue, il portavoce al Commercio, Olof Gill, ha precisato che, “senza entrare nei dettagli di ciò che sarà o meno incluso nell’ambito dei colloqui tra l’Ue e gli Usa per trovare soluzioni ad alcune delle questioni commerciali”, ciò che si può dire è che “i contatti sono in corso: ci sono stati questa settimana a livello di responsabili politici e l’intenzione è di continuare a farlo nei giorni e nelle settimane a venire per trovare soluzioni reciprocamente vantaggiose”.

Un dialogo che appare complesso. L’Ue – che “mantiene alcune delle tariffe più basse al mondo” e ha “oltre il 70% delle importazioni che entrano a tariffa zero” nel suo mercato unico – considera la politica di Trump “un passo nella direzione sbagliata” e “non vede alcuna giustificazione per l’aumento delle tariffe statunitensi alle esportazioni” europee. Nella dichiarazione ufficiale di venerdì mattina l’esecutivo Ue ricorda che “per decenni l’Ue ha lavorato con partner commerciali come gli Stati Uniti per ridurre le tariffe e altre barriere commerciali in tutto il mondo, rafforzando questa apertura attraverso impegni vincolanti nel sistema commerciale basato su regole, impegni che gli Stati Uniti stanno ora minando”. Nelle righe ufficiali, Palazzo Berlaymont non fa accenno al dialogo, ma piuttosto specifica che “l’Ue reagirà fermamente e immediatamente”. Ma, prima ancora che ai dazi, sembra che Bruxelles si trovi a dover rispondere a una pratica politica ed economica che dice di non comprendere. Ed è da questo punto di partenza che dovrà dialogare.

Von der leyen

Von der Leyen: “Spese militari fuori dal patto di stabilità”. Crosetto: “Vittoria italiana”

Più spese per la difesa in Europa. Ursula von der Leyen propone di attivare la clausola di salvaguardia generale dal Patto di Stabilità, proprio come è accaduto negli anni del Covid, per permettere ai Paesi membri di avere più spazio di manovra per le proprie risorse. Un’autorizzazione ad aumentare il debito e sopravvivere in un momento eccezionale di crisi.

Una proposta analoga per affrontare gli investimenti green e non considerarli ai fini del debito è stata però respinta in passato. In altre parole: flessibilità concessa sulle armi, non sulla maxi-sfida della transizione. “Credo che ora siamo in un periodo di crisi che giustifica un approccio simile”, spiega la presidente della Commissione europea da Monaco di Baviera, assicurando che questo aumento di spesa dei singoli Stati sulla difesa sarà “controllato e condizionale”. Per un massiccio pacchetto, a ogni modo, servirà un “approccio europeo nel definire le nostre priorità di investimento“, sottolinea von der Leyen che, nella stessa ottica, promette un lavoro più intenso per accelerare il processo di adesione dell’Ucraina all’Unione. “Abbiamo già fatto progressi significativi, ma ora è di nuovo il momento di spostare le montagne”, chiosa.

Bene l’approccio per il governo Meloni. L’Europa dovrà “essere protagonista” nel processo di pace in Ucraina, mette in chiaro Antonio Tajani, precisando che l’Unione “dovrà fare ancora di più per quanto riguarda la difesa”. Bisognerà, per l’esecutivo di Roma, aumentare la spesa a livello comunitario, ma anche a livello italiano per rispettare gli impegni con la Nato. L’obiettivo minimo è il 2%, ma, sottolinea il ministro degli Esteri, “sappiamo bene che la Nato poi chiederà ancora di più”. Von der Leyen sta “recependo le nostre proposte”, rivendica.

Di “grande vittoria politica e diplomatica dell’Italia e del governo Meloni” parla Guido Crosetto, che confessa: “L’annuncio della presidente von der Leyen è sempre stata una mia vera ossessione, la necessità di scorporare le spese della difesa dal Patto di Stabilità che impone, alla Ue, e da decenni, rigide regole e vincoli di bilancio per gli Stati che ne sono membri”. Sin dall’inizio del suo mandato, ricorda il ministero della Difesa, Crosetto ha sostenuto la necessità di escludere dal Patto di Stabilità gli investimenti in sicurezza e impedire che possano intaccare o indebolire le spese dei singoli Stati in salute, istruzione, welfare. E’ un primo passo, ma non basta, avverte il titolare della Difesa. L’Italia è “pronta a fare la sua parte”, garantisce, per un’Europa “più sicura e autorevole, ma anche più salda nei suoi principi democratici e di benessere collettivo per i suoi cittadini, nel nostro continente come nel mondo”.

Lo scorporo degli investimenti in Difesa, indica Palazzo Chigi, dovrà essere seguito anche dall’istituzione di strumenti finanziari comuni. “Il Governo italiano è pronto a lavorare costruttivamente con le istituzioni europee e con gli altri Stati membri per raggiungere insieme questi importanti obiettivi, a partire dalla prossima presentazione del Libro bianco della difesa dell’Ue”.

autostrade

Il nodo delle multe nel dialogo Ue sulle auto: i produttori chiedono flessibilità e gradualità target

Il Dialogo strategico sul futuro dell’automotive, lanciato il 30 gennaio dalla presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, entra nel vivo. Mercoledì e giovedì ci saranno due incontri con il settore: il primo è quello del commissario europeo al Clima, Wopke Hoekstra, sul gruppo di lavoro tematico ‘Transizione pulita e decarbonizzazione’, il secondo è quello della vice presidente per i Diritti sociali e le competenze, Roxana Mînzatu. La prossima settimana toccherà, poi, ai vicepresidenti della Commissione europea, Henna Virkkunen, per la Sovranità tecnologica e Stéphane Séjourné, per la Strategia industriale. Una tabella di marcia serrata, dunque, verso il 5 marzo quando il commissario ai Trasporti sostenibili, Apostolos Tzitzikostas, presenterà – su incarico di von der Leyen – il Piano d’azione globale per l’automotive.

Il nodo ora è sulle multe per i produttori che non dovessero rispettare i target di riduzione della Co2 per il 2025: per le automobili di 93,6 g Co2/km tra il 2025 e il 2029 e di 49,5 g Co2/km tra il 2030 e il 2034; per i furgoni di 153,9 g Co2/km tra il 2025 e il 2029 e di 90,6 g Co2/km tra il 2030 e il 2034, verso l’obiettivo del 2035 di emissione di Co2 per l’intera flotta Ue di 0 g Co2/km. L’Acea, l’associazione dei costruttori europei di automobili, ha sottolineato l’urgenza di trovare una “soluzione rapida” al rischio di una diffusa non conformità dei produttori ai nuovi requisiti di Co2 per il 2025 e, potenzialmente per il 2026, che farebbe scattare delle sanzioni, già da quest’anno, stimate in 16 miliardi di euro.

Secondo il settore, ci sono due possibilità. La prima riguarda l’introduzione di una fase graduale che prevede il 90% dei veicoli conformi ai target per il 2025 e il 95% per il 2026. Si tratterebbe di un un meccanismo “già utilizzato in passato – spiega una nota dell’Acea – per consentire una transizione più fluida al successivo periodo di conformità” e che vincolerebbe la Commissione Ue a riaprire il regolamento delle emissioni di Co2 con la revisione già prevista per il 2026. La seconda ipotesi è l’introduzione di un meccanismo di conformità media per il 2025-2029 per garantire “un calcolo flessibile” del rispetto dei target “che rifletta lo sviluppo del mercato e le possibili fluttuazioni e mantenga i requisiti di riduzione complessivi per gli anni dal 2025 al 2029“, spiega Acea. A quanto si apprende a Bruxelles, poi, un altro tema sul tavolo è il ruolo delle auto a tecnologia ibrida plug-in, magari come soluzione ponte da qui al 2035 anche se, secondo alcune indiscrezioni della settimana scorsa di Der Spiegel, la loro vendita post-2035 potrebbe essere presa in considerazione dall’Ue per aiutare il mercato nella transizione.

Infine, va ricordato che, a inizio gennaio, sono state presentate alla Commissione europea due dichiarazioni di intenti a formare ‘pool’ aperti tra case automobilistiche. E’ la possibilità che il regolamento Ue dà alle aziende di raggrupparsi così da essere considerate “alla stregua di un unico costruttore ai fini dell’adempimento dei loro obblighi” sul taglio delle emissioni. Un meccanismo che produce, nei fatti, una sorta di compensazione interna al gruppo tra chi rispetta pienamente i target di riduzione e di vendita di auto elettriche e chi meno, evitando le multe, e un lavoro collettivo per arrivare agli obiettivi. Entrambe le dichiarazioni di intenti – la prima con Tesla capofila e 16 produttori; la seconda con 5 marchi e presentata da Mercedes Benz AG – riguardano il 2025 e le aziende hanno tempo fino al 31 dicembre 2025 per formalizzare i pool.

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Allarme Onu: 95% Paesi ritardano consegna piani su obiettivi climatici

Quasi 200 paesi in tutto il mondo hanno avuto tempo fino ad oggi per presentare all’Onu la loro nuova tabella di marcia sul clima. Ma quasi tutti hanno saltato l’appuntamento, alimentando il timore di un ‘attendismo’ delle principali economie nella loro lotta contro il cambiamento climatico dopo il ritorno di Donald Trump. Secondo un database delle Nazioni Unite, solo 10 firmatari dell’accordo di Parigi hanno presentato le loro strategie aggiornate per ridurre i gas serra entro il 2035 entro la scadenza del 10 febbraio.

Di fatto, mentre il Regno Unito, la Svizzera e il Brasile (che ospiterà la COP30 a novembre) hanno presentato i loro piani, altri mancano all’appello, e non ultimi: Cina, India e Unione Europea, ad esempio. Quanto al piano presentato dagli Stati Uniti sotto l’amministrazione Biden, è probabile che resti lettera morta, vista la rielezione di Donald Trump, che ha annunciato un nuovo ritiro del suo Paese dall’accordo di Parigi. Questo ritiro è “chiaramente una battuta d’arresto” per la diplomazia climatica e potrebbe spiegare l’atteggiamento attendista di altri paesi, afferma Ebony Holland del think tank International Institute for Environment and Development (IIED). “Sono chiaramente in corso importanti cambiamenti geopolitici che si stanno rivelando complicati per la cooperazione internazionale, soprattutto su grandi questioni come il cambiamento climatico“, ha osservato.

L’accordo di Parigi impone ai firmatari di rivedere regolarmente i propri impegni di decarbonizzazione, denominati “contributi determinati a livello nazionale” (NDC nel gergo delle Nazioni Unite). Questi testi spiegano nel dettaglio, ad esempio, come un paese intende procedere per sviluppare energie rinnovabili o abbandonare il carbone. Tali strategie mirano a riflettere la quota che ciascun Paese sta assumendo per contenere il riscaldamento globale ben al di sotto dei 2°C e a proseguire gli sforzi per limitarlo a 1,5°C rispetto all’era preindustriale. Per raggiungere questo obiettivo, le emissioni globali, che non sono ancora in calo, devono essere dimezzate entro il 2030.

Tuttavia, secondo l’Onu, le precedenti tabelle di marcia stanno portando il mondo, già più caldo di 1,3°C, verso un riscaldamento catastrofico compreso tra 2,6°C e 2,8°C. A questo livello, le ondate di calore, la siccità e le precipitazioni estreme, già in aumento, diventeranno estreme, accompagnate da un aumento delle estinzioni delle specie e da un innalzamento irreversibile dei livelli del mare. Il ritardo nella presentazione degli Ndc, i cui obiettivi non sono giuridicamente vincolanti, non comporta alcuna sanzione. Anche l’ONU sui cambiamenti climatici ha riconosciuto queste scadenze: il suo segretario esecutivo Simon Stiell, che descrive gli NDC come “i documenti di politica pubblica più importanti del secolo“, ha ritenuto “ragionevole prendersi un po’ più di tempo per garantire che questi piani siano della massima qualità“.

Secondo un funzionario delle Nazioni Unite, più di 170 paesi hanno dichiarato che intendono presentare i loro piani quest’anno, la maggior parte dei quali prima della COP30. “Al più tardi, il team della segreteria avrebbe dovuto riceverli entro settembre“, ha aggiunto il segretario esecutivo della Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (UNFCCC), durante un discorso pronunciato in Brasile. Alcuni paesi devono chiarire la loro visione, riconosce Linda Kalcher, direttrice esecutiva del think tank europeo Strategic Perspectives. Ma “ciò che preoccupa è che se troppi paesi restano indietro, si potrebbe dare l’impressione che non abbiano la volontà di agire“, teme.

Oltre al ritorno di Donald Trump, i leader di molti Paesi sono alle prese con l’inflazione, il debito o l’avvicinarsi di elezioni importanti, come in Germania. Anche l’Unione Europea si trova ad affrontare l’ascesa di partiti di estrema destra ostili alle politiche sul clima. Tuttavia, il blocco dei 27 paesi intende presentare la propria tabella di marcia “ben prima” della COP30 e intende continuare a essere “una voce preminente per l’azione internazionale sul clima“, ha assicurato un portavoce. Per quanto riguarda la Cina, il più grande inquinatore al mondo e il più grande investitore nelle energie rinnovabili, si prevede che quest’anno presenterà il suo attesissimo piano. Finora, secondo Climate Action Tracker, che critica gli ultimi aggiornamenti provenienti da Emirati Arabi Uniti, Stati Uniti, Nuova Zelanda e Svizzera, poche strategie si sono rivelate all’altezza. Secondo questo gruppo di ricerca, solo il Regno Unito se la cava bene.