Roberto Cingolani

Cingolani: “Indipendenza dal gas russo? Dal prossimo anno”

Ormai è imperativo togliersi dai piedi il carbone, con cui si fanno funzionare le vecchie turbine, e quantomeno sostituirlo col gas da subito. Cosa che l’Italia ha già fatto da molto tempo, però altri Paesi purtroppo non lo hanno fatto“. Il ministro della Transizione ecologica, Roberto Cingolani, non usa mezzi termini e nemmeno giri di parole per esprimere ciò che gli sta a cuore. “Per avere un’idea: 1 kilowattora prodotto bruciando carbone oggi produce all’incirca 1.000 grammi di Co2, lo stesso kilowattora prodotto da gas, in termini di Co2 ne produce circa 300-350 grammi. Se si va con le rinnovabili, a seconda se sia solare o eolico, si va dai 30 ai 10 grammi di Co2. Poi c’è il nucleare, che ne produce dai 5 agli 8 grammi. Questo è il livello di sporcizia, di Co2, prodotta dai vari sistemi per kilowattora. L’equazione è facile si dovrebbe andare verso le rinnovabili immediatamente e quando ci saranno delle fonti sicure, forse, si potrà ragionare. Questa è la strada per avere elettricità pulita“, la riflessione tutta d’un fiato.

Ospite a ‘Green and Blue’, l’appuntamento sull’ambiente organizzato da Repubblica, il ministro della transizione ecologica affronta molti temi, compreso quello dell’indipendenza dalle forniture energetiche dalla Russia: “Indipendenza? L’anno prossimo è un po’ presto“, la constatazione di Cingolani. “Abbiamo accordi con sei Stati africani dove ci sono giacimenti in cui la nostra Oil&Gas nazionale ha investito – spiega -. Sono circa 25 miliardi di metri cubi che vanno a rimpiazzare, sostanzialmente, i 29-30 miliardi russi. La curva di queste nuove forniture parte quest’anno con qualche miliardo di metri cubi, 18 miliardi l’anno prossimo e circa 25 miliardi quando andrà a regime dal 2024“. L’orizzonte temporale è abbastanza definito: “Dovremmo essere in grado per il secondo semestre del 2024, ovvero l’inverno 2024-2025, di poter dire che non prendiamo più il gas dalla Russia“.

Queste nuove forniture sono diversificate, quindi ci danno un po’ più di respiro“, aggiunge Cingolani. Il ministro spiega poi che “consistono per circa la metà in gas immesso direttamente nei nostri gasdotti (che vanno da sud verso nord) e un’altra metà di gas liquefatto, che viene portato via nave. Per usare questo Gnl porteremo al 100% gli attuali 3 rigassificatori italiani, che lavorano al 60%. Poi ne installeremo due nuovi, galleggianti, dunque reversibili“. Inoltre, “è importante, vorrei far notare, che rimpiazziamo 30 miliardi metri cubi con 25 miliardi – afferma ancora Cingolani – La differenza è risparmiata sin d’ora grazie all’aumento delle rinnovabili, che in questo momento stanno salendo molto rapidamente, e a una politica di risparmio assolutamente non draconiana. Questo ci consente di dire che se riusciremo a finire gli stoccaggi di quest’anno secondo programma, saremo indipendenti dalla fornitura russa nell’arco di 30 mesi, mantenendo una rotta di decarbonizzazione al 55%: cosa non scontata e che credo, in questo momento, solo l’Italia in Europa può dire di essere in grado di fare“.

*in aggiornamento

Cittadini (Falck)

Cittadini (Falck Renewables-Next Solutions): “Necessario sburocratizzare e promuovere storage”

Incentivare uno sviluppo energetico sostenibile e implementare sistemi di gestione della produzione e consumo di energia efficienti e trasparenti. È l’obiettivo principale di Falck Renewables-Next Solutions, nata dall’esperienza del Gruppo Falck Renewables. A fare il punto con GEA sullo stato dell’arte in Italia delle rinnovabili e delle tecnologie di storage e sulle prospettive future è Marco Cittadini, Global Head di Falck Renewables – Next Solutions. E le sue idee sul tema sono chiarissime: bene gli incentivi, ma è necessaria una sburocratizzazione dell’iter autorizzativo per accelerare veramente la transizione energetica.

Negli ultimi mesi, complice l’invasione dell’Ucraina da parte della Russia, il tema della sicurezza energetica e dell’esigenza di passare a fonti rinnovabili è diventato di grande attualità. A che punto siamo in Italia?
“Tutti ci siamo resi conto della nostra dipendenza estrema dagli approvvigionamenti. La soluzione tecnologica c’è. Quello che limita, però, è l’elevata complicazione burocratica per avere l’approvazione negli uffici tecnici ed amministrativi. E’ una situazione a volte kafkiana. Il problema è quindi principalmente amministrativo ed autorizzativo, poiché l’industria di settore è più che pronta per fare più investimenti. Chiaramente lo sviluppo non può essere selvaggio, ma neanche ci può essere un veto di principio perché ci sono mille vincoli di diversa natura”.

Lato incentivi, però, l’Italia si è mossa… Non basta?
“Oggi ci vogliono 6-7 anni per approvare un progetto eolico, 3-4 anni per il solare, penso che questo sia un tema da gestire, non si può continuare così. Siamo lontani dagli obiettivi di penetrazione delle rinnovabili pre-guerra, oggi ci stiamo allontanando ancora di più. Il tema è poter fare le cose, non gli incentivi, visto che nella maggior parte dei casi le rinnovabili si sostengono ormai economicamente anche senza”.

Il sistema delle rinnovabili può essere considerato stabile e sicuro?
“Anche se fattibile dal punto di vista tecnico, con accumuli associati, non siamo ancora al punto in cui un impianto può fornire la propria energia in modo continuativo 24 ore su 24 in modo competitivo. Ma è anche una questione di regolamentazione e di valorizzazione economica della programmabilità pure per le rinnovabili. Se si spingesse di più in questa direzione… Mettere più incentivi sui sistemi di storage secondo me sarebbe il modo per rendere il sistema più stabile, sicuro e moderno”.

Lo storage, appunto. Una tecnologia che permette di accumulare l’energia da rinnovabili e utilizzarla nel momento del bisogno…
“Le rinnovabili ci piacciono perché sono più economiche e pulite delle fonti fossili, ma hanno lo svantaggio di non essere programmabili, ovvero non possono essere garanti a priori i momenti in cui producono. La soluzione è inserire sistemi di storage che accumulino l’energia e la rilascino quando serve. Ci sono due posti in cui i sistemi di storage possono avere un valore elevato: il primo è sulla grande taglia, quindi impianti connessi alla rete e associati agli impianti. Il secondo è presso i punti di consumo. Per capirci, come la batteria che si mette in soffitta e associata all’impianto fotovoltaico di casa. Ma questo concetto varrebbe anche di più se la batteria fosse installata presso un’industria o un grande edificio, una fabbrica ad esempio, configurazione ad oggi non considerata dal regolatore”.

A questo proposito, voi avete appena presentato un nuovo prodotto, Energy Storage Next Generation, il sistema di storage pre-ingegnerizzato per gestire fino a 5.8 MWh a blocco. In cosa consiste e quali sono i vantaggi?
“Spesso, quando si deve costruire un progetto o un impianto da zero, non è facile. Soprattutto adesso, con i problemi di approvvigionamento che ci sono e con la catena bloccata, diventa complesso avere una soluzione che possa essere flessibile e adeguata alle esigenze specifiche, senza ogni volta reinventarsi tutto. Quindi abbiamo messo a punto un sistema che ha una logica simile a quella dei Lego: può essere facilmente disegnato e gestito e c’è la possibilità di inserire batterie anche di diversi fornitori rendendo flessibile la parte di approvvigionamento e anche la dimensione dell’impianto. Non c’è solo un tema di dimensione ma anche di facilità di installazione, i moduli possono essere messi in molti modi rendendola più versatile. Peraltro, abbiamo messo a punto delle soluzioni software abbastanza avanzate grazie alla collaborazione tra due università italiane e Saet, società di Padova che fa parte del nostro gruppo e che, grazie alla sua esperienza nel settore, risulta una dei principali player nello storage a livello europeo. Tali soluzioni permettono di controllare le batterie in relazione all’universo con cui si stanno confrontando: il mercato energetico di quel momento e i servizi che la batteria può erogare”.

Quindi, in sintesi, quali sono le prospettive per il futuro?
“Noi abbiamo l’ottimismo nel Dna. Il futuro speriamo sia buono, ma penso che i fondamentali già ci siano”.

microsensore

In arrivo il sensore per il monitoraggio smart dei consumi

Una delle sfide per un’elettrificazione basata su reti elettriche intelligenti e fonti rinnovabili è la realizzazione di componenti e sistemi elettronici in grado di supportare in modo efficiente trasferimenti di energia e di informazione complessi e che possano essere usati, ad esempio, sui veicoli elettrici e nelle nostre case“. Così Aldo Romani, docente del Centro di ricerca sui sistemi elettronici per l’Ingegneria dell’Informazione e delle Telecomunicazioni ‘Ercole De Castro’ dell’Università di Bologna, responsabile scientifico locale del progetto europeo ‘Progressus‘. Proprio nel laboratorio di ricerca congiunto con STMicroelectronics è nato un nuovo sensore microelettronico di corrente in grado di ottenere tempi di risposta 20 volte più rapidi rispetto ai dispositivi oggi in commercio. Un dispositivo innovativo che potrebbe trovare applicazioni nei settori delle energie rinnovabili e delle auto elettriche, favorendo una maggiore efficienza energetica, e più in generale potrebbe promuovere il monitoraggio intelligente dei consumi di energia, incentivando il risparmio energetico, con una conseguente riduzione delle emissioni di gas serra. “Per affrontare la sfida della miniaturizzazione in questi ambiti è fondamentale sviluppare componenti elettronici per il trasferimento e il monitoraggio dell’energia operanti a frequenze di commutazione sempre maggiori, quindi più velocemente: in questo modo è possibile utilizzare componenti più piccoli e leggeri“, precisa Romani.

ELETTRICITÀ E MAGNETISMO

Lo sviluppo proposto dal laboratorio di ricerca UniBo-STMicroelectronics è quello sui sensori di corrente a effetto Hall, ovvero in grado di misurare correnti elettriche sfruttandone il magnetismo. Le nuove tecnologie richiedono che i sensori di corrente lavorino sempre più velocemente ed è proprio qua che entra in gioco l’innovazione introdotta dai ricercatori emiliani. “Invece di leggere la tensione che si sviluppa ai bordi del sensore a causa dell’effetto Hall, cerchiamo di annullare quella tensione, prelevando le cariche elettriche che si accumulano nel sensore ed andando a ‘contarle’: questo permette di eliminare gli effetti che rallentano il sistema e che sono legati alla presenza di accumuli di carica elettrica“, spiega Marco Crescentini, ricercatore dell’UniBo e responsabile dello sviluppo del nuovo sensore.

LE APPLICAZIONI POSSIBILI

Il nuovo dispositivo può trovare applicazioni importanti nei settori delle energie rinnovabili e dell’automotive, per lo sviluppo di sistemi per la conversione di energia sempre più efficienti ed intelligenti. Ma non solo: può essere utilizzato anche come sistema di sicurezza, perché la sua grande velocità permette di rilevare la presenza di correnti eccessive ed evitare in modo tempestivo seri danni ai circuiti elettrici. Inoltre, combinando il sensore con tecniche di machine learning è possibile realizzare un sistema collegato ad un singolo punto di ingresso di una rete elettrica (ad esempio il quadro principale di un’abitazione) in grado di rilevare i consumi dei vari carichi elettrici e distinguerli tra loro: un modo per creare sistemi di monitoraggio energetico sempre più semplici e meno costosi.

Energia, Cingolani: Alleanza globale come Covid. Nucleare utile

Il tetto europeo al prezzo del gas è un’ottima notizia, ma la strada da percorrere è ancora lunga. Ne è consapevole il ministro della Transizione ecologica, Roberto Cingolani, che mette in fila tutte le varianti per uscire dalla dipendenza russa (“letale per l’economia“) e avviare una nuova strategia energetica che metta al riparo da speculazioni e oscillazioni del mercato, soprattutto quelle speculative. Perché ormai “siamo già in recessione“. Alla base di tutto, però, c’è la necessità di creare una alleanza globale” anche per l’energia, sulla falsariga di quanto avvenuto in questi anni per contrastare la pandemia: “Avevamo detto che per sviluppare un vaccino per il Covid ci volevano 8-10 anni, ma abbiamo collaborato e l’abbiamo sviluppato in 8 mesi“, è l’esempio che porta il ministro. Anche perché la guerra in Ucrainaavrà un forte impatto sulla transizione ecologica“, avverte. Ricordando che “la grande sfida” in questa fase storica è “mantenere la barra dritta, investire nelle nuove tecnologie e rivedere le regole di mercato, altrimenti arriveremo al 2030 inadatti ad accogliere le sfide della decarbonizzazione“.

Le responsabilità, però, hanno un passato lungo. “Avremmo dovuto avere una visione più chiara – sottolinea Cingolani – avremmo dovuto essere più intelligenti per gestire al meglio il mix energetico“, ecco perché “è ora di cambiare“, servono “fonti verdi programmabili ed è necessario lo sviluppo di nuove tecnologie” nell’ambito “della cattura del carbonio, della fusione nucleare, di piccoli reattori moderni“. Già, quel nucleare che fa sobbalzare dalla sedia associazioni e partiti politici, ma che nella sua accezione moderna è “una strada che va esplorata e considerata in questa fase“, secondo il ministro. “E’ un esempio di tecnologia utile, basata su materiali con radiazioni molto più basse” rispetto al passato e “gli stabilimenti possono essere costruiti off shore, funzionano, vanno bene, se vengono spenti non creano fenomeni pericolosi e dopo 30 anni vengono smantellati“, elenca. Ribadendo il concetto: “Si tratta di un sistema molto utile in una fase di transizione. Può essere una fonte importante, anche se non esclusiva” e soprattutto “offre molte opportunità“, quindi “è un bene investire in questo tipo di tecnologia“.

Perché la realtà dei fatti va guardata a 360 gradi e senza pregiudizi. Grandi alternative, al momento, non sono esplorabili, come l’energia delle onde, perché “quella derivata dal mare è troppo cara“. Anche se “buona e illimitata, non possiamo permetterci delle energie che siano così costose e difficili da produrre“, ammonisce Cingolani, che invece punta su “fonti accettabili anche in termini economici“. Per inciso, il responsabile del Mite conferma, ancora una volta, che in funzione della carenza di energia “molti Paesi stanno riprendendo le centrali a carbone“, ma all’Italia “questo non succederà“. Semmai occorre puntare su strumenti come il riciclaggio e la seconda vita dei prodotti, su cui “stiamo investendo molto“, perché “l’economia circolare è una risorsa fondamentale per la transizione energetica“.

Altro capitolo che resta cruciale è quello delle rinnovabili, su cui l’Italia mette diverse fiches nella strategia nazionale, anche se “il processo di transizione verso il sistema energetico decarbonizzato basato sulle fonti rinnovabili necessità di un rafforzamento e potenziamento Rete elettrica di trasmissione nazionale“, ammette Cingolani. Ricordando che il gestore del servizio elettrico nazionale, Terna, ha “una programmazione con investimenti per oltre 18 miliardi di euro nel decennio“. Il cerchio, infine, si chiude tornando al price cap, che una parte di maggioranza vorrebbe non solo europeo, ma anche nazionale sulla scorta di quanto fatto da Spagna e Portogallo. Modello che per il ministro “non è replicabile come formula nel nostro Paese“.

Oltre al problema dell’approvvigionamento energetico, l’Italia sconta anche altri effetti negativi dall’azione speculativa dei mercati e dal conflitto scatenato dalla Russia in Ucraina. Come quello dell’aumento dei prezzi dei carburanti. Finora il governo è intervenuto per mitigare l’effetto dei rincari ed è pronto a farlo ancora. Anzi, “è molto probabileche Palazzo Chigi vari nuovi provvedimenti a breve sulle accise, come anticipa ai microfoni di ‘RaiNews24‘ la sottosegretaria all’Economia, Maria Cecilia Guerra: “L’aumento – spiega – fa crescere anche il gettito dell’Iva“, che “non vogliamo mettere nelle casse dello Stato“, ma utilizzarlo per “tenere calmierato” il costo dei carburanti. La partita strategica, dunque, resta apertissima.

Energia, Ue cerca un accordo sull’embargo al petrolio russo

Restare uniti e approvare in fretta il sesto pacchetto di sanzioni contro la Russia, incluso l’embargo sul petrolio russo. E’ un appello all’unità quello che il presidente ucraino, Volodymyr Zelensky, ha fatto ai leader dell’UE nel suo intervento al Consiglio europeo straordinario in corso lunedì e martedì a Bruxelles. Rimanere uniti e non dividersi di fronte a Mosca, approvando “prima possibile” il sesto pacchetto di sanzioni contro il Cremlino.

Non senza difficoltà, l’embargo graduale sul petrolio russo è infine arrivato sul tavolo dei leader Ue riuniti in un Vertice straordinario dedicato alle conseguenze della guerra in Ucraina, sul fronte energetico e della difesa. Gli ambasciatori dei Ventisette Stati membri hanno raggiunto questa mattina – dopo settimane di impasse a livello tecnico – un accordo di massima per includere nella bozza di conclusioni del Consiglio europeo l’impegno sul sesto pacchetto di sanzioni, che fino a ieri non era neanche menzionato tra le conclusioni. Ma potrebbe non essere così facile. Rispetto alla proposta iniziale della Commissione Europea avanzata lo scorso 4 maggio (che prevedeva un embargo su tutto il petrolio, via mare e via oleodotto, greggio o raffinato), l’accordo di massima raggiunto dagli ambasciatori è al ribasso.

Il bando dovrebbe andare a colpire tutto il petrolio in arrivo in Ue via mare, che secondo le stime di Bruxelles rappresenta oltre due terzi delle importazioni di petrolio totali in arrivo in UE da Mosca. Bruxelles importa dalla Russia circa il 27% del proprio approvvigionamento di petrolio. Nell’accordo sono state previste dunque “alcune eccezioni temporanee per garantire la sicurezza dell’approvvigionamento di alcuni Stati membri”, ovvero si lascerà fuori per il momento il petrolio trasportato attraverso oleodotti per andare incontro alle resistenze di alcuni Paesi come l’Ungheria (ma anche la Slovacchia e la Repubblica Ceca) senza sbocco sul mare, che dipendendo dal greggio importato esclusivamente via oleodotto. L’accordo di massima è stato inserito nella bozza di conclusioni del Vertice che i leader dovranno approvare, ma i quando e i come di questo compromesso saranno lasciati alla definizione a livello tecnico.

L’unità e la rapidità dimostrate fino a questo momento nell’approvazione di cinque pacchetti di sanzioni contro la Russia – di cui uno è andato a colpire le importazioni di carbone – non si sono finora trovate anche sul sesto pacchetto, viste le difficoltà che alcuni Paesi come l’Ungheria trovano nel liberarsi definitivamente dal greggio russo. Proprio il primo ministro ungherese, Viktor Orban, al suo arrivo al vertice questo momento ha spento gli entusiasmi di tutti affermando senza mezzi termini che un compromesso sul pacchetto ancora non c’è. L’Ungheria si trova di fronte “a una situazione molto complessa”, ha ricordato, sottolineando che secondo lui è necessario “cambiare approccio” dell’UE sulle sanzioni alla Russia: “prima ci servono le soluzioni e poi le sanzioni”. Ha aggiunto di essere “pronto a sostenere il sesto pacchetto di sanzioni, se ci sono soluzioni per le forniture energetiche ungheresi”. Giusta la decisione di esentare gli oleodotti temporaneamente ma “se ci dovessero essere incidenti ai nostri oleodotti dobbiamo avere garanzia di forniture russe da altri canali”, ha spiegato ai giornalisti. Ulteriori garanzie finanziarie e di sicurezza energetica, in sostanza. A quanto si apprende, il premier Mario Draghi dopo l’intervento del presidente ucraino ha ribadito la necessità di “mantenere unità sulle sanzioni. L’Italia è d’accordo sul pacchetto, purché non ci siano squilibri tra gli Stati membri”. Poco ottimista di poter raggiungere un accordo già entro mercoledì, anche la presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen.Abbiamo lavorato sodo sul sesto pacchetto, ma ancora non ci siamo”, ha detto al suo arrivo al Vertice europeo a Bruxelles. Aggiunge di non avere “grandi aspettative” per raggiungere un accordo già “nelle prossime 48 ore, ma sono fiduciosa che poi ci possa essere una possibilità”, ha chiarito. Un appello all’unità ai leader è arrivato anche dalla presidente dell’Europarlamento, Roberta Metsola, nel rituale intervento di apertura del Vertice. “Spero davvero che oggi ci sia un accordo, non possiamo permetterci che non ci sia. Il nostro obiettivo deve rimanere quello di svincolarci dall’energia russa”, ha detto in merito al sesto pacchetto di sanzioni. Ai Ventisette ha ricordato che c’è “un limite a quanta flessibilità possiamo concedere senza perdere credibilità nei confronti delle nostre popolazione e apparire deboli di fronte a una Russia che, come sappiamo, non rispetta la debolezza”. Se sarà trovato l’accordo politico nella due giorni di Consiglio europeo, gli ambasciatori presso l’UE potrebbero chiudere il testo legislativo già in settimana.

Draghi sente Putin: “Ho chiesto lo sblocco del grano ucraino. Spiragli per la pace? Nessuno”

Il presidente del Consiglio Mario Draghi prova a fare da ‘ponte’ fra Putin e Zelensky. Un ruolo difficile, che potrebbe portare a un nulla di fatto. Ma la gravità della crisi umanitaria lo spinge comunque a fare un tentativo. In primis, per sbloccare il grano che si trova nei depositi in Ucraina. Perché “la crisi alimentare che sta avvicinandosi, in alcuni Paesi dell’Africa è purtroppo già presente, avrà proporzioni gigantesche e conseguenze umanitarie terribili”. Draghi aspetta fine giornata per fare il punto della situazione, dopo avere sentito telefonicamente Putin nel pomeriggio, durante una conferenza stampa densa di argomenti: dagli esiti del Consiglio dei ministri sull’andamento del Pnrr, passando per l’incontro con il presidente algerino Abdelmadjid Tebboune, fino, appunto, al colloquio con il presidente della Federazione russa.

E se per il presidente del Consiglio il tentativo di fare da intermediario era doveroso, proprio per la “gravità della crisi umanitaria che può toccare i più poveri”, è lui per primo a sapere di non avere “alcuna certezza che vada a buon fine”. Per ora, però, c’è un cauto ottimismo, visto che da Putin “c’è stata effettivamente una disponibilità a procedere” nella verifica della possibilità di un accordo tra Mosca e Kiev per lo sblocco dei porti ucraini in cui sono bloccate le navi con i carichi di grano pronti a partire verso il resto del mondo. Anche se il presidente russo non ha mancato di sottolineare che “la crisi alimentare è colpa delle sanzioni, perché la Russia non può esportare il grano”. Il prossimo passo sarà una telefonata di Draghi al presidente ucraino Zelensky, per vedere se c’è un’analoga disponibilità a procedere con il dialogo su questo tema.

Secondo Draghi, in ogni caso, la prima iniziativa esplorabile “è vedere se si può costruire una possibile collaborazione tra Russia e Ucraina sullo sblocco dei porti sul Mar Nero, dove sono depositati questi molti milioni di quintali di grano”. Insufficiente, per Putin, perché i fabbisogni sono molti di più. Ma per l’inquilino di Palazzo Chigi sarebbe già qualcosa: “Ho risposto di sbloccare almeno questo, altrimenti il rischio è che marcisca tutto questo deposito di grano. Per Putin sono bloccati perché minati dagli ucraini per impedire alle navi russe di attaccarli. La collaborazione deve essere quella, da un lato di sminare i porti, dall’altra garantire che non vengano attacchi durante lo sminamento. Non abbiamo parlato a lungo delle garanzie, perché non è ancora detto che le cose vadano avanti”.

La telefonata è stata anche l’occasione di parlare delle forniture di gas. Su questo fronte, Putin ha confermato la determinazione da parte di Mosca “a garantire l’approvvigionamento ininterrotto di gas naturale all’Italia, ai prezzi concordati nei contratti”. Se, quindi, su grano e sicurezza energetica sembrano aprirsi dei piccoli sprazzi di positività, sul fronte della pace l’impressione di Draghi è tranchant: “Ho visto spiragli? No, nessuno”.

Incontro del Presidente Draghi con il Presidente Tebboune a Palazzo Chigi. Foto Palazzo Chigi.

Energia, Tebboune da Draghi e Mattarella: Italia-Algeria firmano nuovi accordi

L’energia resta centrale nello scacchiere geopolitico internazionale. Soprattutto per l’Italia, uno dei maggiori importatori di gas e petrolio dalla Russia, che da subito ha guardato all’Africa per la strategia di diversificazione delle fonti di approvvigionamento energetico. Al centro del piano di Roma è stato posto subito l’accordo con l’Algeria, che dal 2023-2024 fornirà fino a 9 miliardi di metri cubi di gas per gli stoccaggi del nostro Paese. Un’amicizia di lunga data che ora diventa molto più stretta, ma non solo in campo energetico. Dopo la visita del premier, Mario Draghi, ad Algeri il mese scorso, ora è il presidente della Repubblica Algerina Democratica e Popolare, Abdelmadjid Tebboune, ad essere atterrato a Roma, per chiudere nuovi accordi che non riguardano solo le forniture di gas ma anche “nuovi orizzonti” sullo sviluppo delle rinnovabili, l’elettricità, lo scambio di informazioni finanziarie, la cooperazione culturale, le microimprese e il turismo.

Tebboune è stato ricevuto al Quirinale, dove il rapporto con il capo dello Stato, Sergio Mattarella, è forte. Granitico. “L’Algeria da tempo per l’Italia è un partner strategico per quanto riguarda l’energia, oltre che per diversi altri aspetti – dice infatti il presidente della Repubblica -. E noi siamo riconoscenti per l’ulteriore intensificazione di questa collaborazione, così come registrato, nei mesi scorsi, nei contatti intercorsi con il nostro governo”. Ma la collaborazione tra Italia e Algeria “si estende naturalmente alla ricerca di cooperare insieme nel segno della transizione ecologica, per intensificare la definizione e lo sviluppo delle forme di energia alternativa, rinnovabili, che consenta anche di dare una risposta alla crisi climatica che vi è nel mondo, attraverso l’unica strada percorribile”. Pensieri che coincidono perfettamente con quelli del presidente algerino: “Siamo disposti a dare l’Italia quanto ci chiede. C’è un accordo per delle esplorazioni congiunte tra Eni e Sonatrach, quindi ogni volta che la produzione viene aumentata la possiamo fornire all’Italia, che poi la manderà a tutta l’Europa”. Ma non solo, perché anche “sull’energia elettrica siamo d’accordo con gli amici italiani: ci sarà un collegamento marittimo dall’Algeria, con cui attraverso l’Italia potremo alimentare” il Vecchio continente.

Dopo i colloqui al Colle, la delegazione africana si è spostata a Palazzo Chigi, per la firma dei protocolli governativi d’intesa tra i ministri italiani degli Esteri, Luigi Di Maio, delle Infrastrutture e mobilità sostenibili, Enrico Giovannini, del Turismo, Massimo Garavaglia, e il vice ministro dello Sviluppo economico, Gilberto Picchetto Fratin, e gli omologhi algerini. Nell’incontro con Draghi è stato anche “esaminato un lungo elenco di progetti da intraprendere insieme”, spiega poi premier, sottolineando che “c’è stata una grande apertura a iniziare una collaborazione tra i nostri Paesi che sarà molto più estesa di quanto abbiamo mai fatto in passato”.

Il primo assaggio si è avuto sempre a Palazzo Chigi, dove alla presenza proprio di Draghi e Tebboune, il presidente di Sonatrach, Toufik Hakkar, e l’amministratore delegato di Eni, Claudio Descalzi, hanno firmato un Memorandum d’Intesa finalizzato all’accelerazione dello sviluppo di campi a gas in Algeria e alla decarbonizzazione attraverso idrogeno verde. La firma, fa sapere l’azienda “rappresenta un ulteriore tassello nel rafforzamento della cooperazione energetica tra Italia e Algeria ed è in linea con la strategia Eni di diversificazione delle fonti energetiche in un’ottica di decarbonizzazione”. Domani il presidente algerino vedrò di nuovo Mattarella, a Napoli, dove a Villa Rosebery parteciperà alla colazione offerta dal capo dello Stato. Il piano strategico dell’Italia, dunque, procede con passo costante.

Rinnovabili

PoliMi: “Il 2021 un anno sprecato per le rinnovabili”

1,3 Gigawatt. È la capacità di rinnovabili installata in Italia nel 2021. Tanto? Poco? Dipende. È molto più rispetto all’anno precedente, e allo stesso tempo è un tasso di installazione troppo debole per gli obiettivi di decarbonizzazione al 2030 e al 2050. Ma 1,3 Gigawatt – e qui viene il dato più curioso – equivale anche alla potenza che abbiamo perso fino ad oggi a causa dell’invecchiamento di impianti fotovoltaici installati oltre dieci anni fa, e mai rinnovati. In altre parole: installiamo oggi per colmare una perdita che potrebbe essere evitabile.

La proiezione è calcolata all’interno del Renewable Energy Report del Politecnico di Milano, appena pubblicato. Un report che, non a caso, ha parlato del 2021 come ennesimo “anno sprecato” per il mercato delle rinnovabili. Ma che indica il tema del revamping e del repowering delle installazioni esistenti come una delle leve per investire sul futuro in maniera integrata.

Anche perché il patrimonio di impianti ormai datati è grande. Il 75% delle potenza fotovoltaica oggi a disposizione in Italia è stata installata tra il 2010 e il 2013, nell’ambito degli incentivi del Conto Energia. Una stagione importante quella, “che ha avuto il pregio di farci prendere coscienza sul ruolo e sul potenziale delle rinnovabili nel mix energetico” spiega Davide Chiaroni, cofondatore dell’Energy&Strategy del Politecnico di Milano, “anche se, col senno di poi, un sistema di incentivazione forse troppo generoso”, che aveva portato in pochissimi anni a una corsa all’installazione improvvisa.

Una delle eredità di quella stagione”, continua Chiaroni, “è stata una diffusione sul territorio di progetti non sempre ben ottimizzati, spesso realizzati da imprese che installavano per la prima volta. Impianti che oggi producono tra il 6,2% e 8,5% in meno”. Diventa allora fondamentale intervenire per non perdere gli sforzi fatti. Con ricostruzioni, rifacimenti, riattivazioni e potenziamenti. “Anche perché dal punto di vista tecnologico” continua Chiaroni, “un impianto fotovoltaico oggi, a parità di superficie coperta, riuscirebbe a produrre oltre il 20% in più”.

Certo, non è semplice attivare una campagna di riqualificazione efficace. Soprattutto per stimolare chi, dieci anni fa, ha investito su taglie di impianti né troppo grandi né troppo piccole, e che quindi può non avere un interesse economico importante nell’intervenire nuovamente. “Un punto di partenza possono essere proposte che invitano i proprietari a sentirsi responsabili verso la comunità” conclude Chiaroni. Il futuro energetico ci riguarda da vicino.

idrogeno verde

Idrogeno verde come principale vettore per la decarbonizzazione

Arrivare a coprire entro il 2050 fino a circa un quarto del fabbisogno totale di energia, riducendo nel contempo le emissioni di CO2 di 560 milioni di tonnellate. Sono queste le potenzialità, delineate nel report ‘Hydrogen Roadmap Europe: Un percorso sostenibile per la transizione energetica europea’, che fanno dell’idrogeno verde un’indiscutibile alleato sulla strada verso la decarbonizzazione. Un’arma cruciale soprattutto per alcuni comparti industriali come la chimica e la siderurgia, ma anche nel campo dell’aviazione e dei trasporti marittimi.

L’idrogeno verde è il primo vettore della transizione energetica in virtù delle sue caratteristiche: è infatti sostenibile al 100% perché derivante dall’elettrolisi dell’acqua in speciali celle elettrochimiche alimentate da elettricità prodotta da fonti rinnovabili. Oggi le principali forme di produzione di idrogeno sono basate sull’utilizzo di materie prime e combustibili fossili, e vanno dunque a impattare sull’ambiente. Mentre il cosiddetto idrogeno blu prevede l’adozione di sistemi di cattura del carbonio alla fine di questo processo, ma con costi di cattura e stoccaggio della CO2 ancora proibitivi.

Cosa frena allora il pieno sviluppo di un’economia basata sull’idrogeno verde? Anche in questo caso la controindicazione viene dagli elevati costi. Secondo un’elaborazione di Snam del 2019, soltanto nel 2030 l’idrogeno verde sarà conveniente come quello grigio, ricavato dal metano. Fino a pochi anni fa l’ostacolo principale era l’elevato costo di produzione delle energie rinnovabili. Ma ora che questo problema è stato in gran parte superato, all’orizzonte si affacciano altre sfide. L’Agenzia Internazionale dell’Energia ha individuato tre principali categorie di problemi da risolvere. Il primo è l’incertezza politica e tecnologica, che rischia di rendere lo sviluppo di progetti innovativi non sufficientemente attrattivo dal punto di vista finanziario. Altro nodo da sciogliere è la complessità della catena del valore e la necessità di sviluppo di un’infrastruttura adeguata al trasporto e alla distribuzione dell’idrogeno verde. Infine, vanno definiti regolamentazioni e standard condivisi ed accettati a livello internazionale.

idrogeno

Serve dunque uno sforzo coordinato a livello globale, con l’Europa che è pronta a fare la propria parte. La strategia sull’idrogeno varata da Bruxelles prevede investimenti tra 180 e 470 miliardi di euro fino al 2050, sia per aumentare la capacità di elettrolisi, sia per adeguare la produzione di energie rinnovabili al fabbisogno degli stessi elettrolizzatori. Il piano italiano per avviare l’economia dell’idrogeno a basse emissioni di carbonio mette invece sul piatto 10 miliardi di euro fino al 2030, con un impatto stimato anche sul mondo del lavoro legato alla creazione di 200mila posti di lavoro. Tra i progetti capofila c’è quello su Acciaierie Italia, l’ex Ilva: la nuova società che mette insieme capitali pubblici e privati punta forte sull’idrogeno e, attraverso investimenti per 4,7 miliardi di euro, mira ad arrivare a produrre 8 milioni di tonnellate di acciaio nel 2025, abbattendo di circa il 40% la CO2 e del 30% le polveri sottili. Mentre il target decennale è la totale eliminazione del carbon coke, virando sull’idrogeno. Anche un player di primissimo piano del comparto energetico come Enel ha già avviato progetti sull’idrogeno verde, puntando su un modello ‘diffuso’ che prevede gli elettolizzatori installati vicino ai siti di consumo, in modo da ridurre la necessità di infrastrutture di trasporto di H2 e aumentare stabilità del sistema di alimentazione elettrica. Il gruppo prevede di aumentare la propria capacità di idrogeno verde a oltre 2 GW entro il 2030.

Enel lancia ‘Net Zero’: stop emissioni reti, parola chiave è ‘condivisione’

Enel lancia la ‘sfida’ della collaborazione tra player mondiali dell’energia, con l’obiettivo di arrivare a zero emissioni delle reti. E’ Net Zero, l’ambiziosa strategia del colosso italiano dell’energia elettrica, che vedrà anche la creazione di un’associazione, la ‘Open Power Grids’, che avrà come scopo quello di condividere con gli stakeholder, in un ambiente open source, gli standard Enel per i componenti delle reti di distribuzione così da accelerare l’adozione di nuove soluzioni tecniche sicure, sostenibili ed efficienti. “Net Zero è al cuore della strategia di Enel”, dice il ceo, Francesco Starace. “Abbiamo anticipato la data alla quale vorremmo arrivare a zero emissioni di carbonio dal 2050 al 2040, tenendo conto di emissione dirette e indirette, senza usare misure off setting, di compensazione“.

La competizione non è lo strumento adatto, secondo i manager dell’azienda, a raggiungere il target della sostenibilità ambientale. Ecco perché “siamo disponibili a condividere le nostre esperienze con tutti gli attori interessati”, sottolinea ancora Starace. Aggiungendo: “Riteniamo che condividere con altri operatori rappresenterà la chiave per trovare insieme la soluzione migliore” e arrivare a centrare l’obiettivo di zero emissioni delle reti di distribuzione. “Lavorare in collaborazione è essenziale, non potremo agendo da soli, raggiungere il nostro obiettivo. Dovremo tutti allearci, per procedere in modo più spedito su questo percorso”. Enel, infatti, ha condiviso azioni concrete per contrastare le emissioni dirette, adottando operazioni più sostenibili attraverso la digitalizzazione, le operazioni a distanza, l’elettrificazione delle flotte, le misure di tutela della biodiversità e riducendo le perdite tecniche delle reti.

L’azienda, inoltre, sta coinvolgendo fornitori, produttori di apparecchiature e imprese di costruzione della sua catena di approvvigionamento al fine di contrastare le emissioni indirette e implementare processi e componenti di rete più sostenibili come quadri elettrici privi di Sf6, oli vegetali per trasformatori e cavi ecologici o standard per cantieri sostenibili. “Le reti devono essere completamente digitalizzate e dare un vero contributo” all’obiettivo di emissioni zero, ma questo avverrà solo “se per i clienti ci sono vantaggi in termini di prezzi, do sicurezza e sostenibilità ambientale, perché vogliono energia pulita”, spiega ancora il manager di Enel. “In aggiunta a questo, le reti devono anche decarbonizzare se stesse, cosa su cui dobbiamo ancora lavorare. La sfida è eliminare quelle emissioni dirette e indirette che vengono dalle reti di distribuzioni”. Ma “l’obiettivo – sottolinea Starace – si può raggiungere se tutte le reti del mondo si focalizzano su questo obiettivo”.

L’azienda ha notato come alcune delle azioni messe in atto per abbracciare i principi dell’economia circolare in tutta la propria attività, quali l’utilizzo di materiali riciclati per nuove risorse come contatori circolari, pali o armadi stradali o la gestione del fine vita dei componenti, possono produrre importanti benefici ambientali ed economici. “Il nostro obiettivo per le reti mira ad accelerare l’adozione dei principi stabiliti dall’Accordo di Parigi in tutto il settore al fine di favorire la transizione energetica e una trasformazione significativa delle infrastrutture di distribuzione dell’energia elettrica. Questo rappresenta la prima mossa da parte di un operatore della rete elettrica di livello globale per gestire le emissioni a monte e a valle dell’infrastruttura in modo aperto, che è necessaria se vogliamo raggiungere l’obiettivo di zero emissioni nette in tutto il settore“, dice Antonio Cammisecra, Responsabile Global Infrastructure and Networks di Enel. “Abbiamo fatto molto per identificare le migliori soluzioni tecniche per le nostre reti, ma per avanzare rapidamente dobbiamo condividere questa sfida con altri operatori in un ambiente aperto e collaborativo verso reti Net Zero”. La sfida del futuro, dunque, parte dalla condivisione.