Bollette, Pichetto: “Su nuovo dl per ora no elementi concreti. Cambiare meccanismo Ttf”

Sulle bollette il governo continua a lavorare per trovare una soluzione che allevi il peso dei rincari da famiglie e imprese. Il nuovo provvedimento, annunciato la settimana scorsa dal ministro dell’Economia, Giancarlo Giorgetti, in Senato non ha ancora visto la luce e difficilmente sarà in Consiglio dei ministri domani. Anzi, per la verità potrebbe non essere pronto nemmeno per la prossima.

Il testo è il più classico dei work in progress, come spiega il ministro dell’Ambiente e della sicurezza energetica. “Si sta lavorando, in questo momento non ci sono ancora elementi concreti”, dice Gilberto Pichetto. Sottolineando che il monitoraggio è a 360 gradi: “Stiamo osservando tutto, anche rispetto a ciò che sta accadendo sul gas: quando hai un’oscillazione di 7 euro a Megawattora ogni 3 giorni bisogna avere i fari bene accesi”, avverte.

Per l’esecutivo la situazione va comunque affrontata a livello europeo, se l’obiettivo è quello di avere risultati duraturi. “Si può agire sul gas o sulle bollette, ma visto che il gas pesa per il 70% sulle bollette, questo è uno degli elementi” su cui intervenire. Nel mirino c’è il Ttf di Amsterdam, quella che, semplificando, viene indicata come la ‘Borsa’ europea del gas. Il ragionamento di Pichetto parte dai dati dello scorso anno: “Nel 2024 il gas ha prodotto il 40% dell’energia elettrica, ma il famoso meccanismo europeo determina il prezzo sul peggior impianto e nel momento più critico. Ecco qual è il guaio: questo ‘accoppiamento’ ci è stato molto utile quando il gas era a 10, 12 o 15 euro, adesso invece ci sta tornando addosso come un boomerang”.

Dunque, il problema “non è risolvibile solo dicendo ‘ci metto i miliardi’. È tutta una questione di trattative, trovare i meccanismi rispetto al sistema elettrico che è molto interconnesso, dunque senza correre esageratamente il rischio di metterci i soldi e pagare l’energia agli altri”, mette in luce il responsabile del Mase. Che non si sbottona su una riduzione degli oneri di sistema per abbassare il costo delle bollette: “Sono comunque da pagare, ma questa è una domanda da fare a Giorgetti, non a me”.

In attesa del decreto, le opposizioni tornano ad attaccare. Matteo Renzi ripesca un vecchio post di Giorgia Meloni del 2022, quando criticò aspramente le misure del governo Draghi proprio per alleggerire il peso delle bollette. La premier, ai tempi in cui era capo dell’opposizione, scriveva: “Caro Bollette, aumento dei prezzi, famiglie e attività allo stremo. Problemi che denunciamo da mesi e sui quali il governo non è stato capace di intervenire. La guerra in Ucraina non sia la scappatoia dell’Esecutivo per fingere che i problemi nascano oggi. Hanno fallito”. Il leader di Iv commenta, fingendo volutamente che quelle parole siano attuali: “Giorgia Meloni per una volta dice la verità sul Governo. Sulle Bollette hanno fallito e non è colpa della Guerra. Viva la sincerità”.

Il Movimento Cinquestelle decide di protestare con un flash-mob organizzato da deputati e senatori, con il leader, Giuseppe Conte, davanti Palazzo Chigi. “Bollette alle stelle, caro-vita, salari bassi, produzione industriale in calo consecutivo da 23 mesi. Mentre chiudono ospedali e asili nido. E Giorgia Meloni che fa? Tace, scappando da ogni responsabilità. Gli italiani aspettano risposte subito”, accusa il presidente del M5S. Azione, invece, rimprovera al governo di contraddirsi, dando parere agli ordini del giorno del partito di Carlo Calenda sulla riduzione dei costi dell’energia: “Pubblicamente dichiara di impegnarsi sul tema, mentre al Senato è stato approvato un atto di indirizzo”, dice il capogruppo alla Camera, Matteo Richetti. Nel frattempo i numeri sono negativi. Un’analisi condotta da Facile.it evidenzia che nel 2024, sulla base dei consumi dichiarati di oltre 770mila utenze, “tra luce e gas, lo scorso anno gli italiani hanno pagato, mediamente, 2.130 euro”.

Caldaie a gas in quasi tutte le diocesi. Parte progetto Cei-Enea per risparmi energetici

In diocesi non si spreca nulla, neanche l’energia. A breve, una piattaforma aiuterà a identificare consumi e sprechi delle strutture ecclesiastiche, per realizzare un piano di interventi in grado di produrre risparmi economici, migliorare e valorizzare le architetture.

Il progetto ‘Energie per la Casa Comune‘, ispirato all’enciclica Laudato si’ di Papa Francesco, coinvolge per il momento 10 diocesi italiane, con l’obiettivo di promuovere una cultura della sostenibilità.

Nel dettaglio, nella prima fase del progetto sono stati analizzati 34 edifici fra scuole, laboratori, oratori, centri congresso, edifici residenziali, asili e piscine, per una superficie totale di 67.100 metri quadrati, mentre la superficie totale riscaldata è di 57.100 metri quadrati. L’analisi ha evidenziato che il 79% degli edifici è riscaldato con caldaie a gas naturale. I consumi energetici complessivi corrispondono a 4.100 MWh l’anno, equivalenti al consumo di energia elettrica di circa 1.520 famiglie.
Le principali esigenze di riqualificazione riguardano l’isolamento termico dell’involucro edilizio (71%), sostituzione generatore di calore (47%), riqualificazione del sistema di illuminazione (56%), pannelli solari termici per l’acqua calda sanitaria (24%), installazione di impianti fotovoltaici (74%).

Il progetto si inserisce nella campagna nazionale di informazione e formazione ‘Italia in Classe A‘, ideata dal ministero dell’Ambiente e attuata da Enea, con il supporto della Rete Nazionale delle Agenzie Energetiche Locali e la collaborazione della Conferenza Episcopale Italiana. Presto saranno coinvolti centri ecclesiastici dislocati su tutto il territorio nazionale.

Un “esempio virtuoso” di collaborazione tra istituzioni per il perseguimento di un obiettivo di interesse collettivo che guarda ai valori della solidarietà, della coesione e del bene comune, rivendica il ministro Gilberto Pichetto, che ricorda come ENEA, RENAEL e Cei siano già “preziosissimi partner” del Mase nella diffusione delle Comunità Energetiche Rinnovabili. “Nella ricerca di equilibrio tra etica e tecnologia, tra progresso e rispetto per la tradizione – spiega – questo progetto è un esempio di buone pratiche da seguire e diffondere, un messaggio di speranza e una chiamata all’azione per il bene del nostro ambiente che condividiamo e dobbiamo custodire come la nostra Casa Comune”.

Enea, fa sapere il direttore generale Giorgio Graditi, è impegnata su molti fronti per una transizione energetica “equa e sostenibile, che deve passare necessariamente attraverso un confronto e azioni comuni“. Quella dello sviluppo sostenibile, dell’attenzione agli stili di vita e alla conversione ecologica è “una strada che la Chiesa in Italia ha intrapreso con decisione e consapevolezza, a partire dalle indicazioni emerse dalla Settimana Sociale di Taranto e con la costituzione del Tavolo Tecnico sulle Comunità Energetiche Rinnovabili della Segreteria Generale”, sottolinea l’economo della Cei, don Claudio Francesconi. “Rispondendo alle sollecitazioni contenute nella Laudato si’ e agli appelli di Papa Francesco sul debito ecologico – aggiunge – abbiamo avviato un processo, a livello nazionale e territoriale, che è ormai irreversibile e indispensabile per le comunità: non ci si può pensare se non insieme e non si può ragionare considerando solo il presente e il contingente“.

Con questo percorso, si dimostra come il lavoro sul territorio, di prossimità, sia la “chiave di volta” per realizzare un futuro energetico sostenibile, per il presidente di Renael Piergabriele Andreoli, che si dice “fiero” di aver dimostrato attraverso ‘Energie per la Casa Comune’ come uno dei patrimoni immobiliari più importanti d’Italia possa diventare un “driver culturale per promuovere l’efficienza energetica e favorire un atteggiamento di maggiore attenzione verso l’efficientamento energetico di questi immobili”.

Fukushima

Clima, il Giappone punta a ridurre le emissioni del 60% entro il 2035 rispetto al 2013

Il Giappone si è impegnato a ridurre le emissioni di gas serra del 60% entro il 2035 rispetto al 2013, nell’ambito di un piano climatico con obiettivi ambiziosi, accompagnato da una revisione della strategia energetica. La quarta economia mondiale, ancora molto dipendente dai combustibili fossili e accusata di avere il mix energetico più inquinante tra le potenze del G7, si è già posta l’obiettivo di raggiungere la neutralità carbonica entro il 2050.

L’impegno annunciato oggi fa parte del nuovo “contributo determinato a livello nazionale” (NDC) che Tokyo, come tutti i Paesi firmatari dell’Accordo di Parigi sul clima del 2015, avrebbe dovuto presentare all’Onu entro il 10 febbraio. Secondo i dati delle Nazioni Unite, solo dieci dei quasi 200 paesi interessati lo hanno fatto in tempo.

L’obiettivo deve essere raggiunto nel corso dell’esercizio finanziario giapponese 2035, che si concluderà alla fine di marzo 2036. L’arcipelago mira inoltre a ridurre le proprie emissioni del 73% entro il 2040, sempre rispetto al 2013, ha precisato il Ministero giapponese dell’Ambiente. “Questi ambiziosi obiettivi sono in linea con l’obiettivo globale” previsto dall’Accordo di Parigi, che mira a limitare il riscaldamento globale a meno di 1,5°C rispetto all’era preindustriale, e rientrano nella prospettiva della “neutralità carbonica”, ha sottolineato il ministero.

Nel suo precedente contributo nazionale presentato all’Onu nel marzo 2020, il Giappone si era impegnato a ridurre le proprie emissioni solo del 26% entro il 2030, suscitando aspre critiche da parte di Ong ed esperti del clima. Di conseguenza, un piano più ambizioso, presentato nell’ottobre 2021, ha fissato un obiettivo di riduzione del 46% entro il 2030 rispetto al 2013.

Il nuovo obiettivo “è una grande opportunità mancata per mostrare al mondo la leadership del Giappone nella lotta contro il cambiamento climatico”, ha spiegato all’AFP Masayoshi Iyoda, responsabile per il Giappone dell’Ong ambientalista 350.org. “Gli scienziati hanno avvertito che il Giappone deve ridurre le sue emissioni dell’81% entro il 2035 per allinearsi all’ obiettivo di 1,5 °C. Il primo ministro Shigeru Ishiba ha ceduto alle pressioni dell’industria, che deve molto agli interessi dei combustibili fossili”, si è rammaricato, denunciando “un grave fallimento per una transizione verso un futuro di energia rinnovabile giusto ed equo”.

Le sfide per il Giappone sono enormi. Nel 2023, quasi il 70% del suo fabbisogno di elettricità era soddisfatto da centrali termiche a carbone e idrocarburi. Le importazioni di combustibili fossili, pari al 23% delle importazioni totali del Giappone, costano al Paese l’equivalente di circa 470 milioni di dollari al giorno, secondo i dati doganali giapponesi per il 2024. Per porre rimedio a questa situazione, il governo di Shigeru Ishiba ha annunciato a metà dicembre un progetto preliminare volto a rendere le energie rinnovabili la prima fonte di elettricità del paese entro il 2040, aumentando al contempo il ricorso al nucleare.

Tanto più che Tokyo punta a un aumento del 10-20% della produzione di elettricità del Paese entro il 2040, rispetto al 2023, a fronte di una domanda crescente legata in particolare all’intelligenza artificiale (IA) e alla produzione di semiconduttori. Questo ‘Piano strategico energetico’ è stato perfezionato e dettagliato martedì. Entro il 2040, secondo gli obiettivi adottati, le centrali termiche dovranno rappresentare solo tra il 30 e il 40% del mix elettrico giapponese. Al contrario, la quota di energie rinnovabili nella produzione di elettricità sarà aumentata fino a raggiungere il 40-50%, rispetto al solo 23% nel 2023. L’obiettivo precedentemente fissato era del 38%. Il contributo del solare al mix elettrico dovrebbe salire al 23-29% entro il 2040, quello dell’eolico al 4-8% e quello dell’idroelettrico all’8-10%, secondo le fasce dettagliate.

Inoltre, il nucleare dovrebbe rappresentare il 20% della produzione elettrica entro il 2040, più o meno l’obiettivo già fissato per il 2030, ma al di sotto del 30% che il nucleare civile rappresentava prima del 2011. Quattordici anni dopo la catastrofe di Fukushima, il Giappone vuole che l’energia nucleare svolga un ruolo importante nel soddisfare il crescente fabbisogno energetico. Il governo aveva chiuso tutte le centrali nucleari dell’arcipelago dopo questa tripla catastrofe (terremoto, tsunami, incidente nucleare) ma le ha gradualmente rimesse in funzione, nonostante le proteste, e prevede che tutti i suoi reattori esistenti saranno attivi entro il 2040.

Cannucce, lampadine e soffioni della doccia: la crociata di Trump per tornare al passato

Fornelli a gas, manopole per doccia, lampadine a incandescenza, cannucce di plastica… Da quando è tornato alla Casa Bianca, Donald Trump ha nel mirino le norme ambientali che riguardano molti oggetti di uso quotidiano, con il leitmotiv: “Era meglio prima”. Martedì, ad esempio, ha ordinato al suo governo di “tornare immediatamente” alle norme del suo primo mandato su “lavandini, docce, servizi igienici, lavatrici, lavastoviglie”. Il miliardario 78enne si lamenta da molti anni dei soffioni doccia che, secondo lui, hanno una portata d’acqua troppo bassa. “Se siete come me, non potete lavare bene i vostri bei capelli”, aveva detto nel 2020.

Durante il suo primo mandato, la sua amministrazione aveva emanato norme per consentire ai soffioni doccia di utilizzare più acqua, poi revocate dal suo successore Joe Biden. Negli ultimi anni, Donald Trump ha anche fatto campagna sull’idea che i democratici volessero vietare i fornelli a gas o le auto a combustione interna, e ne aveva fatto una questione di libertà di scelta per gli americani. Si oppone spesso anche alle lampadine a LED, che hanno gradualmente sostituito quelle a incandescenza nell’ultimo decennio. “Non sono una persona vanitosa”, aveva dichiarato nel 2019, “ma ho un aspetto migliore sotto una lampada a incandescenza invece che sotto queste luci da pazzi”. Con le nuove lampadine, “sembro sempre arancione”, aveva scherzato il presidente americano. Da qui l’annuncio di martedì di voler firmare un decreto per tornare agli “standard di buon senso sulle lampadine”.

Per Andrew deLaski dell’associazione Asap, le preoccupazioni di Donald Trump “sembrano obsolete”. “Oggi esiste una vasta gamma di prodotti moderni ed efficienti che sono tra quelli che funzionano meglio”, ha dichiarato il responsabile esecutivo di questa organizzazione che si batte per gli standard di efficienza energetica dei prodotti di uso quotidiano. Asap sottolinea, ad esempio, che le lampadine a LED “limitano i costi energetici per le famiglie e le imprese e riducono l’inquinamento”. Allo stesso modo, “gli standard sui soffioni doccia fanno risparmiare denaro ai consumatori sulle bollette dell’acqua e dell’elettricità e aiutano a proteggere l’ambiente”.

Ma la crociata del settantenne presidente, noto scettico del clima, sembra meno legata a ragionamenti ecologici o economici che a un attaccamento malinconico agli oggetti del passato. Dal suo clamoroso ingresso sulla scena politica americana nel 2015, il miliardario usa la nostalgia come una potente arma elettorale. “Donald Trump sembra capire – e forse è lui stesso sensibile a – queste spinte nostalgiche”, ritiene Spencer Goidel, professore di scienze politiche all’Università di Auburn (Alabama). Il ricercatore, che ha studiato la questione della nostalgia in politica, fa un parallelo con i gusti musicali. “La maggior parte degli americani pensa che il periodo migliore nella musica sia stato quello in cui erano giovani adulti”, dice, ricordando le canzoni migliori e dimenticando quelle cattive. “Nella società è la stessa cosa: i grandi uomini e le grandi donne della storia sono immortalati; gli uomini e le donne mediocri (a volte corrotti o incompetenti) sono dimenticati”. Non sorprende quindi che i responsabili politici si approprino del sentimento nostalgico, perché “elaborare un messaggio orientato al futuro è difficile”, sottolinea Spencer Goidel. “È molto più facile invocare un ritorno” alle cose di un tempo, aggiunge il ricercatore.

Lo slogan preferito di Donald Trump, “Make America Great Again”, vuole essere un richiamo al passato, volendo “restituire la grandezza all’America”. Se, secondo Spencer Goidel, “la nostalgia non è intrinsecamente democratica o repubblicana”, il suo lavoro condotto con altri ricercatori mostra che il sentimento è più “associato ad atteggiamenti razzisti e sessisti, a uno stato d’animo autoritario e a un voto repubblicano”. E secondo la sua ricerca, le persone che mostrano forti sentimenti nostalgici tendono maggiormente a “sostenere un uomo forte che infrange le leggi e disgrega le istituzioni”.

La Cina riprende a costruire le centrali a carbone: a rischio obiettivi climatici

Lo scorso anno la Cina ha avviato la costruzione di centrali termiche a carbone che rappresentano la più grande capacità combinata dal 2015, il che mette in dubbio il suo obiettivo di raggiungere il picco di emissioni di carbonio nel 2030. Pechino ha iniziato la costruzione di unità combinate con una capacità di 94,5 gigawatt (GW) nel 2024, pari al 93% del totale mondiale, secondo quanto riportato in un rapporto dal Centro di ricerca sull’energia e l’aria pulita (Crea), con sede in Finlandia, e dall’organizzazione americana Global Energy Monitor (GEM).

La seconda economia mondiale è il principale emettitore di gas serra, all’origine del cambiamento climatico, ma è anche all’avanguardia nel settore delle energie rinnovabili. Nel 2024 ha aggiunto 356 GW di nuova capacità eolica e solare, ovvero 4,5 volte di più dell’Unione Europea, secondo i dati ufficiali. Se il carbone è stato una fonte di energia essenziale in Cina per decenni, l’esplosiva crescita delle sue capacità eoliche e solari negli ultimi anni ha fatto sperare che il Paese possa abbandonare questo combustibile fossile altamente inquinante. La Cina ha annunciato di voler raggiungere la neutralità carbonica entro il 2060.

“La rapida espansione delle energie rinnovabili in Cina ha il potenziale per rimodellare il suo sistema elettrico, ma questa opportunità è compromessa dalla contemporanea espansione su larga scala dell’energia derivata dal carbone”, ammette tuttavia Qi Qin, autore principale del rapporto. Questo aumento si verifica nonostante l’impegno assunto dal presidente cinese Xi Jinping nel 2021 di “controllare rigorosamente” i progetti di centrali a carbone e l’aumento del consumo di carbone prima di “ridurlo gradualmente” tra il 2026 e il 2030.
La produzione di carbone è aumentata costantemente negli ultimi anni, passando da 3,9 miliardi di tonnellate nel 2020 a 4,8 miliardi di tonnellate nel 2024. “In assenza di urgenti cambiamenti politici, la Cina rischia di rafforzare un modello di energia aggiuntiva piuttosto che di transizione, limitando così il pieno potenziale del suo boom nel settore dell’energia pulita”, afferma il rapporto.

Le nuove autorizzazioni per progetti di centrali a carbone sono diminuite dell’83% nella prima metà del 2024, infondendo ottimismo per il ritmo della transizione energetica in Cina. Ma da allora la tendenza si è invertita. A novembre, un gruppo di esperti del Crea e del think tank australiano International Society for Energy Transition (ISETS) stimava al 52% che il consumo di carbone cinese avrebbe raggiunto il picco nel 2025.

Ma l’elettricità prodotta dal carbone è aumentata alla fine del 2024, nonostante un aumento delle capacità di energia rinnovabile sufficienti in linea di principio a coprire la crescita della domanda di elettricità. Questa evoluzione suggerisce che l’energia derivata dal carbone è preferita rispetto alle fonti rinnovabili in alcune regioni, secondo il rapporto.

Energia, avviata posa primo cavo sottomarino Tyrrhenian Link: opera pronta dal 2028

Un passo avanti per garantire la sicurezza energetica del Paese. A Fiumetorto, nel territorio di Termini Imerese, nel Palermitano, ha preso il via la posa del primo cavo sottomarino del ramo est dell’impianto Tyrrhenian Link, che collegherà Sicilia e Campania con due linee elettriche sottomarine in corrente continua a 500 kV, per un totale di 970 km di cavo e una capacità di trasporto di 1.000 MW per ciascuna tratta.

Si tratta di uno degli investimenti più importanti previsti dal piano industriale di Terna, che per l’opera ha stanziato 3,7 miliardi di euro e avrà anche un ramo ovest tra la Sicilia e la Sardegna. Il Tyrrhenian Link, peraltro, risponde alle esigenze previste dal nuovo Piano nazionale integrato per l’energia e il clima per alimentare il percorso di decarbonizzazione dell’Italia. Grazie all’infrastruttura, infatti, potrà essere incrementata la capacità di trasporto, favorendo così la transizione energetica, migliorando la sicurezza, l’adeguatezza e la flessibilità della rete elettrica di trasmissione nazionale.

Da un punto di vista industriale, poi, l’opera mette insieme due eccellenze del nostro Paese, perché la società guidata da Giuseppina di Foggia, lavorerà a stretto contatto con la Prysmian, azienda leader globale nel settore dei sistemi in cavo per l’energia e le telecomunicazioni, che avrà il compito di portare a termine la posa del cavo sottomarino lungo la tratta che va da Termini Imerese a Battipaglia, in provincia di Salerno. Passaggio che avverrà grazie all’ausilio della nave Leonardo da Vinci. Sarà una installazione da record per Prysmian, perché per la prima volta un cavo Hvdc verrà posato a una profondità di 2.150 metri, fissando nuovi standard di mercato.

Il ramo est del Tyrrhenian Link, inoltre, può contare sul finanziamento di 500 milioni di euro, che rientrano nel RePowerEu, il capitolo aggiuntivo del Pnrr dedicato proprio all’energia. Sul progetto sono puntate molte delle fiches dell’Europa, al punto che proprio un anno fa Terna siglò con la Banca europea per gli investimenti un contratto per l’ultima tranche del finanziamento da 1,9 miliardi di euro, destinato a supportare la costruzione e la messa in esercizio del collegamento. L’opera sarà operativa nel 2028, con l’entrata in servizio del primo polo del ramo est prevista per il 2026.

energia

Le rinnovabili nei trasporti in Ue

Nell’infografica INTERATTIVA di GEA, la quota percentuale di energia da fonti rinnovabili utilizzata nel settore traporti dei Paesi Ue. Secondo Eurostat, ha raggiunto il 10,8% nel 2023, con un aumento di 1,2 punti percentuali rispetto al 2022 (9,6%) ma comunque inferiore di 18,2 punti rispetto all’obiettivo del 29% per il 2030. Per raggiungere l’obiettivo sarebbe necessario un aumento medio annuo di 2,6 punti percentuali entro 5 anni. La Svezia è stato il Paese Ue con la quota più alta di energie rinnovabili nei trasporti e l’unico Paese ad aver già raggiunto l’obiettivo del 2030 (33,7%). Al secondo posto si è classificata la Finlandia (20,7%), seguita dai Paesi Bassi (13,4%) e dall’Austria (13,2%). L’Italia ha registrato il 10.2%. Al contrario, le quote più basse sono state registrate in Croazia (0,9%), Lettonia (1,4%) e Grecia (3,9%). I maggiori incrementi nell’uso di energia da fonti rinnovabili nei trasporti tra il 2022 e il 2023 sono stati registrati in Svezia (+4,9%), Austria e Portogallo (entrambi +2,5%), mentre i maggiori cali sono stati registrati in Lettonia (-1,7%), Croazia (-1,5%) e Romania (-0,9%)

Energia, blue economy e tecnologia: la ‘ricetta’ di Urso per lo sviluppo delle isole

Una popolazione sempre più in calo – circa il 10-15% in meno nei prossimi 20 anni – un ambiente “meno favorevole allo sviluppo economico”, costi energetici e logistici “strutturalmente più alti” e accesso ai servizi, come quelli socio-sanitari, più difficile. In audizione presso la Commissione parlamentare per il contrasto degli svantaggi derivanti dall’insularità, il ministro delle Imprese e del Made in Italy, Adolfo Urso, snocciola le difficoltà legate alla “discontinuità territoriale marittima” e annuncia che in Consiglio dei ministri arriverà “nei prossimi mesi” il collegato alla manovra economica che si chiama ‘Destinazione Italia‘, con l’obiettivo di “incentivare il flusso crescente di capitali stranieri” anche e soprattutto nelle isole maggiori e in quelle più piccole.

E se è vero, dice, che “i principali input produttivi che determinano la competitività delle imprese”, come “disponibilità delle aree utili, costo dell’energia e della materie prime, qualità e quantità della forza lavoro e del capitale umano” costano molto di più, “sul piano strategico solo il ruolo attivo dello Stato può consentire di invertire le condizioni di svantaggio delle isole, evitando sia gli errori fatti nel passato”.

Un ruolo, assicura, che ci sarà e sul quale il governo sta investendo e lo farà ancora di più. Tra i settori “più promettenti e su cui fare leva” ci sono quelli legati alla blue economy, che vanno dal turismo del mare alla pesca, dall’acquacoltura alla nautica da diporto. Ecco perché “è necessario rafforzare l’offerta integrata turistica del mare e del Made in Italy che si caratterizza per sostenibilità, qualità e forte integrazione con il settore dell’industria e della cultura”. Esiste in questo campo, dice Urso, “un’enorme potenzialità di ‘soft power'” legato ,“alla creazione di un brand turistico del made in Italy nel Mediterraneo”, connesso, ad esempio, anche agli stili di vita e alla dieta mediterranea.

Allo stesso tempo, però, le isole devono puntare anche verso “lo sviluppo e lo sfruttamento delle energie provenienti dal mare, sia fossili che rinnovabili”, che potrebbero portare a “un’intera filiera produttiva legata alla produzione industriale delle piattaforme galleggianti” e alla crescita di “settori a più alto contenuto tecnologico e con più margine di crescita competitiva per il futuro”. Come, ad esempio, la “farmaceutica, l’aerospazio, l’industria della difesa su cui necessariamente l’Europa e quindi anche il nostro paese dovrà investire di più”. Serve però, puntualizza Urso, che a Bruxelles “diventi centrale” il tema “dello sviluppo economico delle isole europee”, soprattutto nei “programmi finanziari della Commissione” e che, nello stesso tempo, ogni Regione “insulare o con forte presenza di insularità crei e aggiorni un preciso programma di sviluppo industriale”, in un’ottica di “collaborazione con i territori”.

Un esempio su tutti, spiega il ministro delle Imprese, è quello del Sulcis che può diventare “un esempio e un modello di sviluppo in Europa”. La Sardegna, dice, può ambire a un ruolo di primo piano “in un’ottica di autonomia strategica nel campo delle materie prime critiche”, anche “per la sua tradizione mineraria e industriale, per la conformità dell’isola e per la sua geolocalizzazione al centro del Mediterraneo”.

Trump a ruota libera a Davos: “Ue ci tratta male, la Fed tagli i tassi e l’Opec i prezzi”

Il presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, ancora contro l’Unione Europea. Durante un discorso da remoto al World Economic Forum di Davos, in Svizzera, ha definito la relazione commerciale tra le due entità “iniqua” e “molto ingiusta“. Nel senso che “dal punto di vista dell’America, l’Ue ci tratta in modo molto, molto ingiusto, molto male“. Trump ha ribadito le sue critiche a Bruxelles, lamentandosi delle difficoltà imposte a chi cerca di portare prodotti sul mercato europeo, pur evidenziando che, secondo lui, l’Unione Europea non ha alcun problema a vendere i suoi beni negli Stati Uniti. “Rendono molto difficile portare prodotti in Europa, e tuttavia si aspettano di vendere e vendono i loro prodotti negli Stati Uniti. Quindi abbiamo, sapete, centinaia di miliardi di dollari di deficit con l’Ue, e nessuno ne è contento. E faremo qualcosa al riguardo“, ha affermato il presidente, aggiungendo che in Europa “non prendono i nostri prodotti agricoli e non prendono le nostre auto, eppure ce ne mandano milioni. Impongono tariffe su cose che vogliamo fare. Abbiamo delle lamentele molto grandi con l’Ue“. Trump ha poi continuato a spingere perché i processi decisionali vengano accelerati. “Vogliono essere in grado di competere meglio, e non puoi competere quando non puoi superare il processo di approvazione più velocemente. Non c’è motivo per cui non possa andare più veloce. Sto cercando di essere costruttivo, perché amo l’Europa“, ha dichiarato.

Oltre alle questioni commerciali, Trump ha affrontato un altro tema caldo durante il suo intervento, ossia la politica monetaria della Federal Reserve. Pur non citando direttamente la Fed, Trump ha chiarito la sua intenzione di far abbassare i tassi di interesse, dichiarando: “Pretenderò che i tassi di interesse scendano immediatamente. E allo stesso modo, dovrebbero scendere in tutto il mondo. I tassi di interesse dovrebbero seguirci ovunque“. Un modo, secondo il presidente Usa, per mettersi alle spalle “la peggiore crisi inflazionistica della storia moderna, e tassi di interesse alle stelle per i nostri cittadini e persino per tutto il mondo. I prezzi dei prodotti alimentari e di quasi ogni altra cosa conosciuta dall’umanità sono andati alle stelle“, ha concluso Trump, anticipando una politica economica volta a ridurre i costi per i cittadini americani e rafforzare l’economia globale. Un obiettivo che non potrà passare dal raffreddamento dei prezzi petroliferi: “Chiederò all’Arabia Saudita e all’Opec di ridurre il costo del petrolio. Dovete abbassarlo“.

Effetto Trump su petrolio e Gnl: il greggio cala, il gas ritorna a 50 euro

Il giorno il giuramento di Trump e il giorno dopo le promesse del neo presidente degli Stati Uniti su petrolio e gas – “trivelleremo, baby, trivelleremo” e “esporteremo il nostro gas in tutto il mondo” – i mercati navigano a vista. Greggio e gas prendono direzioni opposte, ma il sottofondo non è dei più accomodanti. C’è come la sensazione che tutto possa succedere.

I contratti futures sul petrolio Brent hanno registrato oscillazioni intorno ai 79 dollari al barile, in calo dell’1% dopo la discesa di ieri, a seguito dell’annuncio di Trump riguardo l’intenzione di aumentare la produzione di petrolio e gas negli Stati Uniti, dichiarando un’emergenza nazionale. Un’importante misura proposta da Trump prevede l’introduzione di tariffe del 25% sulle importazioni provenienti da Canada e Messico, che entreranno in vigore il 1° febbraio. Questa proposta ha contribuito a smorzare le aspettative di un rallentamento nelle politiche commerciali, ma la decisione di rimandare l’introduzione di imposte sulle importazioni cinesi ha mantenuto i mercati in un’incertezza relativa. Oltre alle tariffe commerciali, gli investitori seguono con attenzione anche la possibilità che l’amministrazione Trump imponga nuove sanzioni contro importanti esportatori di petrolio come Russia, Iran e Venezuela. Parallelamente, comunque, un calo del rischio geopolitico ha contribuito a contenere le oscillazioni dei prezzi, soprattutto dopo il cessate il fuoco tra Israele e Hamas, che ha portato a un accordo sul rilascio degli ostaggi.

Sul fronte del gas naturale, i prezzi in Europa sono tornati con un balzo di quasi il 3% fino a 50 euro per megawattora. I flussi di gas naturale russo attraverso l’Ucraina sono stati interrotti all’inizio dell’anno, dopo che i due governi non sono riusciti a raggiungere un accordo, ma sebbene l’International Energy Agency abbia osservato che questa interruzione non rappresenti un rischio immediato per la sicurezza dell’approvvigionamento dell’Ue, si prevede un aumento delle importazioni di Gnl in Europa, con stime che indicano un incremento di oltre il 15% nel 2025. Attualmente, i livelli di stoccaggio del gas dell’Ue si aggirano intorno al 60% della capacità totale, con gli esperti che suggeriscono che la situazione potrebbe comportare una maggiore dipendenza dalle importazioni di Gnl nei prossimi anni. Anche perché, come ha riportato Bloomberg, Trump ha invitato l’Europa ad acquistare il suo gas, o saranno dazi.
Sul fronte americano, va infine specificato, che per i trader la revoca della moratoria sulle nuove licenze per le esportazioni di gas naturale liquefatto potrebbe aprire la strada a nuovi permessi, con un impatto potenzialmente positivo sulla domanda di Gnl da parte dell’Europa e dell’Asia. Magari a prezzi più bassi.